24 Agosto 2019 -

IL SIGNOR DIAVOLO (2019)
di Pupi Avati

La Fede e la superstizione, l’uomo e il maiale, la cultura contadina e l’inquietante ambiguità di uomini e donne di chiesa, la paura del diverso e l’inarrestabile incedere del Male. E ancora, il sacro e il profano, il sacrilego e il pagano, lo spirituale e il fantasmatico, il soprannaturale e il blasfemo, la liturgia e la legge, la pelle e i denti, la culla e il sangue, i vivi e i morti, la simbologia e la possessione. O forse più semplicemente l’ostia, magari data da mangiare a un verro, e Il signor Diavolo, quel maligno impersonificato che vive e serpeggia fra noi nelle sue mille possibili facce mostruose o cordiali, deformi o ingannevoli, coscienti o inconsapevoli. Per il gradito ritorno di Pupi Avati, 23 anni dopo L’arcano incantatore con in mezzo la meno ispirata “variante americana” de Il nascondiglio e i non pochi scivoloni fra il dramma sentimentale, lo storico-cavalleresco e la commedia, sui sentieri o meglio sui canali a lui più congeniali del Gotico padano. Quelli de La casa dalle finestre che ridono, quelli di Zeder, quelli dei suoi attori di una vita da Alessandro Haber ad Andrea Roncato fino a Massimo Bonetti, quelli delle memorie slabbrate e dei pianti notturni di chi rimane inerme di fronte all’inspiegabile, quelli del brivido più irrazionale che scende lungo la schiena quando ci si ritrova soli nel buio, nei luoghi paludosi, nei colori lividi, nei confini sfumati dalla nebbia. Quelli che più intimamente, da oltre quarant’anni, narrano la provincia rurale del nord Italia immergendosi nell’essenza dei suoi più angosciosi racconti intorno al fuoco, rielaborati da Avati in un thriller-horror torbido e atmosferico, profondamente autoriale e sempre stratificato fra la mappatura sociale e la storica doppiezza della sempre centralissima Chiesa, che ancora sa scoperchiare come un vaso di Pandora la sua inesauribile botola di tradizioni, rituali, reconditi turbamenti e ancestrali affanni. Nessuno è realmente innocente e forse nessuno è realmente colpevole, ma tutti, volenti o nolenti, prima o poi sbagliano, ingannano, mentono. Sempre sul filo dell’ambiguità fra il tangibile e l’immaginato, fra il materiale e il mistico, fra il segreto e la bugia, fra la religione e il pregiudizio, fra ciò che appare e ciò che è, ma soprattutto fra l’illusorietà del divino e il polimorfismo del maligno. In un’indagine, amara e a suo modo filosofica, che parte dall’investigazione messa in scena nella finzione per concentrarsi in realtà sulla natura umana, e su come il Male, più o meno intenzionale, più o meno riconoscibile, vi sia inevitabilmente e indissolubilmente radicato.

Questa volta, tratta dall’omonimo romanzo pubblicato dallo stesso Avati lo scorso anno, siamo nel 1952 nel minuscolo paesino di Lio Piccolo, arcipelago lagunare di ponticelli e stretti canali a pochi chilometri da Venezia, dove direttamente da Roma, dalle stanze del Potere di un Ministero di Grazia e Giustizia colonizzato dalla DC e preoccupato per le possibili implicazioni elettorali del probabile scandalo scaturito dall’inchiesta di un magistrato di chiara fede comunista su un omicidio fra ragazzini di fatto istigato da uomini di chiesa, viene mandato l’ingenuo e cinereo funzionario Furio Momentè con il preciso ordine – «Nessun prete dovrà mettere piede in tribunale» – di insabbiare ogni evidente responsabilità clericale. Carlo, il giovanissimo chierichetto assassino del deforme Emilio figlio proprio di quella «Signora» in grado di assicurare ma anche di togliere centinaia di voti alla Democrazia Cristiana, è convinto con la sua volontaria sassata di avere ucciso il Diavolo, identificato nelle sue setole e nei suoi denti da suino, nella sua capacità di uccidere e di rievocare i morti, nei suoi consigli sacrileghi e nelle sue vendette, ma soprattutto nelle dicerie a lui dedicate, rilanciate dalla cugina suora, dal prete e dal locale sagrestano, che lo vogliono concepito dallo sperma di un maiale e già omicida di una sorellina adottiva sbranata nella culla. Momentè, ingenuo e naïf come un novello Lino Capolicchio senza più bocche ridenti alle finestre, studia seduto nel corridoio del treno del suo viaggio verso Venezia il fascicolo con gli interrogatori del PM, immergendo sin da subito Il signor Diavolo nell’intrecciarsi dei suoi livelli temporali fra il passato che affiora dalle carte e quello che sarà il presente della sua indagine sul campo a scavare nel torbido, nelle oscure (mai) verità, nelle false convinzioni, nelle ipocrisie del Potere, nelle aperte bugie, e non certo in ultimo nelle diverse forme di narrazione fra quella tra-scritta nei verbali, quella orale degli incontri veneziani, quella della forma romanzo in cui Pupi Avati ha immaginato questa storia e poi quella cinematografica che trasforma le parole – da qualsiasi forma provengano – in immagini. E poco importa che, nello scorrere rapido e incalzante del film, qualche punto possa rimanere oscuro o possa forse apparire sbrigativo. Quello che conta è la matassa al contempo esperibile e trascendente di silenzi, contraddizioni, persuasioni, mezze verità e apparenze, che più si cerca di sbrogliare e più si ingarbuglia riavvitandosi nei suoi (in)sondabili misteri universali e vecchi come il mondo, nei suoi coni d’ombra, nelle sue apparenti conferme (o smentite) delle superstizioni mentre nulla è come sembra e il Male si ripresenterà a un nuovo livello, nel pianto di un neonato che non c’è (più) che ancora squarcia la notte come la verità che tenta di bussare alle porte, ma che verrà ancora una volta rinchiusa in un diabolico eterno silenzio.

