9 Settembre 2022 -

GLI ORSI NON ESISTONO (2022)
di Jafar Panahi

L’11 luglio 2022 Jafar Panahi viene arrestato, a Teheran, mentre si trovava in Procura per chiedere lumi sull’identica sorte toccata ai colleghi registi Mohammad Rasoulof (Orso d’Oro 2020 con Il male non esiste) e Mostafa Aleahmad. Questi ultimi erano accusati di aver partecipato, nemmeno fisicamente ma attraverso i loro account social, alle proteste seguite al crollo di un palazzo ad Abadan, con 43 esseri umani periti tragicamente sotto le macerie. A Panahi viene comminata, invece, una pena di sei anni di detenzione, emessa nel 2010 per “propaganda contro il sistema” e finora non eseguita, ma che l’aveva comunque costretto sotto la spada di Damocle di un regime di libertà condizionata revocabile in qualsiasi momento. Regime che il cineasta aveva puntualmente disatteso girando i suoi film immediatamente precedenti (This Is Not a Film, Closed Curtain, Taxi Teheran, Tre volti) e questo, No Bears, in Concorso alla 79ma edizione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia. Presentato l’ultimo giorno, sembra collocato apposta per rimanere ben piantato nel cuore e nella mente della Giuria capitanata da Julianne Moore. Una domanda è legittima: un eventuale premio importante sarebbe un aiuto o uno svantaggio per la delicata situazione in cui si trova il cineasta? Solleciterebbe clemenza in conseguenza della pressione mondiale o una recrudescenza per mostrare l’inflessibilità di uno dei governi più liberticidi (e, non a caso, teocratici) dell’intero globo? Quesiti, beninteso, che una Giuria non dovrebbe porsi, impegnata com’è a giudicare i meriti artistici, anche se sappiamo che non sempre è così, e la misura di quanto ingerenze esterne e interne alla Mostra influenzino il risultato finale alimenta da sempre storie e leggende le più varie, tra aneddoti documentati e ricadute in vero e proprio complottismo paranoide. La cosa più importante, in questa sede, è dunque una: No Bears (in originale Khers Nist, mentre in Italia uscirà come Gli orsi non esistono) è un bellissimo film, parimenti semplice (e abitato da gente semplice) e stilisticamente stratificato, che rielabora più volte il concetto di “confine”, in senso fisico e geografico, psicologico e sociale.

S’inizia con un immediato, vertiginoso ritorno nel (meta)mondo cinematografico di Panahi: in una città turca, un uomo e una donna, compagni nella vita, tentano di fuggire dal Paese per arrivare in Europa con dei documenti falsi, litigano sul fatto che una possa partire prima dell’altro e poi … STOP! Entra in campo un uomo, che scopriremo essere l’aiuto regista, e comincia a parlare con lo sguardo in macchina, rivolto verso noi spettatori. Dall’altra parte c’è naturalmente Panahi, autoesiliatosi in un piccolo villaggio a pochi chilometri dal margine del Paese, chilometri che non possono essere percorsi se non con un accordo, e un pagamento, con i contrabbandieri e trafficanti di esseri umani. L’occhio invisibile di questi ultimi replica quello governativo, anche per l’estremo grado di corruzione che investe entrambi i consessi, quello statale e quello criminale: il regista continua a replicare il suo stile, mettendo il suo stesso corpo dentro le/fuori dalle immagini, cosciente che in questa situazione non basta l’espressione, bisogna “metterci la faccia”. Il meccanismo finzionale è spesso vertiginoso: la macchina da presa diretta a distanza, quella extradiegetica e canonica che riprende le disavventure di Panahi nel paesino e tutta una serie di altri occhi interni alle immagini, intenti a scrutare, registrare, documentare, persino spiare. Se nella civilizzata città i problemi sono politici, di espressione, di libertà di condurre la propria vita senza farsi soffocare dalla cappa di regime, in provincia si trova il controcampo speculare, che alimenta ed è alimentato dalla teocrazia che infesta le istituzioni: la superstizione, la tradizione a cui non si sfugge e che non si può mettere in discussione pena conseguenze gravissime, anche estreme. Gli anziani del villaggio che ancora organizzano e dominano le generazioni successive, in un eterno ritorno ormai cristallizzato. Mentre nel film “di finzione” i due amanti clandestini cercano una via d’uscita, nella quotidianità di provincia (ancora finzione naturalmente, ma presentata con illusione cronachistica, con attori non professionisti, con ambientazioni all’apparenza non curate, e quindi curate probabilmente più di quelle propriamente scenografiche) il regista viene preso in mezzo ad un triangolo amoroso, con una ragazza contesa tra lo sposo assegnatole e l’amore vero e proprio. Panahi potrebbe aver immortalato la coppia clandestina, e la sua relativa pace esistenziale viene completamente sconvolta da questo (apparentemente) piccolo evento. Le due storie sono destinate ad incrociarsi e a condividere il magnifico finale, che sarebbe in questo caso delittuoso anticipare.

