30 Ottobre 2017 -

LAST FLAG FLYING (2017)
di Richard Linklater

Shadows are fallin’ and I’ve been here all day
It’s too hot to sleep and time is runnin’ away
Feel like my soul has turned into steel
I’ve still got the scars that the sun didn’t heal
There’s not even room enough to be anywhere
It’s not dark yet but it’s gettin’ there.
Well, my sense of humanity has gone down the drain
Behind every beautiful thing there’s been some kind of pain
She wrote me a letter and she wrote it so kind
She put down in writin’ what was in her mind
I just don’t see why I should even care
It’s not dark yet but it’s gettin’ there.
Well, I’ve been to London and I been to gay Paris
I’ve followed the river and I got to the sea
I’ve been down on the bottom of the world full of lies
I ain’t lookin’ for nothin’ in anyone’s eyes
Sometimes my burden is more than I can bear
It’s not dark yet but it’s gettin’ there.
I was born here and I’ll die here against my will
I know it looks like I’m movin’ but I’m standin’ still
Every nerve in my body is so naked and numb
I can’t even remember what it was I came here to get away from
Don’t even hear the murmur of a prayer
It’s not dark yet but it’s gettin’ there.”
Bob Dylan, Not dark yet

C’era una volta il sogno americano. Già, c’era, al passato. Perché ora il sogno è diventato un incubo. È diventato un tirare avanti fra dolore e disillusione, menzogne e rimpianti, speranze infrante e rimorsi, ricordi agrodolci e traumi con i quali convivere. Rimane il profondissimo spirito d’appartenenza, rimane l’indelebile amore per la propria terra, rimane il profondo e lacrimato rispetto per chi è stato disposto a morire per la patria, ma le illusioni di un tempo, la “terra promessa” di libertà e giustizia, si sono disgregate come un castello di sabbia travolto dall’onda della realtà. Il sogno americano di terra accogliente e democratica, libera e progressista, è (ormai/già) semplicemente un ricordo, un’utopia definitivamente crollata l’11 settembre 2001 insieme alle Torri ferite dai Boeing, un’illusione che non poteva che sfaldarsi nella ciclicità dei tempi di guerra e delle bugie di Stato. Non sono più i rampanti anni Settanta di Dazed and confused, non sono più gli Ottanta del recente Tutti vogliono qualcosa, e non è nemmeno quel tempo (ir)regolare e (in)definito sul cui scorrere si impernia(va) quel piccolo miracolo cinematografico che è Boyhood. Come, soprattutto, non sono più gli anni delL’ultima corvè, film del ’73 di Hal Ashby tratto dal libro omonimo di Daryl Ponicsan, proprio come dall’omonimo libro scritto trent’anni dopo come ideale seguito da Daryl Ponicsan, anche co-autore della sceneggiatura, è tratto Last flag flying, nuovo e strabiliante lavoro di Richard Linklater che giunge in prima italiana e ancora privo di distribuzione alla dodicesima Festa del Cinema di Roma solo poche settimane dopo la prima a New York e l’uscita statunitense.
Cambiano parzialmente i nomi dei personaggi, nell’adattamento cinematografico (in)fedele di Last flag flying, e cambia pure qualche ruolo e situazione del passato, con Larry (un sempre più magnifico Steve Carell quasi nascosto sotto i suoi baffi, che lavora di sottrazione e di sguardi tristi dietro al vetro degli occhiali per poi esplodere in una straordinaria risata acuta) non più autore di un piccolo furto scortato verso il carcere, ma amico ed ex compagno di scorribande di Sal e Mueller, che a loro volta non si chiamano più Badass e Mule e non sono più interpretati da Jack Nicholson e Otis Young, ma trovano in Brian Cranston e Laurence Fishbourne gli alter-ego attoriali ideali di tanti anni dopo, fra il sigaro d’ordinanza e gli insulti sbottati. Sono tutti cambiati, rispetto al passato, eppure sono ancora tutti come un tempo. Sal, da soldato dedito all’insubordinazione, al gioco d’azzardo, all’alcool, alle droghe e alla prostituzione, ora gestisce un piccolo bar di poco successo nel quale continua a vivere alla giornata inseguendo come un’inconsapevole vittima i suoi vizi; Mueller, da “bevitore e puttaniere di prima classe”, ha invece cambiato vita e trovato la Fede, e ora è un pastore sposato e al servizio della sua piccola comunità che saprà, punzecchiato a dovere, tornare al turpiloquio di un tempo; Larry ha invece scontato la sua pena per essersi preso una colpa comune, dopo il carcere ha saputo costruirsi una nuova vita fatta di famiglia e tranquillità, e questa ora gli è stata distrutta, portata via per sempre dal tragico corso degli eventi. La sfortuna si accanisce sempre contro gli stessi, sadica, ingiusta, pronta ad abbattersi su chi ha perso a pochi mesi di distanza l’amata moglie e l’unico figlio, ma proprio nella tragedia, e nel road movie che riporterà la salma “a casa”, lontano dal cimitero di Arlington riservato agli eroi di guerra, saprà ritrovare i vecchi amici e commilitoni separati da decenni e con loro qualche nuovo barlume di sorriso. Insieme alla consapevolezza di aver fatto, una volta tanto, la cosa giusta.

