6 Settembre 2019 -

LA MAFIA NON È PIÙ QUELLA DI UNA VOLTA (2019)
di Franco Maresco

«So solo che Impastato era uno che aveva una radio», dice dall’omertà collusa dell’ormai consueto bianco e nero che lo avvolge in mezzo al colore di chiunque altro l’impresario palermitano Ciccio Mira. Forse il personaggio della realtà più mareschiano di sempre, straordinariamente grottesco nei suoi silenzi e nei suoi continui, tragicamente ridicoli, arrampicarsi sugli specchi. Un depositario di quella sicilianità che non vede, non sente e non parla, di quella sicilianità che non vuole far torto a nessuno, di quella sicilianità fatta di silenzi quasi assoluti e di interessati glissare, traditi però da un gesticolare, da reazioni e da sguardi che dicono più di mille parole. Con il suo continuo omettere, con il suo incessante girare intorno, con il suo perenne sviare e cambiare discorso, con il suo dire tutto e il contrario di tutto senza in realtà dire nulla ma molto più spesso viceversa, finendo nelle domande più scomode e nell’amaro sarcasmo di Franco Maresco per fare chiaramente emergere e capire ogni verità nascosta. Che poi è il motivo per cui Ciccio Mira non potrà mai essere un uomo d’onore, troppo ingenuo e ignorante, troppo privo di spessore e privo di malizia per essere affiliato. Era stato lo stesso Mira cinque anni fa, in Belluscone – una storia siciliana, a dichiarare che «la mafia non è più quella di una volta». Una frase che oggi è l’unico titolo possibile per tornare a esplorare non tanto quel triangolo assurdo fra Cosa Nostra, la politica e le feste di piazza con i cantanti neomelodici del film precedente, quanto più in generale la mentalità del popolino siciliano e quindi di tutto il Paese, con le sue maschere, con le sue contraddizioni, con le sue (in)coerenze, con le sue menzogne, con i suoi piedi tenuti in due o più scarpe pur di non pestarne di pericolosi, con la sua atavica paura di fronte alle minacce, con la sua incapacità di cambiare ed evolversi, e non certo in ultimo con la sua spiazzante e sprezzante percezione delle figure di Falcone e Borsellino, eroi di una nazione quanto «sbirri» e personaggi ingombranti per una città e per un quartiere. Mettendo a confronto l’una e l’altra parte della barricata, il bene e il male, il buono (o meglio la buona) e il cattivo (che poi più che realmente “cattivo” forse è solo una, pur pericolosa, caricatura, ennesima declinazione di CinicoTV). Da un lato Letizia Battaglia, storica fotografa ultraottantenne che da tutta la vita con i suoi scatti combatte la mafia e in questo film con la profonda tristezza imbarazzata che emerge dai suoi occhi di fronte al quotidiano dice più di qualsiasi parola, e dall’altro Ciccio Mira con il suo sottobosco di grotteschi e improbabili artistoidi, fatti di carenze ben più che di cadenze, portati sulle televisioni locali a salutare «gli ospiti dello Stato» e sui palchi delle feste di piazza a esibirsi rifiutando però di scagliarsi contro Cosa Nostra, fra i ripetuti «se non vogliono dirlo pazienza» dell’impresario e dell’ancor più assurdo produttore Matteo Mannino. Con in mezzo la consueta furia iconoclasta di Franco Maresco, pervasa di un’irresistibile ironia corrosiva irresistibilmente spassosa eppure mai così acre e disillusa, straordinariamente comica eppure mai così profondamente