2 Novembre 2017 -

L’ULTIMA SPIAGGIA (1959)
di Stanley Kramer

“There is still time… brothers”, c’è ancora tempo… fratelli. Sta già tutta nel messaggio scritto imperituro sullo striscione teso sulla piazza di Melbourne la straordinarietà di un film come L’ultima spiaggia, che nel ’59 metteva in scena un futuro vicino cinque anni e nemmeno troppo ipotetico nel quale l’umanità si sarebbe estinta in un suicidio nucleare. Forse non è stato davvero “il film che ha salvato il mondo”, specialmente se (ri)visto in tempi in cui Donald Trump e Kim Jong-un giocano al gatto col topo fra velate minacce termonucleari e più o meno aperte provocazioni narcise e spaccone, ma di sicuro il capolavoro di Stanley Kramer è un film che ha contribuito a mantenere un minimo di stabilità in piena Guerra Fredda, che ci ha aiutati ad arrivare fino a oggi senza ulteriori olocausti, che ha aperto gli occhi a moltitudini sui reali rischi della minaccia atomica sbattendo loro in faccia la possibile portata del disastro. Proprio per questo “There is still time… brothers”, c’è ancora tempo… fratelli, anche quando di tempo non ce n’è più, anche quando la tragedia si è già consumata, anche quando la Terra dell’ipotetico 1964 è ormai deserta, senza più esseri umani, e lo striscione sotto il quale poco tempo prima si accalcavano le folle è ormai scosso dal vento nella piazza per sempre vuota.
L’ultima spiaggia si chiude con un’immagine atroce, potente, quasi cinica e sottolineata dall’acidità della colonna sonora, che intinge in un certo senso le lettere che compongono “There is still time… brothers” in un calamaio di rimpianto, di satira amara e sorniona, di duri confronti con la realtà e di tardive lacrime sul latte versato. Ma il messaggio sullo striscione non è mai stato davvero rivolto alle genti dell’agonizzante ’64 di ultimi mesi di (parziale) vita sulla Terra messi in scena nella finzione delL’ultima spiaggia. È sempre stato un messaggio diretto agli spettatori del 1959, quelli davvero ancora in tempo per rendersi conto dell’assurdità della bomba atomica, arma principe di distruzione di massa, come strumento al quale affidare la propria difesa, quelli davvero ancora in tempo per opporsi al distopico corso degli eventi, per scongiurare la vicenda narrata, ma senza più la possibilità di perdere ulteriore tempo. La fine è imminente, in L’ultima spiaggia, la speranza che pioggia e neve abbiano fatto scendere la radioattività di alcune zone ormai deserte del pianeta si rivela nient’altro che mera illusione, i segnali morse che giungono da San Diego nient’altro sono che una bottiglia di Coca-Cola mossa dal vento, e anche in Australia, ultimo avamposto di vita sulla Terra, si aspetta solo che giungano le radiazioni con i loro devastanti effetti per assumere il veleno capillarmente distribuito dal governo, eutanasia con cui soffrire un po’ meno. Per stimolare lo spettatore del presente a cercare di garantirsi un reale futuro, ne L’ultima spiaggia è, semplicemente, troppo tardi per tutto. È tardi per scampare al destino, è tardi per veder crescere i neonati, è tardi per pentirsi, e forse è tardi persino per l’amore. C’è solo la necessità di accettare il triste destino, di cercare di godersi gli ultimi momenti, e di prendere serenamente le decisioni su dove e come morire.

Girato con un cast stellare composto da Gregory Peck, Ava Gardner, Anthony Perkins e un Fred Astaire mai così lontano dalla tipica allegria, dal canto e dal ballo, L’ultima spiaggia è quella distopia in cui il postapocalittico incontra la fantapolitica, in cui mezzo mondo è già deserto e radioattivo, e in cui l’altra metà non può che prepararsi alla fine imminente. Ma non c’è un reale “colpevole”, non è stato l’URSS ad aver annientato l’umanità, così come non sono stati gli Stati Uniti. È stato tutto il mondo a uccidersi da solo con le sue idee malsane, con la presunzione di potersi difendere con l’attacco, con la corsa alle armi nella quale tutti i Paesi, inevitabilmente, si sono autodistrutti. Proprio come nella gara automobilistica organizzata dal ferrarista Fred Astaire, fisico nucleare fra i “colpevoli” di aver progettato la bomba A, in ci tutti gli altri partecipanti muoiono in incidenti permettendo allo scienziato di laurearsi campione. Per, da campione, chiudersi in garage con la sua Ferrari e mettere fine ai suoi giorni con il monossido di carbonio del motore: ognuno sceglie il modo che preferisce pur di non passare giorni a vomitare per poi morire fra gli atroci e incurabili dolori delle onde radioattive. C’è chi, oltre ad assumere il veleno, deve prima convincere la moglie a fronteggiare la realtà, a rendersi conto che non c’è più nulla da fare, e che la loro amata figlioletta non indosserà mai l’abito da sposa e nemmeno il grembiule del primo giorno di scuola. C’è chi vorrà tornare negli Stati Uniti per morire a casa, dove si è nati e cresciuti, e non pochi giorni dopo in una terra straniera. E poi c’è chi, sin dall’inizio, moglie e figli li ha già persi, sopravvissuto sino a quel momento solo perché protetto dal sottomarino nucleare del quale è capitano, ma ancora parla di loro al presente, come se non fosse successo nulla, magari sottolineando come il “vero marinaio” di famiglia sia quel figlioletto che ormai sopravvive, e per poco, solo nei suoi ricordi.
Inizia con un’emersione, L’ultima spiaggia, e insieme al sottomarino capitanato da Dwight Towers (Gregory Peck) emerge anche l’ultima attrazione, e forse l’unico vero amore, della matura e provocante bevitrice Moira Davidson (Ava Gardner), disposta a tutto per sedurlo ma conscia di non poter vincere contro il ricordo di una moglie perduta eppure ancora viva nella sua memoria. Se da un lato Towers nega poeticamente l’evidenza sulla sua famiglia spazzata via dall’uranio e dal plutonio, dall’altro è ben pronto a fronteggiare la realtà quando gli verrà richiesto di tornare nell’emisfero boreale per misurare la radioattività all’estremo Nord del mondo, con tanto di intelligenza nel lasciare chi preferisce morire a casa libero di ammutinarsi per passare i suoi ultimi giorni a pesca nella sua San Francisco. Diventerà, suo malgrado, Ammiraglio e comandante in capo della flotta statunitense, non per particolari meriti, non per particolare eroismo, ma semplicemente perché rimane l’ultimo sopravvissuto in un mondo che non c’è più. Sarà un incarico temporaneo, ne è consapevole, come temporaneo e sempre più provvisorio è il progressivo inoltrarsi nella spirale di dolore messa in scena da Kramer fra inquadrature splendidamente fuori asse come a testimoniare le storture del mondo e soggettive periscopiche su ciò che non esiste più, fotografate da Giuseppe Rotunno in un bianco e nero pulsante, quasi vivo nella sua grana, restituito nel suo splendore originale sullo schermo del Trieste Science+Fiction Festival 2017 nella stessa sfarzosa copia 35mm passata lo scorso febbraio nell’ambito della retrospettiva della Berlinale.