C’è una sequenza che racchiude più delle altre il senso dell’operazione: Panahi viene scortato al confine, mette il piede fuori, poi rientra con un passo indietro. La modalità clandestina e gli accordi con la malavita locale sono un’inaccettabile modalità di fuga, da sempre rifiutata da un artista e intellettuale che cerca di combattere dall’interno, con le armi del suo cinema, una quotidianità che non condivide. L’ostentazione della propria figura e del corpo all’interno del proprio cinema può anche suscitare qualche legittimo dubbio di protagonismo, ma l’attivismo antagonista prevede il rischio in prima persona, e le ultime vicende giudiziarie testimoniano un coraggio tutt’altro che comune, messo in campo per sé e per gli altri. È proprio il senso del titolo: non ci sono orsi, la paura blocca e terrorizza anche in assenza di un vero e proprio pericolo, avvelena l’anima, getta gli umani nella disperazione da cui, molto spesso, si esce solo con la violenza più bruta e gretta, subita o perpetrata. Le immagini possono contribuire a gettare luce, a fare chiarezza, ma vanno usate con proprietà di linguaggio perché il pericolo insito in un’immagine sbagliata è gigantesco. In una delle giravolte stilistiche di un’opera che ne annovera parecchie, Panahi affida la camera al figlio della sua affittuaria per riprendere una promessa di matrimonio, lui non può presentarsi perché forestiero e potenzialmente additabile come spia (i regimi autoritari, da sempre e con ogni sistema economico e sociale, puntano a mettere i cittadini uno contro l’altro in un clima di sospetto e delazione, per poter più facilmente manipolare). Le immagini sgranate e sballate riprendono una tradizione di cui nemmeno l’anziana signora con cui Panahi s’intrattiene sa spiegare l’origine: gesti ripetuti meccanicamente, senza più chiedersi il perché, perfetta metafora sia della depotenziata opinione pubblica che degli “orsi” invisibili posti a guardia dei luoghi più sperduti. Ci auguriamo di vedere prestissimo un nuovo film di Panahi, di poter ammirare l’ennesimo sberleffo che l’ingegno e la creatività possono perpetrare nei confronti del Potere. Ne abbiamo bisogno anche noi, anche qui in Occidente, come monito per difendere strenuamente il sistema democratico laico e la sua inviolabilità.

Donato D’Elia

Si comunica che il film GLI ORSI NON ESISTONO di Jafar Panahi, distribuito da Academy Two, è stato designato “Film della Critica” dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) con la seguente motivazione:
«Ragionare sul metacinema è ragionare anche su se stessi? Se lo chiede e ce lo chiede Jafar Panahi, che nell’ultimo atto di libertà prima della prigione firma un racconto popolare e teorico a un tempo, dissidente e umanissimo, su un triplice piano intersecato tra realtà e finzione, in cui l’espressione artistica diventa uno strumento politico ed esistenziale».
“No Bears” (2022)
106 min | Drama | N/A
Regista Jafar Panahi
Sceneggiatori Jafar Panahi
Attori principali Jafar Panahi, Mina Kavani, Bülent Keser
IMDb Rating N/A

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