sconsolante e agghiacciante quando, fra le più incontenibili risate, ci si rende conto di quanto, fra la pura realtà e qualche probabile elemento di finzione come di consueto dissimulato dal geniale regista palermitano, sia precisa e drammatica la fotografia che La mafia non è più quella di una volta riesce a delineare, con tanto di zampata sulla «sicura stabilità» dell’orrido governo gialloverde caduto proprio nelle ultime settimane, sullo stato delle cose nel nostro Paese. Non si sa cosa sia vero, non si sa cosa sia falso, e non importa in alcun modo. Anche perché pure nella realtà documentata è di menzogne e di finzioni che si parla, a seguire sceneggiature ben più fasulle di ogni possibile messa in scena, come se senza falso e surreale non potesse proprio esistere la realtà. Quello che conta è il senso di vuoto profondissimo e ancestrale di fronte a ciò che siamo, di fronte all’impietoso emergere di quel germe che trasforma l’uomo in mostro. Di fronte a quello schermo che probabilmente nessuno come Franco Maresco, una stilettata dopo l’altra e un freak d’umanissimo disagio dopo l’altro, sa trasformare in specchio.
Franco Maresco, pungente e politicamente scorrettissimo, incalza, mette all’angolo, fa emergere la mentalità chiusa e le dinamiche più smaccatamente italo-siciliane. Fa emergere le ipocrisie, i timori, il fare parte di un sistema malato se non altro come complici di un silenzio assordante, muro di gomma fatto di mezze verità e di aperte menzogne, di facciate e di costruzioni, di stati di coma che a tre quarti di film si scoprono inventati di sana pianta giusto per poter fare cassa cavalcando «il miracolo» di Falcone e Borsellino apparsi in sogno a risvegliare il ragazzo-non-prodigio Cristian Miscel – stonato e lontano dal ritmo più di chiunque altro – per chiedergli di cantare, ma giammai, «per motivi personali più forti anche di Gesù», di dichiarare pubblicamente un no a Cosa Nostra. Fino al suo collasso psichiatrico, alla sua violenza, al suo ricovero, vittima di Ciccio Mira e della pressione che, da debole, sa esercitare su quelli ancora più deboli in una sorta di riproposizione in scala di quelle stesse dinamiche di potere e omertà che lo vedono intraprendente zerbino degli «amici» dai quali cercare benevolenza. La mafia non è più quella di una volta fa emergere il più sfacciato negare (persino le pernacchie dei ragazzini nel momento stesso in cui le stanno rivolgendo a Ciccio Mira intervistato in strada) anche di fronte all’evidenza, fa emergere le secolari reticenze e il tentativo di rigirare la realtà con le parole e con mirati, quanto meravigliosamente inefficaci, depistaggi comunicativi – «Il Signore li ha voluti e questa è la vita», dirà a un certo punto Mira, come se fosse stato Dio, e non Totò Riina, a ordire e a commettere le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Lo specchio di un popolo che, di fronte alla commemorazione del sacrificio dei giudici antimafia dice di non provare alcuna emozione, e che se in faccia a Franco Maresco mantiene in qualche modo un certo (per quanto discutibile) garbo non si fa alcun problema a mandare apertamente a fanculo sia in dialetto sia in italiano il giornalista Pino Maniaci, che da anni con le inchieste della sua Telejato combatte Cosa Nostra sul campo con inchieste e raccolta di informazioni.