Desaturato e plumbeo nelle sue glaciali tonalità di grigi e bluastri, Il signor Diavolo torna indietro nel tempo fino al bigottismo contadino del Dopoguerra, e ancor più a un paesino del cattolicissimo Veneto nel quale l’unico reale punto di ritrovo comune e quindi l’assoluto centro culturale e sociale è la Chiesa, per concentrarsi sulle paure popolari di sempre, macabro, lugubre e ostinatamente sinistro, eppure in un certo modo magico e affascinante nel suo inevitabile gorgo verso il baratro. Fra briccole che spuntano dalla laguna e inquadrature scorciate degli interni, primissimi piani e tetri paesaggi in effetto notte, Avati disturba senza fare realmente paura, perché il suo obiettivo è un’irrequietezza più diffusa, primordiale, atavica, incontrollabile. Quella di tutti noi, destinati a scoprire, sulla pelle di Furio Momentè ma forse anche sulla nostra, che il Diavolo forse è solo una superstizione, ma che il Male senza alcun dubbio esiste e non ha un solo volto, non ha un solo corpo, e non ha un solo modo per manifestarsi. Il signor Diavolo è tutti ed è nessuno, è rinchiuso ma è ovunque, è solo un preconcetto ma è reale e contagioso, come un morbo, come una malattia, come quella paura universale e ancestrale con cui ogni uomo nasce, cresce, deve fare i conti per tutta la vita e non potrà che morire. Il signor Diavolo è l’infernale calderone di segreti e bugie fra il Ministero e la canonica, fra il potere politico e quello ecclesiastico, fra il potere terreno e quello spirituale – che poi, a ben vedere, nella sua capacità di far leva sulle paure più ancestrali per smuovere coscienze, voti e convinzioni popolari, forse è un potere ancor più materiale di quello terreno. Il signor Diavolo è l’autopsia evidentemente irregolare nei giochi di potere e nella protezione di una madre, è la chiamata notturna al dentista per estrarre in fretta e furia dal cadavere di Emilio i canini da fiera, sono quelle bugie di successi e congratulazioni ministeriali che anche il fallito Momentè si ritroverà a far raccontare al padre nel suo innamorarsi di quell’infermiera che sembrava disponibile e che invece – ancora una volta le apparenze – è fidanzata. Ma ancor prima Il signor Diavolo è l’umiliazione pubblica dell’emarginato, ed è la sua vendetta con uno sgambetto che diventerà (incolpevole) sacrilegio alle prime Comunioni e poi la morte misteriosa, immediatamente associata alla vendetta divina o ai poteri malvagi di Emilio, del povero Paolino. Il signor Diavolo è l’atto blasfemo di consacrare il maiale per rievocare i morti, sono le pagine del libro di Paolino che riprendono vita come un «segno» di fronte a Carlo, è il suo volto che appare sovrapposto in trasparenza nella sacra teca. Il signor Diavolo sono le dicerie alimentate e smorzate per interesse, è il mostro Emilio che si avvicina verso la culla a sbranare la neonata e poi saprà comunicare con l’aldilà e forse far partire un fatale colpo accidentale da un fucile da caccia, ma è anche il corpicino di lei che non ha mai presentato alcun segno e sconfessa ogni possibile conferma, riconsegnando all’oscurantismo della Chiesa l’unica vera colpa. Un Cattolicesimo superficiale e infido, che teme ed emargina, che manipola il pensiero, che controlla uomini e politica, che mente sapendo di mentire pur di mantenere sempre più saldo il suo potere instillando paure e iniettando per prima il Male nella collettività. Mentre dal sorriso beffardo di chi sta chiudendo per sempre la botola e la verità sembra quasi di scorgere l’emergere di una strana dentatura. La dentatura de Il signor Diavolo. Quello vero. O forse solo uno dei tanti.

Marco Romagna

“Il signor Diavolo” (2019)
86 min | Horror, Mystery, Thriller | Italy
Regista Pupi Avati
Sceneggiatori Antonio Avati (screenplay), Pupi Avati (novel), Pupi Avati (screenplay), Tommaso Avati (screenplay)
Attori principali Gabriel Lo Giudice, Filippo Franchini, Massimo Bonetti, Alessandro Haber
IMDb Rating N/A

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