14 Marzo 2017 -

AL FUOCO. POMPIERI (1967)
di Miloš Forman

L’unica vera protagonista, in mezzo alla selva di personaggi miseri e meschini messi in scena in Al fuoco, pompieri, è la Cecoslovacchia di metà anni Sessanta, quando rispetto agli altri Paesi del Patto di Varsavia la destalinizzazione tardava a procedere e l’insoddisfazione popolare si stava preparando a canalizzarsi nella Primavera di Praga che avrebbe avuto luogo nel ’68. Era una Cecoslovacchia intrappolata nella viscida e melmosa tela del potere centrale, invischiata nella mediocrità e nell’ipocrisia delle sue pedine, inevitabilmente destinata al precipitare degli eventi e al costante disvelamento delle sue metastasi umane, etiche e politiche. Una Cecoslovacchia alla quale era necessario guardare, per un Miloš Forman che di lì a poco, con l’arrivo dei carri armati sovietici mentre le fiamme avvolgeranno il corpo di Jan Palach, avrebbe chiuso i bagagli per trovare una seconda vita apolide ma priva di regimi e censure negli Stati Uniti, con uno sguardo sardonico e impietoso, con un cinismo di reazione che sapesse dissimulare una profonda tragicità nei suoi spunti irresistibilmente spassosi. Era un Paese di (in)stabilità e squallore, quella Cecoslovacchia, era un Paese assurdo, da analizzare in tutte le sue assurdità nel solco una satira surreale che riuscisse, tramite le sue iperboli, a restituire il più possibile chiara e scarnificata la realtà politica e sociale, a palesare le oppressioni e i sotterfugi perpetrati dal regime, a mostrare la deriva morale e sociale di un intero popolo, a porsi come un’allegoria del Blocco Sovietico del tempo, poetica e raggelante nei suoi guizzi e nelle sue amare riflessioni.

Nel 1967 nacque più o meno in queste condizioni Al fuoco, pompieri, ultimo film ceco di Miloš Forman e suo primo lavoro a colori, nelle forme di un’agrodolce commedia brillante composta dall’irresistibile accatastarsi di disastri e di incomprensioni forse inevitabili ogni volta che nasce un comitato, e nel piccolo più persone si ritrovano a collaborare per, in sostanza, formare un governo che si divida i compiti per portare avanti un obiettivo organizzativo. E forse, al tempo della genesi del film, nemmeno il più ottimista avrebbe osato immaginare quanto fosse realmente pressante la sua lucidità profetica, né quale sarebbe stato, a distanza di mezzo secolo, il suo futuro di capolavoro universalmente considerato fra gli apici della Novà Vlna, la miracolosa Nouvelle Vague Ceca della quale il primo Miloš Forman, omaggiato dal 35mo Bergamo Film Meeting, è stato fra i principali esponenti. Al fuoco, pompieri è l’impiego di attori non professionisti, è la precisione chirurgica nel mandare a segno le stoccate, è uno sguardo libero, radicale e di chiaro impegno politico. Sono dialoghi deliranti eppure lucidissimi, è ironia amara che pervade sia la satira politica sia la parabola umana di un intero mondo piccolo borghese allo sbando, è sarcasmo sornione pronto a mettere alla berlina un’intera società.

Al fuoco, pompieri, sfruttando la commedia dell’equivoco quasi come una sorta di Fantozzi ceco ante litteram, è nella sua concatenazione di inettitudini una metafora chiarissima, una porzione di (ir)realtà in grado di trasporre sullo schermo tutta quella falsità, tutta quell’imperizia, tutto quell’egoismo opportunista e untuoso proprio di un apparato di potere ormai imbolsito eppure ancora (sempre più?) asfissiante. Sospendendo la narrazione in un limbo fra l’amarezza, la risata anche fragorosa e la lotta politica, Forman mette in scena un potere repellente come le fantasie sessuali di un bavoso anziano che si pettina la calvizie, mentre ormai non solo è incapace di domare le fiamme che avvampano una casa se non con patetiche e inutili badilate di neve, ma nemmeno riesce a usare un banale estintore per salvare la propria insegna, quella dei Vigili del Fuoco che va in fiamme già nell’incipit. I personaggi di Al fuoco, pompieri inanellano una serie di disastrosi errori che in sostanza non importa risolvere ma solo tentare di coprire salvando la faccia; non si interessano minimamente della collettività, si chiudono a riccio nella loro posizione, e da quella continuano a impartire i loro ordini e a esercitare il loro potere sugli altri. È sufficiente che si organizzi una festa con un concorso di bellezza fra le paesane invitate e una lotteria in onore degli ottantasei anni del vecchio presidente perché i premi si volatilizzino, perché emergano l’approssimazione e la disonestà, perché il potere dimostri la sua incapacità di tenere le redini, e perché anche gli avventori sfruttino il buio per correre via senza pagare mentre il barista annusa i loro aliti per assicurarsi che abbiano davvero bevuto solo la limonata che hanno dichiarato.