È il 23 maggio 2017, venticinque anni esatti dopo la strage di Capaci, il giorno in cui inizia La mafia non è più quella di una volta, UFO cinematografico presentato come ultimo (e nettamente superiore a tutti gli altri, per quanto probabilmente comprensibile solo in Italia) film del concorso veneziano edizione 2019. Il giorno dell’ennesima commemorazione festosa che tanto innervosisce e amareggia Letizia Battaglia, messa di fronte alla farsa in cui il ricordo della tragedia diventa una sagra, una barzelletta, una festa in cui tutti ridono e nessuno piange, passerella per politici e forze dell’ordine in quel quartiere ZEN, letteralmente “zona espansione nord”, che è punto in assoluto più pericoloso e senza legge di Palermo, tanto centrale negli anniversari delle tragedie quanto abbandonato a se stesso tutto il resto dell’anno. Qualcuno somiglia evidentemente a Tommaso Buscetta ma preferisce autodefinirsi sosia di Maradona, qualcuno non risponde, qualcuno minaccia chi tenta di intervistarlo e qualcuno continua a negare, «Dove sono mai stati questi mafiosi?». Mentre Ciccio Mira, che in Belluscone aveva escluso categoricamente l’organizzazione di un concerto per Falcone e Borsellino, è impegnato esattamente in ciò che aveva negato non certo come un pentimento tardivo, ma come una mera possibilità commerciale, e il suo produttore Matteo Mannino, ancora meno convinto di lui, parla delle «cose buone» dei giudici/martiri antimafia citando asili, illuminazioni pubbliche e fognature che nulla c’entravano con il loro lavoro, rifugiandosi in un ridicolo «no comment» quando Maresco chiede apertamente del loro sacrificio nella lotta a Cosa Nostra. Ma nulla potranno fare per dissimulare la loro malafede quando, come novelli Totò e Peppino senza malafemmina ma con i microfoni accesi e di fronte a una videocamera nascosta, scriveranno il discorso con cui aprire la serata strappando letteralmente dal foglio quello scomodo «no alla mafia» con cui decidono deliberatamente di non concludere. Eppure la mafia arriverà lo stesso, «non siamo al Politeama», nel bel mezzo delle performance più improbabili per chiedere di sbaraccare e andare via, con Mannino che scappa e (per lo meno apparentemente) impazzisce di terrore fino a tentare di parlare via radio con gli alieni, e con Ciccio Mira, consapevole di come lo spettacolo debba sempre andare avanti, che sale sul palco a lanciare il Tuca Tuca.
La mafia non è più quella di una volta si inoltra nelle zone più oscure di ambiguità, fra evasive doppiezze e domande che chiaramente non avranno mai una risposta. Con l’ironia corrosiva, tagliente e amarissima, di chi non crede più a una possibilità di cambiamento, ma non può fare altro che prendere contezza di quella che è l’atterrente situazione fra mafiosi, psicopatici, megalomani e mitomani di piazza. Con la consapevolezza, amara, che dietro a una maschera grottesca se ne nasconde sempre una tragica. In un film sul potere e sulle sue dinamiche più deviate, capaci di costruire, plasmare e cambiare la memoria, capaci di “non esserci” e di “non sapere”, capaci di tracinare e fagocitare le proprie pedine fino alla clinica psichiatrica, mentre chi cerca donchisciottescamente il vero nient’altro farà che far perdere un cliente a un’incazzatissima trans. In una babele di voci in cui Ciccio Mira si addormenta, fra Dell’Utri ed Erik, fra Mannino e Cristian Miscel, fra Vittorio Ricciardi e Sergio Mattarella. Già, proprio il capo dello Stato, motivo per il quale Rai Cinema, dopo aver obbligato Franco Maresco al taglio di parti riguardo le frequentazioni fra il padre di Mattarella e quello di Mira, introdotte da una straordinaria animazione scorsesiana che racconta il loro incontro del ’66 dopo un incidente automobilistico e la passione del Presidente per i film di Bergman proiettati nel cinema in cui lavorava Mira padre, ha deciso per evitare possibili incidenti diplomatici di togliere del tutto il proprio marchio al film, presentato solo sotto il logo Luce Cinecittà. Una scelta per lo meno discutibile di correttezza politica a ogni costo, suggerita con il solito sarcasmo apparentemente cinico e invece puramente depresso e sofferente da Maresco che cambierà discorso con un «ma questa sarebbe un’altra storia» che lascia intendere tutto. «I veri palermitani non parlano», dice Mira di Mattarella, fino all’organizzazione di una serata in suo onore – favori non richiesti per tentare invano di ottenere favori ben precisi – esattamente l’anno successivo, il 23 maggio 2018, per il ventiseiesimo anniversario della strage di Capaci che chiuderà il film di Maresco, accettato questa volta da una più serena Letizia Battaglia dopo la sentenza che ha ufficialmente stabilito la complicità fra Stato e mafia e l’apertura, dopo cinque anni di tentativi, del suo spazio espositivo per tutte le arti fra fotografia, cinema e amore, alla faccia di quel che ne pensava quello «scettico di merda» di Franco Maresco. Una ricerca di benevolenza che ha una motivazione ben precisa, il nipote affiliato di Mira incarcerato al 41 bis per il quale l’impresario vorrebbe la grazia, ma tutto questo, ovviamente, non sarà mai direttamente ammesso. Ci si girerà intorno, come sempre, lasciando capire solo chi vuole e può farlo. Perché si tratta di semplici «motivazioni personali», alla fin fine, con cui tentare di aiutare «Nessuno». Da Ulisse fino alla Palermo di oggi, nel nome di ogni innominabile, che poi in qualche modo siamo tutti noi. Rimane l’inno di Mameli remixato con La danza delle streghe e con Pinocchio, rimane quell’unico spettatore di fronte al palco, e soprattutto rimane una profondissima amarezza. Quella di un regista unico che tramesta nel torbido fino a stare male di fronte a ciò che trova, e quella di un intero Paese che affonda. Senza che nessuno, questa volta con la n minuscola, possa farci niente. Se non un capolavoro straordinario, incomparabile, devastante in ciò che lascia quando alle risate si sostituisce la consapevolezza di quanto siano amare. Un film probabilmente ancora superiore, per ambizione e per profondità, al suo già illustre antenato. Un film lucidissimo e straziato, che fa ridere fino alle lacrime mentre fa male come pochi altri, presentato solo questa mattina eppure già nella storia del cinema, d’Italia, del mondo.

Marco Romagna

“The Mafia Is No Longer What It Used to Be” (2019)
105 min | Documentary | Italy
Regista Franco Maresco
Sceneggiatori Uliano Greca, Francesco Guttuso, Giuliano La Franca, Franco Maresco, Claudia Uzzo
Attori principali Letizia Battaglia, Ciccio Mira, Federica Scibilia
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