Last flag flying è l’ultima bandiera (non più) svolazzante, quella che ricopre la bara del figlio di Larry, quella che “non ho idea di quanto lo Stato e il Presidente siano effettivamente dispiaciuti per la tua perdita, ma questa è la sua bandiera”. È il simbolo dell’eroismo e dell’orgoglio americano, è un simulacro, è una medaglia al valore eterno. Richard Linklater, con una scrittura perfettamente equilibrata e una regia quasi invisibile che non dimentica le necessarie sottolineature, mette in scena un film di rapporti umani e di sensi di colpa, di amicizia e di rispetto, che riflette sul senso più intimo della patria e delle sue menzogne raggiungendo un miracoloso punto di sintesi fra la tragedia personale e paradigmatica di Larry e l’apparente leggerezza della commedia spesso irresistibile e politicamente scorretta di un buddy movie fatto di pastori “che tornano” a tuonare i fucking di un tempo, di organi sessuali ai quali non si riesce più “ad appendere l’asciugamano” e di telefonate di Dio cogitate da Sal. Last flag flying si snoda fra l’amarezza e il senso di colpa di un passato in comune di traumi e morfina rubata a commilitoni morti fra atroci dolori e il costante viaggio di un road movie che, spostandosi per l’East Coast con automobili, furgoni e treni, costituisce un ulteriore tassello di quell’affresco d’America che da sempre l’indipendente Richard Linklater, film dopo film, continua a dipingere sullo schermo. Il cinema del regista di Houston ha da sempre il respiro dell’istantanea – o dell’album di istantanee – sul tempo che scorre, ma a differenza di tanti altri lavori di Linklater Last flag flying non ha bisogno di dilatarsi, né di tornare indietro fino alla genesi o ai primi segnali di crisi nei sogni. Basta un salto indietro di relativamente pochi anni, in un tempo ancora vicino e molto simile al nostro, e bastano pochi giorni di narrazione, perfettamente definiti in quel 2003 di prime ricerche su Internet per ritrovare le persone del passato, in quel 2003 in cui i telefoni cellulari iniziavano a elidere e abbattere le distanze, e soprattutto in quel 2003 con Bush alla Casa Bianca e i ragazzi meno abbienti arruolati nei Marines, spediti a morire nell’Iraq di Saddam Hussein esattamente come trent’anni prima i loro padri erano stati spediti a morire in Vietnam – lasciando il tempo a chi è tornato di vedere nel frattempo pure la generazione intermedia impegnata nella prima Guerra del Golfo.
Quello di Last flag flying è un tempo in cui basta che qualcuno senta chiamare Mueller capendo “mullah” perché si metta in moto la sicurezza nazionale fra arresti preventivi di innocenti, equivoci, malintesi figli della paura. È un tempo di lutti, di terrore, di instabilità, di guerra, di rituali militari sempre talmente tanto uguali da perdere di significato, e soprattutto di bugie, quelle dei media, quelle dell’esercito, quelle di Stato. Quelle di chi riporta la “raccomandazione personale” del Presidente nel riportare il suo profondo dolore, per lo meno. C’è sempre una “minaccia esterna” dalla quale difendersi, c’è sempre “un ultimo sforzo” da portare a termine “per non rendere vani” i sacrifici precedenti, c’è sempre una menzogna data in pasto ai cittadini perché il governo possa continuare a fare ciò che vuole, mentre i Marines vengono puntualmente spediti dall’altra parte del mondo come invasori spacciati per forze di pace. “Siamo l’unica forza occupante della storia che si aspetta di essere amata”, dice lo stesso Sal, quando puntualmente al fronte ci si ritrova in una realtà di odio, di agguati, e di morte che è sempre “da eroi”, quali che siano le sue reali circostanze, che sia stato un “comunista” o un “beduino” a tirare il grilletto. Le guerre servono a far girare l’economia, a distogliere lo sguardo di stampa ed elettorato dalle altre ruberie governative, a sentirsi forti nelle proprie menzogne. Quelle di uno Stato che, sentendosi vero e proprio padrone degli esseri umani e delle loro vite (“Un Marine rimane un Marine fino a duecento anni dopo la sua morte”), mente senza pudore ai suoi cittadini per formarne l’opinione, per addolcirne i lutti, per continuare a tirare acqua al suo mulino, per poter non ammettere, mai, di aver sbagliato. Costruendo prove, inventando circostanze, autoassolvendosi e spacciando gli attacchi per difese. Magari mentre Bush e le multinazionali si accaparrano e si spartiscono un altro po’ di petrolio. O magari mentre il tuo migliore amico si prende una pallottola nella nuca al tuo posto.