Nulla è realmente distrutto, ne L’ultima spiaggia, e anzi i paesaggi sono perfettamente intatti, ma è quasi tutto disabitato, inquietante come un vecchio set cinematografico ormai fantasma, inservibile alla vita umana come quella Londra nella quale Mary, moglie del Tenente di Vascello Peter Holmes (un giovanissimo Anthony Perkins), si illude di poter scappare nel momento in cui le radiazioni iniziano a giungere anche in Oceania, mentre in realtà sa benissimo che la vita nell’emisfero nord del globo è ancor più impossibile, già finita da tempo. E il terribile e straziato “Mi stai dicendo di uccidere mia figlia?” diventa l’ultimo estremo atto d’amore, l’unica possibile cosa da fare: non avrà mai futuro, nessuno lo avrà più, non si può fare altro che accettarlo. Con l’eutanasia, pratica di assoluta umanità alla quale oggi, dal 1959, non siamo ancora arrivati. Stanley Kramer, nell’ambito fantascientifico, gioca coi generi, regista e produttore non solo del film ma anche delle emozioni dello spettatore, per stimolare la sua coscienza. Vira dall’avventura al melodramma, dalla speranza allo strazio, dall’illusione al veleno. Parla apertamente di disastri nucleari, di reale cooperazione internazionale (in Australia si ritrovano statunitensi e britannici, tardivamente uniti a collaborare) solo quando il disastro l’ha resa ormai inutile e fuori tempo massimo, di sentimenti umani e di necessità di fronteggiare la tragedia, fra la chiusura e la lotta fino all’ultimo vagito di speranza, fra la rassegnazione e l’accettazione. Senza mai perdere la propria autodeterminazione, la propria umanità, il proprio status di superstiti, o meglio di parte superstite di una candela che sta continuando a bruciare, e che nessun vento riuscirà mai a spegnere in tempo.
Serviva un film senza speranza per far rinascere la speranza, per radicare la consapevolezza, per combattere, da Hollywood, un rischio (non solo) in quegli anni sempre più pressante e annichilente. L’ultima spiaggia si interroga, dandola per avvenuta con conseguenze nefaste non solo al di sopra dell’Equatore, sulla Terza Guerra Mondiale, quella nucleare, quella sul cui ciglio si stava ballando, e forse ancora/di nuovo si balla nelle costanti tensioni internazionali, nelle ripetute guerre, negli attacchi terroristici. È un film di profondissima amarezza, L’ultima spiaggia, di speranze vane, di amori destinati a finire ancor prima di iniziare, di sguardi verso quella culla che mai potrà diventare un letto. E di profonda paura che tutto questo possa diventare realtà. Stanley Kramer, da produttore fra i più importanti del periodo, si rese conto che servivano una parata di star e un messaggio chiaro e lampante, che serviva adattare per lo schermo prima possibile l’On the beach dello scrittore anglo-autraliano Nevil Shute come un piccolo trauma per scongiurare il peggio. “There is still time… brothers”, basta rendersene conto, basta capire dove non bisogna arrivare. Basta sfruttare il tempo rimasto per tornare fratelli, quali siamo. Basta renderci conto della sempiterna urgenza di un film come L’ultima spiaggia, e continuare ad ascoltarlo. “There is still time… brothers”. Ma non è più molto.

Marco Romagna

“On the Beach” (1959)
134 min | Drama, Romance, Sci-Fi | USA
Regista Stanley Kramer
Sceneggiatori John Paxton (screenplay), Nevil Shute (novel)
Attori principali Gregory Peck, Ava Gardner, Fred Astaire, Anthony Perkins
IMDb Rating 7.3

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