6 Luglio 2016 -

LES ABYSSES (1963)
di Nikos Papatakis

Una fatiscente casa di campagna, un tempo congelato, una spirale di delirio. Sono questi gli elementi portanti di Les Abyssess, lavoro dello sconvolgente Niko Papatakis pronto a far brillare, a distanza di oltre 50 anni dall’uscita, gli schermi del Cinema Ritrovato di Bologna. Nato ad Addis Abeba nel 1918, Papatakis presto si trasferisce in pianta stabile a Parigi. E qui si immerge anima e corpo nell’ambiente esistenzialista della capitale dell’Hexagone, ne frequenta i membri più illustri, li aiuta e si fa aiutare per i suoi lavori. L’Esistenzialismo non è solo una influenza passeggera nella vita dell’autore ma un pilastro portante del film. Il fatto di cronaca che ha ispirato la pièce di Jean Genet, a sua volta ispirazione del film, è semplice. In un cascinale francese, due sorelle lavorano al servizio di una decadente famiglia di borghesia rurale. Ma la combinazione tra le ambizioni delle due serve e le mire della famiglia padronale scatena una miscela fatale di delirio, fino alla più cupa conclusione, con l’ammutinamento delle due serve e il conseguente collasso dell’ordine. L’autore sceglie di dirigere questa pellicola con una particolare dose di inclemenza. Dolorosa inclemenza, nei confronti di tutti, pubblico e personaggi. Il film è pervaso da un’atmosfera bilosa, d’umor nero, che non si stempera mai nemmeno negli inserti semi-comici, guidati dall’unico uomo della casa, la grottesca caricatura del padre di famiglia.
Nulla è ricomponibile, nessun peccato assolto. Papatakis stravolge l’assioma ormai classico dell’esistenzialismo “l’inferno sono gli altri”, estremizzandolo: l’inferno è dentro di noi, e la comunicazione è impossibile, ogni relazione è la confluenza di inferni privati, inconciliabili e segreti. Il regista sa cosa vuole mettere in scena e sa come farlo. Nessun appiglio deve essere regalato allo spettatore ed in questo non c’è ambiguità. Strazia i volti con primissimi piani, si allarga a disvelare tutto il marcio che l’inquadratura può contenere, poi plana su un nuovo personaggio, su un nuovo dramma. Perfino cucinare delle semplici crêpes diventa una azione insensata ed angosciante.

Il film si apre con una sequenza in montaggio veloce, con lo stile che ricorda da vicino quello di un trailer; prima dei titoli, prima di tutto. Le due sorelle che ridono, bagordano, distruggono. Urla. Dioniso, nella sua incarnazione più imbelle e distruttiva. Partono i titoli. Lo spettatore è spiazzato: cosa ha appena visto? A che luogo, a che tempo appartengono quelle immagini? La camera si fa stretta, lenta, il montaggio si fa d’improvviso colloso, si appiccica alle scene, densificandone l’aria. E qui troviamo di nuovo le due sorelle, nella stessa casa. Ma tutto è diverso, la casa è un rudere, la maggiore delle due che accoltella lo schienale di una sedia con uno spillone, mentre va in scena un farneticante dialogo in cui ognuna parla per conto proprio, ma rivolta all’altra. E schiaffi, tanti schiaffi. Di nuovo, la comunicazione è impossibile, solo ascoltando singolarmente i deliri di ogni personaggio riusciamo a farci un quadro coerente della vicenda. E comprendiamo che quello che abbiamo visto all’inizio non è altro che un montaggio rapido di trasformazione. Ma non potevamo saperlo, essendo stati catapultati in media res.
Passo dopo passo, scena dopo scena, il sipario si apre sempre più sulla follia di queste due ragazze. Non riusciamo a capire quale sia il motivo di tanto astio nei confronti dei loro padroni, ma è esplicito. Solitarie sulla scena, il non detto regna; l’unica certezza è il delirio che ingrassa incontrastato. Piano piano capiamo che le sorelle sono state lasciate sole a badare alla casa, centro nevralgico della vicenda, luogo fisico e movente al contempo. Perché loro vogliono ereditare quella casa, com’è negli accordi presi in compensazione del mancato pagamento di tre anni di stipendi. Alla morte dei proprietari, la casa apparterrà loro, e già il pollaio antistante è stato loro nominalmente ceduto. Tutto sarà loro, e potranno vivere finalmente felici come meritano. Ma a questa speranza di felicità si oppongono i padroni di casa che complottano nell’ombra, stirpe rurale in sfacelo, marcia come è naturalmente marcio un bosco autunnale, anche involontariamente. E nonostante tutta la vicenda si svolga dentro la cascina, i personaggi agiscono, pensano e si muovono proprio come animali. Ognuno con le sue caratteristiche, ognuno con le sue armi, ma sono palesemente cinque animali chiusi in una gabbia, ognuno che incolpa l’altro delle sue pene. E quando arriva il promesso sposo della padroncina, si aggiunge la figura del padrone inclemente.