Eppure, per quanto la menzogna non sia mai la via, non tutte le bugie sono uguali: sta tutto nella visita dei tre alla madre di chi trent’anni prima è morto senza nemmeno un po’ di morfina ad alleviarne i dolori perché l’avevano usata tutta per sballarsi. O forse addirittura è morto per colpa loro, del loro “cazzeggiare” durante l’adempimento del dovere. Vanno per dirle la verità, per affrontare finalmente le loro colpe, ma messi di fronte ai suoi falsi ricordi non se la sentono di deluderla, di negare di essere stati salvati da suo figlio. Una menzogna raccontata dallo Stato per proteggere se stesso diventa la stessa innocente bugia confermata dai tre per proteggere una vecchietta indifesa, per non distruggere le sue ormai poche certezze residue e i suoi ultimi tempi in vita. L’interesse diventa la più profonda umanità, lo sbagliato diventa giusto, il fine diventa nobile, nobilitando il mezzo. E anche per questo è un film straordinariamente complesso, il nuovo (capo)lavoro di Linklater, fra i migliori della sua intera filmografia: intelligente, acuto, al contempo spassoso e straziante, equilibrato e perfettamente calibrato nei tempi e nelle emozioni, dialogo dopo dialogo, in ogni repentino cambio di atmosfera. Larry non si fida più del governo, dello Stato, e per questo vuole occuparsi personalmente del trasporto della salma di suo figlio lontano da quel viscido e freddo colonnello, lontano da quella terra d’“eroi” e famiglie prese deliberatamente per il culo per “interesse nazionale”. Però, quando alla radio passa un giovanissimo Eminem permettendo a Sal e Mueller di confrontarsi sull’appartenenza fra bianchi e neri, il barista alcoolizzato dice chiaramente di sentirsi appartenente solo “alla razza verde”, quella del corpo dei Marines, con tutto lo spirito di cameratismo e tutta la passione che questo comporta, vero motivo di questo viaggio accanto a Larry, “ultima missione” da portare a termine insieme.
È un film profondamente rispettoso della cultura e dell’umana passione popolare, Last flag flying, è un film che rifiuta categoricamente le tesi, che sa mettere in campo tutto il suo afflato antibellico e tutta la sua critica all’America tenendo sempre presente la parte sana della patria e dell’amore nei suoi confronti. Perché morire per il proprio Paese, nonostante tutto, è un motivo d’orgoglio, è un atto d’amore ultimo e definitivo, come quello di un padre che seppellisce il figlio con la tanto amata divisa dei Marines ma a fianco a sua madre, a casa, e non nel cimitero militare, scoprendo solo successivamente – un padre lo sa – di aver saputo fare la sua volontà. Larry, doloroso e crepuscolare, non vuole seppellire un soldato caduto “in atto eroico” mentre spostava cancelleria e comprava una CocaCola per gli amici, ma vuole seppellire suo figlio, ragazzo per sempre. E non con il vestito di laurea, ma con quella divisa che provava davanti allo specchio, “orgoglioso come un pavone” nei suoi 21 anni di speranze per il futuro, di intima volontà di fare parte fino in fondo della sua nazione, di amici che adesso sono ancora al suo fianco, vivono i propri sensi di colpa, raccontano la verità, scortano la salma, ridono insieme ai veterani, si commuovono di fronte ai rituali, e poi, solo dopo il funerale, consegnano l’ultima lettera. Quella di un figlio che ringrazia un padre che mai e poi mai avrebbe voluto vederlo arruolato, ma ha saputo fino alla fine, fino a oltre la fine, rispettare e supportare le sue volontà. Una lettera che Larry legge con tutto il cuore di chi ha sentito i proiettili sfrecciare, e ne è uscito (seppur con disonore) marito, padre, amico, essere umano. Ormai di mezza età, straziato, ferito, triste, ma mai davvero solo. Il sogno è finito, si è interrotto, si è disgregato. Ma, per dirla con Bob Dylan, it’s Not Dark yet, nonostante tutto. Basta saper ascoltare il cuore e le lacrime. E che i vecchi amici tornino nel momento del bisogno.

Marco Romagna

“Last Flag Flying” (2017)
124 min | Comedy, Drama | USA
Regista Richard Linklater
Sceneggiatori Richard Linklater (screenplay), Darryl Ponicsan (screenplay), Darryl Ponicsan (novel)
Attori principali Bryan Cranston, Laurence Fishburne, Steve Carell, J. Quinton Johnson
IMDb Rating 7.5

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