27 Ottobre 2015 -

IN TRANSIT (2015)
di Albert Maysles

E la Locomotiva sembrava fosse un mostro strano
che l’uomo dominava con il pensiero e con la mano
Ruggendo si lasciava indietro
Distanze che sembravano infinite
Sembrava avesse dentro un potere tremendo
La stessa forza della dinamite
Francesco Guccini – La Locomotiva

L’Empire Buider è uno dei treni dalla percorrenza più lunga al mondo. Nei suoi 3350km, si incunea sinuoso fra Chicago e il Pacifico, e poi su fino a Seattle. I vagoni, in viaggio per tre giorni, attraversano gli Stati Uniti del Nord, quasi a tracciare nelle rotaie un secondo confine con il Canada. Il treno attraversa sette Stati, dai Grandi Laghi fino all’Oceano, passando per i metri di neve che imbiancano le Montagne Rocciose, ospitando nelle proprie membra di ferro un’umanità variegata e sballottata, un’umanità in viaggio, un’umanità che riflette sulla propria esistenza. L’altra faccia degli Stati Uniti: quelli meno abbienti, quelli in fuga, quelli alla ricerca di se stessi attraverso errori, traumi, decisioni difficili, e tanti chilometri. Del resto, il treno è di per sé un’allegoria, un lungo serpente di ferro che, ora placido ora rabbioso, taglia aria e territori, si insinua nei luoghi e nei ricordi, trasportando persone e oggetti, fisico contatto con il mondo.

La macchina da presa di Albert Maysles, scomparso il 5 marzo scorso a 88 anni, si accende per l’ultima volta: il postumo In Transit è un intimo affresco degli USA lontani dall’ipocrisia del sorriso a tutti i costi, attraverso un luogo non-luogo nel quale tanti passano e quasi nessuno resta, il treno come spostamento ma anche come via di fuga, necessità, magari inizio di una nuova vita. Una madre sola con quattro figli avuti da quattro diversi padri, una futura madre molto vicina al parto in viaggio, seppur rischioso, per partorire a Minneapolis, figli in fuga da genitori tossici con un bisogno ancestrale di conoscere persone e luoghi e ormai anziani genitori alla ricerca disperata dei propri figli persi anni prima. Amici che giocano a carte, la socializzazione in un lungo viaggio, il ritorno verso l’amore di una vita dopo sei anni di lontananza, una madre ed una figlia che si giurano eterno amore e una vita migliore, il coraggio di un uomo che ha appena lasciato il proprio lavoro e di una donna che ha appena lasciato il proprio uomo. Ma anche veterani dei marine in sindrome post traumatica, ossessivi quanto emotivi fotografi dilettanti, sonnacchiosi suonatori di chitarra e ukulele, controllori soddisfatti del proprio lavoro, sogno di una vita sin da quando, da bambini, sognavano locomotive giocando con il tanto agognato trenino. L’umanità incontrata dall’obiettivo di Maysles ricorda, soffre, parla, ride, scherza, sogna, fa amicizia, si chiude, sale e scende alle stazioni. Condivide paure, emozioni, speranze, sogni. Raccoglie, ancora una volta, i cocci del sogno americano infranto, dissimulati come in una caccia al tesoro nell’alternanza dei placidi paesaggi mozzafiato che scorrono inarrestabili dietro ai finestrini. Dal lago alla montagna, fino alle luci della grande città, gli Stati Uniti sono i reali protagonisti di questo viaggio e di questo film, sfaccettati e frazionati come la popolazione, ma al contempo accorpati, fagocitanti, bravi ad insabbiare. E bellissimi.

Il Cinema Diretto è forse la forma più pura di Cinema, scevra delle interviste del CineVérité e di qualsiasi tipo di costruzione prima e durante le riprese. Scevra anche, almeno nell’intenzione primaria, dell’impianto lirico e delle implicite prese di posizione à la Frederick Wiseman, con il quale Maysles ha più volte polemizzato in vita, pur raggiungendo in realtà risultati spesso simili ed ugualmente fondamentali. La messa in scena del Cinema Diretto è semplicemente la vita reale, eventi meravigliosamente casuali e microstorie meravigliosamente cinematografiche dei quali il regista in primo luogo è spettatore, voyeur curioso e abile a improvvisare un’inquadratura, l’occhio al potere. Si filma la realtà con una troupe più ridotta possibile, senza intervenire se non al montaggio, cercando di non prendere posizione, di mantenersi invisibili, lasciar parlare i fatti. Albert Maysles, insieme al fratello David scomparso nell’87, ne è stato -insieme a D. A. Pennebaker, Robert Drew e Richard Leacock- fra i pionieri: da Salesman a Gimme Shelter, passando per Grey Garden, i fratelli documentaristi hanno creato un archivio filmico fondamentale che sin dagli anni Sessanta riesce a far emergere tutti i cambiamenti sociali, economici e culturali di una popolazione e delle proprie infinite classi e sfaccettature. Da un venditore di Bibbie ai Rolling Stones, passando per un sottoproletariato ferito, evidentemente il passo è breve, e Albert Maysles ha saputo mantenere fino all’ultimo lo sguardo dello storico del futuro, sempre pronto a cogliere tutte le facce del prisma-mondo affrontato.

Non è la prima volta che il treno appare su uno schermo come microcosmo e allegoria di una nazione, o del mondo. Oltre alla finzione distopica di Snowpiercer del coreano Bong Joon-Ho, durante la visione si affaccia spesso alla mente The Iron Ministry, film documentario di J. P. Sniadecki presentato lo scorso anno ai Festival di Locarno e poi Torino, del quale In Transit si pone come ideale controcampo. Laddove la agile ma acuminata macchina da presa del giovane regista americano era riuscita a cogliere uno spaccato di enorme interesse antropologico sulla Cina di oggi, società di gravi disuguaglianze sociali in rapida mutazione quanto intimamente ancorata alle radici di una tradizione millenaria, quella di Maysles compie lo stesso difficile lavoro in patria, in quegli Stati Uniti nei quali essere felici, o quantomeno fingere di esserlo, è diventato più un obbligo che una realtà, ma rimane nel profondo una necessità ancestrale di tutti. Ma viene più volte in mente anche il monumentale In Jackson Heights, ultimo lavoro in ordine di tempo del già citato Frederick Wiseman. Wiseman ha trovato tutti gli Stati Uniti in un quartiere di New York, luogo piuttosto ristretto quanto meticciato e multiculturale, Maysles li ha trovati su un treno, non-luogo per eccellenza e superamento dei confini. Due strade diverse, per giungere a risultati ugualmente sublimi, da un lato la gentrificazione e dall’altro lo spostamento: in ogni caso cambiamenti che non si possono ignorare, sogni, voglia di libertà. In Transit è un viaggio fra crisi economiche e famiglie difficili, un viaggio nella voglia di tagliare i ponti con il passato e ricominciare, ma anche un viaggio nel passato che non abbandona mai chi lo ha vissuto. Un lavoro malinconico e fondamentale, della cui importanza ci renderemo conto solo quando lo riscopriremo fra qualche anno, quando la realtà attuale sarà ormai diventata Storia, e probabilmente ci sembrerà un crogiolo di stramberie. Per ora, non possiamo fare altro che ringraziare Albert Maysles per quest’ultimo straordinario regalo.

Marco Romagna

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“In Transit” (2015)
76 min | Documentary, News | USA
Regista Albert Maysles, Lynn True, David Usui, Nelson Walker III, Benjamin Wu
Sceneggiatori N/A
Attori principali N/A
IMDb Rating 7.5

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