14 Marzo 2018 -

LO SCHERZO (1969)
di Jaromil Jireš

Era il 1969, pochi mesi dopo la Primavera di Praga, quando Lo scherzo vide per la prima volta le sale della Cecoslovacchia. Fu un incontro fugace, pochissimi giorni di programmazione prima di un blocco che lo tenne fermo per quasi 20 anni, come a ristabilire anche con la censura quelle stesse gerarchie drammaticamente reinnestate dalla nuova occupazione militare sovietica che aveva stroncato sul nascere qualsiasi forma di ribellione. Non erano più i tempi del giovane e già musicale Miloš Forman o della surreale e variopinta Vĕra Chytilová, e non erano nemmeno più i tempi sovversivi dell’enfant terrible Jan Němec. Così come non sono ancora quelli dichiaratamente orrorifici, libertini e proibiti che lo stesso Jaromil Jireš, regista di Lo scherzo, dedicherà solo l’anno successivo alle surreali Fantasie di una tredicenne fra libertà sessuale e vampirismo, religione e mestruazioni, sogni e incubi destinati a mescolarsi con la realtà. La Nová Vlna, oramai vicina ai titoli di coda fra la forzata diaspora verso Hollywood di parte dei registi e la feroce censura contro quelli rimasti in patria, era stata negli anni precedenti non solo un miracolo cinematografico, ma un vero e proprio grimaldello culturale a disposizione di chi sognava un «socialismo dal volto umano», una destalinizzazione che continuava a tardare, una reale indipendenza. Al pari della letteratura, la Nouvelle Vague cecoslovacca omaggiata dal 36mo Bergamo Film Meeting con un’interessante retrospettiva non priva di qualche rarità era era stata fra i principali punti d’innesco della Primavera di Praga, ricerca sistematica della metafora per poter aggirare le censure parlando del proibito mettendo in ridicolo quel potere ormai in putrefazione. Quello che però conta in Lo scherzo non è più svegliare le coscienze e ribellarsi, ma è l’hic et nunc, è il collocarsi della sua stessa lavorazione fra la Primavera e il ritorno dell’inverno, è il suo filmare le manifestazioni e la repressione innestandole nella narrazione per riferirsi apertamente, fra canti di Partito e vendette trasversali, agli ultimi 20 anni di imbarbarimento di un ideale e di una società. Per quanto generalmente definito “film anticomunista”, Lo scherzo non è affatto un film contrario al marxismo-leninismo: del comunismo prende e mette in scena solo una parte, quella che aveva deragliato fra le aperte derive di Stalin e il lungo grigiore “gentile” di Brèžnev, quella delle colpe storiche e del totalitarismo, quella dei colpi di mano e delle repressioni nel sangue di qualsiasi forma di libertà. Quella contro cui si era rivolta la Primavera di Praga, e inevitabilmente quella che vedeva troppo libertario il programma di riforme di Dubček e che intervenne con i carri armati nel fatidico 20 agosto mettendo fine al sogno.
Lo scherzo, girato nel ’68 durante i mesi di massimo orgoglio cecoslovacco ma concluso e uscito dopo lo spartiacque dell’invasione sovietica – i mezzi militari in piazza, il Partito Comunista Cecoslovacco sconfessato imponendo da Mosca un governo appartenente all’ala stalinista e poi, nel gennaio successivo, le fiamme ad avvolgere il corpo del giovane Jan Palach –, racchiude ben al di là dell’omonimo romanzo del ’67 di Milan Kundera (co-autore anche della sceneggiatura) da cui il film è tratto tutto il nucleo di quei mesi di speranza e di frustrazione, tutte le emozioni di quei mesi di passaggio. Non può che permearsi sempre più, strada facendo, di quell’inevitabile pessimismo dato dalla caduta delle illusioni, dalla fine strozzata della Primavera di Praga fra sangue ed emigrazioni, e dal nuovo e forse ancor più duro dominio militare e politico moscovita. L’ironia pungente che, nelle diverse declinazioni dei singoli autori, era stata e sarebbe stata fino alla fine arma e cifra stilistica della Nová Vlna, qui è intinta in un’amarezza che la avvicina piuttosto a un nerissimo sarcasmo figlio del sostanziale fallimento, dello scoramento di fronte al ripiombare in quella che era la dittatura, nell’occupazione, nell’invasione, nella guerra. In un cinema probabilmente già conscio di quella che sarebbe stata la stretta definitiva della censura, il lungo blocco e silenzio al quale questo e altri film sarebbero stati costretti, oppure alle abiure e ai ricatti dello Stato nei confronti degli autori. Basti pensare a Jiří Menzel, che proprio nello stesso periodo, immediatamente successivo alla repressione della Primavera di Praga, era stato bloccato nella lavorazione del suo Allodole sul filo, le cui riprese potranno continuare solo nel 1974 dopo avergli estorto giuramento di fedeltà al regime.

