13 Ottobre 2016 -

NEL CORSO DEL TEMPO (1976)
di Wim Wenders

Wim Wenders è e sarà sempre tra i più importanti esponenti del Nuovo Cinema Tedesco; per noi di CineLapsus non sarà mai paragonabile a Herzog o a Fassbinder (e altri potrebbero dire anche Farocki e Schroeter), ma la sua filmografia è tra le più particolarmente variegate e approfondite tra i grandi registi del passato ancora in attività: dai silenzi magnetici di Alice nelle città (1974) alla rilettura de L’amico americano di Patricia Highsmith con il film omonimo nel ’77, dal romanticismo minimale di Paris, Texas (1984) al documentario su Ozu Tokyo-Ga (1985), dal culto assoluto raggiunto con Il cielo sopra Berlino (1987) al suo sequel Così lontano così vicino (1993), dal tributo portoghese rappresentato da Lisbon Story (1994) al documentario a ritmo di son cubano Buena Vista Social Club (1999), dalla debole eccentricità indie/freak di The Million Dollar Hotel (2000) all’incontro siculo tra un fotografo e la Morte con il volto di Dennis Hopper in Palermo Shooting (2008), fino agli ultimi documentari “a forma d’uomo” che vanno dal teatrodanza della Bausch con Pina (2011) alla fotografia di Salgado con Il sale della terra (2014), con in conclusione l’ultimo sforzo visto quest’anno al Lido, il discutibile ma interessantissimo Les beaux jours d’Aranjuez, sospeso tra il metateatro e un ossessivo jukebox. Di recente, al Cinema Arsenale di Pisa (sala da salvaguardare, necessaria per tutti gli appassionati toscani) è stato proposto un restauro di un vecchio film di Wenders, Nel corso del tempo, ultimo capitolo della trilogia dei ‘road movies’ che costituisce la principale rampa di lancio nell’Olimpo del Nuovo Cinema Tedesco per il regista di Düsseldorff. È stata un’ottima occasione per “ritrovare” un film davvero importante ed estremamente contemporaneo, sempre utile per capire meglio il comparto teorico ed emotivo della cinefilia di Wenders.

Nel corso del tempo descrive, con una sorta di magico realismo melanconico in un magnifico bianco e nero, l’incontro e la breve amicizia tra Bruno e Robert. Il primo sta facendo un viaggio di lavoro in camion attraverso la Germania Ovest seguendo il confine con la Germania Est dando una mano ‘tecnica’ nelle sale cinematografiche di tutto il paese, il secondo ha avuto scarso successo tentando di uccidersi guidando la propria macchina in un lago dopo essere stato lasciato dalla moglie e non ha di meglio da fare che seguire Bruno, unico testimone del suo goffo suicidio mancato. Guardando Nel corso del tempo è quasi difficile riscontrare delle influenze nel cinema precedente; è un film profondamente moderno, che prende (se proprio dobbiamo cercare e trovare delle radici) la propria grandezza dall’alienazione e dalla non-comunicazione di Antonioni e i propri spazi emotivi e intimi dal detto-non detto del Rossellini di Viaggio in Italia (1954). I profili psicologici di Bruno e Robert non sono definiti dalla loro storia o dalla loro vita ma dal loro atteggiamento generalizzato, dall’umanità che traspare dai loro brevi e lunghi silenzi, dai gesti di disperazione che si vedono nelle brevi vignette solitarie della loro pseudo-quotidianità, dalla ripetitività della musica e dalle loro differenze. Wenders descrive la loro umanità senza peli sulla lingua, mostrando di entrambi anche le ritualità più intime e sporche, le attività corporee semplici come il defecare e l’urinare, la nudità. Il dialogo è ridotto all’osso e spesso sembra quasi una parodia iconica dello stesso concetto di cinema iconico, ed è il cinema americano dei road movies, il cinema di Easy Rider (1969) e, volendo, de La rabbia giovane (1973), una parodia della virilità pacchiana dei personaggi di culto. Ma soprattutto, Nel corso del tempo è un ritratto di una passione per il cinema che ha dell’incredibile; una passione che è tra i punti chiave dell’intera opera di Wenders, ma che qui forse è rappresentata nella maniera più pura e semplice. La scena chiave, una delle più potenti in tutto il cinema di Wenders, è probabilmente quella in cui i due, chiamati ad aggiustare l’altoparlante dietro lo schermo di un cinema per una proiezione scolastica a dei bambini, spaventati dalla possibilità di metterci troppo tempo a riparare l’audio, decidono di donare uno spettacolo ai bambini semplicemente creando una serie di gag slapstick con le loro sole ombre per intrattenere i bambini che le vedono attraverso lo schermo, giocando con le proporzioni e i giochi ottici, ottenendo un efficace risultato comico. È un ritorno all’origine e alla goliardia, anche momentaneo, come fuga da questo stereotipo oscuro che sembra assillare Bruno in maniera irrazionale, lo stereotipo del cinema che “non è più quello di una volta” – e a malapena si riesce a credere che sia un film del ’76, per come viene trattato il passaggio dal bianco e nero al colore o dal muto al sonoro, con un tratto pessimista che è molto più simile a quello che si ha nel cinema contemporaneo nel commentare il cinema passato (vedere le varie operazioni nostalgia di Hollywood, incoronate dal premio Oscar 2011 The Artist).

