9 Agosto 2021 -

IL LEGIONARIO (2021)
di Hleb Papou

«Bravo Ciobar!» gli gridano i colleghi mentre Daniel, unico poliziotto nero in forza alla celere romana, si allena sul ring della caserma. Un soprannome che, proprio come l’ostentato machismo delle provocazioni omofobe con cui caricarsi a vicenda, intrinsecamente contiene tutto il retroterra fascistoide e razzista che serpeggia per la polizia italiana, ma che al contempo è emblema del corporativismo di un corpo che, come sottolinea più volte il capo Aquila, è una vera e propria famiglia di cui Daniel fa parte a pieno titolo. Sono i colleghi con cui condivide le giornate, la strada, il sudore, il casco, lo scudo, l’adrenalina, la fiducia, perfettamente consapevole del suo ruolo di outsider – o forse addirittura di ossimoro – tanto da nascondere loro l’esistenza stessa della sua ‘vera’ famiglia, da oltre quindici anni fra gli occupanti dello stabile all’angolo fra via Santa Croce in Gerusalemme e via Statilia, ma al contempo realmente integrato e realmente accettato fra i più ‘duri’ della pubblica sicurezza a prescindere dal colore della sua pelle, al punto di chiedere ad Aquila di essere il padrino al battesimo della figlia in arrivo. Eppure c’era anche lui, a resistere alla polizia durante i primi tempi di occupazione. C’era anche lui a conoscere la povertà, la fame, i litigi, le assemblee, le punizioni, ma anche i delicati equilibri e il reciproco sostegno di centocinquanta famiglie che da anni vivono e combattono insieme per il sacrosanto diritto di avere una casa. Un qualcosa che non si dimentica nemmeno quando ci si ritrova dall’altra parte, a servire quello Stato che ora ordina lo sgombero dell’edificio. Si può avvertire il fratello la sera prima dell’operazione, in modo che gli occupanti si possano organizzare per resistere all’intervento, e si può anche fingere un malore per non presentarsi all’azione. Ma la contraddizione fra le due anime di Daniel è già scattata, una famiglia contro l’altra, una ragione contro l’altra, e non esisterà giustificazione per evitare di partecipare al secondo attacco, quello decisivo, della sua testuggine contro la sua casa. Quel palazzo di cui conosce ogni anfratto e ogni passaggio segreto, quel palazzo in cui è cresciuto, e che ora deve necessariamente essere riconsegnato vuoto ai legittimi proprietari, con metà delle famiglie riallocate per un solo anno, e l’altra metà da subito lasciate in mezzo alla strada. È su questa dilaniante opposizione interiore che si basa Il legionario, primo lungometraggio del bielorusso naturalizzato italiano Hleb Papou, che porta fra i Cineasti del Presente della prima Locarno diretta da Giona Nazzaro il lungo d’esordio con cui espande l’omonimo cortometraggio che lo stesso Giona Nazzaro aveva selezionato a Venezia fra i corti della sua prima SIC. Da una parte la fisicità anche violenta del lavoro, e dall’altra le ragioni del cuore, dell’etica, degli affetti. Da una parte lo Stato, e dall’altra il Popolo, entrambi con le proprie legittime e incompatibili rivendicazioni di legge e di spazio vitale. Da una parte Aquila, capitano della squadra, e dall’altra Patrick, fratello che si mette a capo della resistenza. Da una parte la missione del tutore dell’ordine, e dall’altra l’animo da occupante che continua a pulsare anche sotto la scorza del celerino.

Nasce da un patto fra l’autore e lo spettatore, Il legionario. Perché la contraddizione da cui nasce l’interessante spunto narrativo – un ragazzo nato occupante abusivo che supera ogni questione di principio fino a entrare nel braccio violento del reparto celere – è necessariamente forte, ai limiti dell’impossibile, consapevolmente forzata nelle premesse. Non è un caso in tal senso che il film inizi con uno scontro di piazza. Come se quel ragazzone italiano di seconda generazione nella cui parlata romanesca si cristallizzano due identità in contrasto stesse in realtà già lottando contro se stesso, «infiltrato» o «infame», «sbirro» o fratello, sospeso a metà fra due comunità inconciliabili, da tutte e due le parti ma forse davvero in nessuna di queste. C’è il cameratismo e il sentirsi parte di una squadra affiatata, ma c’è anche il momento di stare zitto e fare finta di nulla di fronte agli agghiaccianti «forza e onore» dei colleghi, convinti che «tanto qui la pensiamo tutti nello stesso modo». C’è la famiglia con i suoi affetti e le sue mura, ma ci sono anche le incomprensioni portate fino al punto di ebollizione dei reciproci sguardi rabbiosi da una parte all’altra del cancello. C’è la comunità degli occupanti che si riunisce per festeggiarsi a vicenda e che sa sempre essere solidale al suo interno, ma ci sono anche gli inevitabili dissidi e le reazioni violente e smodate di chi è ormai abituato a usare la forza. C’è il tentativo di mediare e trovare un compromesso, ma c’è anche il fallimento delle trattative e il rifiuto aprioristico e categorico di ogni altra possibile soluzione, di ogni possibilità che non sia il muro contro muro. Un parlarsi (senza?) capirsi che è un po’ lo stesso del rumeno usato apposta dalla compagna di Patrick per non fargli intendere i dettagli mentre progetta di lasciarlo portando via il figlio, ma che è anche l’informazione in afrikaans da cui salvare la vita del fratello che afferrerà solo Daniel incrociando la madre durante l’azione. A costo di rischiare di perdere tutto, unico modo per ritrovare se stesso fra i sensi di colpa e l’interiore dilaniarsi. Del resto, «La gente come noi non molla mai», da una parte come dall’altra, e a stare in mezzo costantemente tirati dalle due parti il rischio inevitabile è quello di spezzarsi. Di prendersi tre giorni di sospensione per aver attaccato un provocatore razzista che cercava di contestare la raccolta fondi, patrocinata da Sabina Guzzanti, con cui gli occupanti cercano disperatamente di salvare il palazzo. Di fuggire a metà azione per riscoprire la vecchia scala verso il tetto, (in)degno tanto per il fratello quanto per Aquila. Due parti che Hleb Papou scrive e mette in scena non senza qualche semplificazione, ma con l’indiscutibile merito di non cadere mai nella retorica. Quello che gli interessa è la contraddizione, la conflittualità, il dilemma, esponendo le ragioni, i pregi e i difetti di tutte due le anime del protagonista senza necessariamente dover scegliere uno schieramento. Gli bastano le sue due verità, le sue due giustizie, le sue due ragioni. Il suo sguardo su quel tetto, solo e sporco di sabbia e vernice dopo aver sgomberato casa sua.

Marco Romagna

“Il legionario” (2021)
82 min | Action, Drama | Italy / France
Regista Hleb Papou
Sceneggiatori Giuseppe Brigante, Emanuele Mochi, Hleb Papou
Attori principali Maurizio Bousso, Marco Falaguasta, Germano Gentile
IMDb Rating N/A

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