Ad esclusione del breve e spassoso incipit con il quale Forman introduce il pubblico nella sua creatura al contempo sardonica, amara e spietata, e di un duplice finale di poesia straziata, prima con l’atteso momento della consegna del premio all’anziano festeggiato nella sala ormai deserta e la scoperta che anche la custodia è vuota, e nemmeno l’ultimo regalo è sopravvissuto alla razzia e alla follia collettiva; poi con il ritorno all’altro anziano, il “nonno” senza più una casa, costretto a mettersi nel letto all’aperto, in mezzo alla neve, nell’assordante indifferenza di chi non gli concede nemmeno ospitalità, Al fuoco, pompieri è essenzialmente un atto unico suddiviso in tre macrofiloni narrativi: la lotteria, il concorso di bellezza e l’incendio. Nella caserma dei vigili, con l’intero paese riunito per la festa annuale, procede il ballo mentre le situazioni sfuggono dalle mani incapaci di gestirle come la sabbia sfugge fra le dita: le donne si rifiutano per vergogna di salire sul palco, i premi spariscono nel nulla, le collane di perle si rompono provocando gli inevitabili ruzzoloni di chi passa nei paraggi, l’intromissione di una madre è sufficiente per mettere a nudo tutta la debolezza degli uomini e quando va a fuoco una casa e l’urlo della sirena interrompe la festa, il camion con gli idranti rimarrà bloccato dalla neve. I pompieri messi in scena – ma sarebbero tranquillamente potuti essere essere una qualsiasi branca del potere centrale, dalla polizia alla magistratura, passando per un ospedale o per la redazione di un giornale – sono ormai anziani e incapaci, sessualmente viscidi, inseriti a doppio filo in quella mentalità per la quale “il buon nome dei Vigili del Fuoco passa al di sopra di qualsiasi onestà”. Sottilmente egoisti e mossi dalla più pura cultura del sospetto, non si fanno alcun problema né a far sparire cibo e premi dalla tavola né a incolparsi a vicenda, e sono pronti a scaricare sul proprio vicino, per avere campo libero con le più avvenenti signorine, persino il ballo con la madre “megera” di cui sopra, che voleva – nemmeno troppo a torto – vigilare sul destino della figlia ancora ingenua di fronte a un manipolo di vecchi pompieri arrapati. Salvo poi, ottenuto questo campo libero, rivelare ancora una volta la propria inettitudine limitandosi a commenti adolescenziali in terza età sull’unica in costume da bagno, o sferrando da lontano occhiate appiccicaticce alle candidate impegnate, “per portamento”, in una sorta di marcia militare.

In Al fuoco, pompieri, conosciuto in Italia anche con la traduzione letterale del titolo ceco Fuoco ragazza mia!, Miloš Forman si focalizza sulle storture che falcidiavano il suo Paese e, pochissimi mesi prima della loro esplosione, mentre la febbre sociale stava per raggiungere il punto di ebollizione, le racchiude in una sera di festa destinata ad andare a rotoli da cui attaccarle apertamente. Con l’arma della satira più pungente, le prende e le ridicolizza, le vira all’assurdo, le disumanizza, dipingendole impietoso, senza filtri, senza altri veli che non siano quelli della finzione cinematografica. Ne ha per tutti Forman, nella sua personale lotta contro un intero sistema statale ormai incancrenito: ne ha per gli uomini in divisa, fra i quali nessuna personalità riesce a emergere sull’altra, come se fossero un grigio e informe ammasso di mediocrità; ne ha per l’intera cittadinanza convitata alla festa, fra selvaggi accoppiamenti sotto il tavolo, ulteriori furti al posto di restituzioni e candidate miss non così tanto avvenenti che comunque, al momento della sfilata, fuggono e si chiudono in bagno mentre a ricevere la corona, per esclusione, sarà un’anziana paesana. Fino alla messa alla berlina della falsa solidarietà di una comunità intera, che al vecchietto che ha perso tutto nell’incendio della sua casa, quello stesso vecchietto la cui sedia viene progressivamente avvicinata alle fiamme “perché non prenda freddo” ma di spalle “perché non veda la sua casa bruciare”, dona anziché denaro i biglietti di una lotteria della quale i premi non esistono più, già trafugati da mani ignote. E a nulla servirà il tentativo di recuperarli, a luci spente per (tentare di) lasciare nell’anonimato i colpevoli redenti, se non a infangarsi ancora una volta, a rivelarsi per quello che si è, in una società talmente marcia che persino l’ultimo sparuto barlume di onestà non può che ribaltarsi in vergogna, ignominia, fallimento. Miloš Forman, profeta di quello che sarebbe accaduto l’anno dopo e che lo costrinse, fra interventi militari e censori, ad abbandonare il suo Paese, già nel ’67 distruggeva la burocrazia con l’arma dell’ironia, colorava lo schermo della più ottusa stupidità della gente e dell’arroganza degli incompetenti che si aggiogano il diritto di decidere per gli altri, metteva in scena il caos per mostrare come non possa che generare altro e peggiore caos. Centrando un film straordinario, bruciante, sofferto, mai abbastanza celebrato: il sontuoso e urticante monumento funebre di un’intera civiltà. 

Marco Romagna

“The Firemen's Ball” (1967)
71 min | Comedy, Drama | Czechoslovakia / Italy
Regista Milos Forman
Sceneggiatori Milos Forman (screenplay), Jaroslav Papousek (screenplay), Ivan Passer (screenplay), Václav Sasek (story)
Attori principali Jan Vostrcil, Josef Sebánek, Josef Valnoha, Frantisek Debelka
IMDb Rating 7.7

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