È un film politico perché è un film libero, è un film umano perché è costituito da esseri umani ed è un film tedesco perché, tutto sommato, tutta questa libertà e tutta questa umanità sono come delle “liberazioni” o “americanizzazioni” (ad un certo punto uno dei protagonisti dice «gli americani ci hanno colonizzato il subconscio» dopo essersi ricordato il testo in inglese di una canzone di Roy Orbison) dei leitmotiv caratteriali, psicologici ed estetici degli Heimatfilm e degli anti-Heimatfilm scaturiti, appunto, dal Nuovo Cinema Tedesco – Schlöndorff, Fleischmann… Sovvertire lo stereotipo, trasformare il preesistente “classico” nella magia per il futuro, modificandolo, rinnovandolo, ricreandolo, in un modo o nell’altro, con umanità, sincerità e anche un pizzico di coraggio, di libertà fuori dagli sche(r)mi. È questo il cinema, volendo, la creazione di uno spazio (desolato, solitario, silenzioso) anche solo per lasciar passare l’icona, il corpo, più che il concetto (questo, invece, caotico, straripante di sangue e umanità, rumoroso come un motore o una canzone dei Knicks). I “re della strada” sono eroi urbani tra il neorealismo e l’american dream, tra Lisa Kreuzer e un proiezionista che si masturba, sono visualizzazioni maschili, eteree e indivisibili di una maestosità statuaria che il cinema ha e ha avuto e nella quale Wenders ha voluto credere nel 1976 già mascherando la forzatura etica ed estetica di questo suo crederci. Il che è pazzesco, considerando gli eroi e gli anteroi della New Hollywood, le figure dei film action e noir che non hanno mai davvero smesso di esserci e di presentarsi agli spettatori come figure di riferimento, sì, come icone, volti, corpi, manifestazioni del “cinema puro”. Ma, nel corso del tempo, ha dimostrato di aver avuto ragione Nel corso del tempo: gli eroi e i simboli sono destinati a fallire, e il cinema è destinato a ridursi non più ad una virtuosa rappresentazione di questa alienazione attraverso la virilità astratta e appariscente dei fantasmi del cinema passato; ce l’ha dimostrato Wenders al Lido, sotto le note di Perfect Day e Into my arms, con un film su cui è giusto (anzi, necessario) discutere, che ormai, davvero, forse, il cinema è un qualcosa che dobbiamo circoscrivere negli spazi e negli sguardi. E nei pixel, se ci sono. Il resto è difficile da comprendere o da prendere sul serio. E, pur essendo passati 40 anni, la coerenza apparentemente delirante di Wenders va perlomeno considerata ammirevole. Inoltre, volendo, possiamo considerare Nel corso del tempo la manifestazione nella sua carriera cinematografica di quello che sono i “beaux jours d’Aranjuez” nella ‘storia’ del film eponimo, che rappresentano l’amore, la vita, la gioventù, la ricerca di una bellezza e di una profondità, di campo e di cuore. E sì, in questo film c’è tutto ciò.

Nicola Settis

“Kings of the Road” (1976)
175 min | Drama | West Germany
Regista Wim Wenders
Sceneggiatori Wim Wenders
Attori principali Rüdiger Vogler, Hanns Zischler, Lisa Kreuzer, Rudolf Schündler
IMDb Rating 8.0

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