Lo scherzo è quello che distrugge la vita a Ludvík Jahn, un tempo studente e ora, quasi vent’anni dopo al primo ritorno nella città natale, scienziato intervistato da una più matura ma ancora avvenente giornalista. Da inguaribile donnaiolo, si ritrova quasi naturalmente a farle la corte, scoprendo per caso, da una foto da lei conservata nel portasigarette, l’identità di suo marito, amico e poi nemico che ritorna dal passato. È il momento dell’odio, ed è il momento di rendersi conto di come l’odio nei confronti di una donna sia così maledettamente simile all’amore, la renda così attraente, così desiderabile. Ma non è la carne ciò che interessa a Ludvík, e ancor meno il cuore: vuole sedurla per vendetta, per far soffrire l’uomo che lo ha fatto soffrire, per distruggere il suo matrimonio così come lui, per reazione a uno scherzo, a una battuta, aveva angustiato la sua esistenza. Il flashback riporta Ludvík indietro di quasi due decadi, al suo unico vero amore Markéta, alla di lei assoluta devozione negli ideali del comunismo, e poi a quello scherzo, a quel tragico errore, a quella battuta scritta su una cartolina come un sorriso sul loro tubare. «L’ottimismo è l’oppio dei popoli. Uno spirito in salute puzza di stupidità. Lunga vita a Trotzky», era uscito dalla sua penna, e Markéta aveva deciso di consegnare il suo scritto alle autorità del Partito che lo processeranno in sostanza due volte, prima nella sua stessa abitazione e poi in quell’Università che decise, con tanto di alzata di mano anche di Markéta, di espellerlo e di mandarlo per sei lunghi anni in rieducazione. Sei anni spartiti fra carcere, miniere e un campo militare gestito da un sadico e spietato sergente che incarna tutta le intromissioni del totalitarismo in quel che era rimasto della società comunista, sei anni di sofferenza e di contatto con la morte – in primis il commilitone, marxista di ferro, suicida dopo essere stato espulso dal Partito per aver osato lamentarsi della gratuita barbarie dei comandanti –, sei anni di amarezza e di sogni di vendetta. Ora, l’occasione. O forse la nuova illusione, il nuovo ed estremo paradosso, la nuova mossa inutile in un mondo in cui tutto sembra essere diventato inutile.
Al di là delle profonde differenze rispetto al romanzo, con una completa concentrazione sul filone principale abbandonando o quasi tutte le stratificazioni e le deviazioni narrative, Lo scherzo è una continua riflessione sulla società del tempo, ma non è la sua messa in ridicolo il punto, quanto piuttosto il ricadere pessimistico nella consapevolezza che tutto è stato inutile, e che il sostanziale ritorno agli anni Cinquanta dell’espulsione e della prigionia di Ludvík nient’altro è che il ritorno dell’invasione dopo la Primavera di Praga. La messa in scena di Jaromil Jireš gioca di associazioni della memoria e di controcampi impossibili, sfasati, nei quali un battesimo di gruppo ridiventa per Ludvík il ricordo dell’aula magna dell’Università e di quell’unanime alzata di mano contro di lui che sta alla base del suo trauma e del suo odio, oppure nei quali la penombra può tranquillamente diventare luce piena e sovraesposizione. Quando una situazione ricorda al protagonista un’altra situazione, come in una sorta di disvelamento del dispositivo cinematografico (ma più in generale della narrazione) e del suo utilizzo delle metafore e delle allegorie, Lo scherzo viaggia nello spazio e nel tempo, nella memoria e nei traumi che porta in dote, legando con il montaggio momenti e luoghi differenti dalla fotografia apparentemente incompatibile, con diversi abiti e diverse età. I dialoghi con Markéta, innamorata ben più di se stessa e dei propri ideali che dello spasimante protagonista, avvengono rigorosamente con Ludvík voce fuori campo, mentre la donna parla e risponde senza nemmeno ascoltare chi la ama guardando in macchina, unico centro dei pensieri e delle inquadrature e unica reale causa, con la sua alzata di mano a espellerlo dalla sua vita, dell’ostinata misantropia di Ludvík. Una misantropia che poi è a sua volta causa della sua costante insoddisfazione, della sua infelicità, della sua incapacità di avere da quasi vent’anni amici e amori, ma solo maschere, fredde ipocrisie e sensi di colpa a lungo ignorati e dissimulati, ma inesorabilmente destinati a confluire prima o poi nel deflagrare della frustrazione e della disperazione. Come la sua stessa insulsa vendetta, la giornalista sedotta e ora innamorata non voluta, la scoperta che la donna non aveva più rapporti con un marito già da tempo risistemato con un’ingenua ma magnificamente formosa ventenne. E il rendersi conto da parte di Ludvík di avere perso ancora una volta. Per (non) vendicarsi, si ritrova ora con una donna che trova insopportabile attaccata al fianco, e con il giovane e magrissimo spasimante di lei che non può che sfidarlo a singolar tenzone e perdere. «Non volevo picchiarti», singhiozzerà Ludvík sul suo (non) avversario messo agevolmente ko a pugni in faccia, constatando ancora una volta l’inutilità della ribellione, l’ennesimo fallimento. A un’inutile azione corrispondono sempre altrettanto dolorose e inutili reazioni basate sul nulla, su errori di valutazione, sulla mancanza di fiducia, sull’ipocrisia sociale, sull’equivoco, sulla repressione da parte del potere, della Storia, e forse anche della sfiga, che a differenza della fortuna ci vede benissimo, guarda sorniona e colpisce sempre gli stessi. Che siano uomini o che siano popoli, che siano situazioni personali o che siano situazioni politiche.

Marco Romagna

“The Joke” (1969)
80 min | Drama | Czechoslovakia
Regista Jaromil Jires
Sceneggiatori Zdenek Bláha (dramaturge), Jaromil Jires (screenplay), Milan Kundera (novel), Milan Kundera (screenplay)
Attori principali Josef Somr, Jana Dítetová, Ludek Munzar, Evald Schorm
IMDb Rating 7.3

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