Prima di procedere oltre, soffermiamoci sui personaggi. Abbiamo già parlato delle due sorelle, in ordine di anzianità Michelle e Marie-Louise: l’una dominatrice, bestia cieca e insensibile, legata al mondo dall’amore per la sorella e l’odio per il resto del mondo; l’altra passiva, remissiva ma subdola. Entrambe promanano una sensualità ferina, al limite dell’omoerotismo incestuoso. Dall’altro lato lo sbilenco trittico composto da Monsieur Lapeyre, gretto, stupido e approfittatore, avido fino all’inverosimile; la consorte di seconde nozze Madame Lapeyre, reazionaria impenitente incapace di vivere al di sotto dei suoi standard, e Elisabeth, l’unica figlia, ingenua paladina della giustizia sociale che tratta il male che si trova attorno come se non esistesse, persa nella sua misera e triste semplificazione intellettuale di un mondo ideale.
Alto, grosso, rude, sgraziato, Philippe è il complementare della fidanzata, ma non per questo risulta scevro di difetti. tutt’altro. La sua è la classica figura autoritaria, incline alla violenza, già dalla prima comparsa non risparmia insulti e critiche per alcuno. Non rivolge mai, in nessuna occasione, parole gentili verso la sua promessa sposa o verso i futuri suoceri, viene posto in scena come l’antitesi di un deus ex machina: sembrerebbe essere arrivato per risolvere tutto, ma la sua inutilità contrasta con la smania di controllo che pare non abbandonarlo mai. Il suo primo dialogo più lungo di quattro o cinque parole è una esortazione all’obbedienza, senza alcun altra giustificazione che la sua autorità. Entra accompagnato da degli acquirenti, interessati all’acquisto della magione, come orchestrato da Lapeyre. Ogni personaggio può abbastanza semplicemente essere letto come allegoria di uno strato sociale della Parigi filtrata attraverso gli occhi del regista ma questo può essere un esercizio utile solamente a chi non ha intenzione di lasciarsi trascinare nel gorgo, nel vero e proprio fulcro dell’opera. Questo film è una galassia sull’orlo del collasso, in perenne avvicinamento alle stelle gemelle Angoscia e Assurdo. Dietro ogni angolo si palpa la tensione di una catarsi negata, di un colpo di scena che risolva il conflitto, in qualunque modo. Eppure la catarsi, la risoluzione, non arrivano mai. Il non riuscire in alcun modo a fendere la nebbia che circonda l’origine della disputa (non è esplicito, ma a pelle risulta impossibile fidarsi interamente delle parole di chiunque in questo film) amplifica il sentimento di castrante impotenza che traborda da ogni scena. Sembra la versione perversa di Le Margheritine della Chytilovà, la leggerezza e la grazia della rivolta assumono valore negativo nell’equazione di questo film.

La trama perde ogni rilevanza per l’autore che la sfrutta come pura giustificazione formale per la messa in scena. I personaggi potrebbero anche discutere del prezzo delle arance, e in effetti ci si arriva molto vicino nella scena del pollaio, quando la padrona di casa insiste a chiedere delle uova per preparare crêpes per il marito, come se quella ininfluente azione fosse da sola in grado di ristabilire l’equilibrio della disastrata famiglia.
Una menzione particolare va alla rampolla di famiglia, idolo idiota della bonarietà piccolo borghese, sempre pronta a negare il male, anche quando si manifesta in casa. È questo attaccamento all’idea di vivere “nel migliore dei mondi possibili”, tanto comune nell’Europa degli ultimi 70 anni, una delle pietre dello scandalo di Papatakis. La negazione freudiana del Male è messa alla berlina e inclementemente sbeffeggiata assieme ad Elizabeth, preda del dileggio delle due perverse sorelle, che proprio della sua bonarietà si fan forti per per portare a compimento i loro soprusi. E non sono le uniche ad approfittarne: gli stessi genitori la obbligano a ripensare la sua rinuncia al matrimonio in quanto attratti dal patrimonio del pretendente. Inetta e inabile, dopo pochi secondi sulla scena la sua bonarietà diventa un peso gravoso da sopportare. Benché appena apparsa sulla scena essa esalti pleonasticamente la sua scelta di celibato, l’inconsistenza delle sue decisioni è palese; appena Philippe entra in scena, si tuffa tra le sue braccia a mendicare protezione. Non è l’unica illusa del film, tutti si illudono di qualcosa: di poter comprare, vendere, sposarsi, di poter esercitare la propria autorità, di ereditare, di poter mantenere il proprio stile di vita, di vivere in un mondo magnifico. Ma non è così, e Papatakis ce lo dimostra in pieno, allargando sempre di più il suo campo visivo sull’essere umano mentre aumenta il numero dei personaggi, fino a creare una folla di individui dalle ambizioni frustrate, una marmaglia che si aggira senza costrutto all’interno della villa oramai trasformata in un rudere/prigione: gli abissi.

Con un illusione filmica Papatakis crea una critica all’Illusione stessa, oggetto e scopo dell’agire umano di fronte all’immensità del Nulla. In un certo senso quindi il vero termometro del film è nascosto proprio sotto il naso di tutti, eppure rimane perfettamente celato. Se il film è finzione, come può criticare le quotidiane illusioni del mondo senza porsi anch’esso nella stessa luce di futilità? Non c’è dunque alcuna speranza in questa vita? Quello che a prima vista pare essere una decostruzione dell’illusione, diviene una sua esaltazione, se osservata in un ottica più ampia.
Le uniche persone che riescono a sfuggire all’Illusione ed abbandonarsi all’Assurdo sono le due sorelle, che non si curano nemmeno di nascondere il loro delitto. Ma questa non è una vera fuga, il superamento dell’illusione le getta direttamente nelle fauci dell’Assurdo, il vero nemico. Creare una finzione in cui credere rimane allora l’unica arma a disposizione dell’uomo per sopravvivere all’assurdo, per superarlo indenni. Un monito si impenna come un urlo, il film è morto, lunga vita al film.

Giordano Marconi

“Les abysses” (1963)
90 min | Crime, Drama, Mystery | France
Regista Nikos Papatakis
Sceneggiatori Jean Vauthier
Attori principali Francine Bergé, Colette Bergé, Pascale de Boysson, Colette Régis
IMDb Rating 6.9

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