28 Giugno 2018 -

I COMPAGNI (1963)
di Mario Monicelli

È sempre sublime, ma anche e soprattutto profondamente doloroso, ritornare a vedere I compagni oggi, nel 2018, mentre in Italia e non solo in Italia serpeggia quello che è probabilmente il più grave medioevo culturale e politico di cui si abbia memoria. Fa male vedere quella che dovrebbe essere la normalità, gli operai che combattono il padrone, in un momento storico in cui il proletariato preferisce invece scagliarsi contro il sottoproletariato, preferisce trovare un nemico in chi è ancora più sofferente, preferisce lanciarsi in una guerra fra poveri che non può che portare a ritrovarsi ancora più poveri, feriti, dolenti, mentre chi sfrutta i lavoratori continua indisturbato, e anzi favorito dallo sfilacciarsi di chi sta al di sotto di lui, a contare i soldi impregnati del loro sudore e del loro sangue. Perché, ben al di là della splendida metafora di realismo magico messa di recente in scena da Alice Rohrwacher nel suo Lazzaro felice, la schiavitù e la tirannia esistono ancora. Esistono nelle poche monete elargite a fine giornata a chi lavora in nero nei campi, esistono nella certezza che ci sarà sempre qualcuno abbastanza disperato per accettare condizioni lavorative contrarie ai più basilari diritti umani, esistono nella disperazione di un popolo che pare aver perso, oltre alla capacità di ribellarsi e di lottare, persino la capacità di individuare il suo “nemico”. Chi sta male, oggi, non mira più al miglioramento della sua condizione sociale e lavorativa: sputare all’indietro è più facile che guardare e lanciarsi in avanti. L’unica cosa che conta, fomentata da un ben preciso lavoro ai fianchi populista che vira il malcontento in una xenofobia che, nella sostanziale campagna elettorale perenne che stiamo vivendo in questi mesi e in questi anni, allontani i pensieri del popolo dai problemi reali del Paese, è che ci sia qualcuno messo peggio. Il che ribalta i principi alla base della lotta di classe, quasi come se (soprav)vivere fosse una gara in cui conta solo non arrivare ultimi.
Dove, in uno dei maggiori capolavori di Mario Monicelli, arrivavano gli operai analfabeti nella Torino di fine ‘800 uniti e compatti nel rivendicare l’uguaglianza fra gli uomini e la propria dignità con uno sciopero a oltranza, non arrivano (più) gli analfabeti funzionali di oggi, che sanno leggere e scrivere ma che paiono non provare nemmeno più a comprendere. Gli operai de I compagni vanno alle scuole serali per combattere l’analfabetismo e per poter esercitare il proprio diritto di voto, per ragionare, per sviluppare una coscienza (compresi i vietatissimi «A morte il re» scritti alla lavagna), per crescere come individui; ma oggi, evidentemente, è più comodo sputare veleno contro chi è più debole, è più facile credere ciecamente a tutto quello che viene detto, è più facile lasciarsi affascinare dal bullo, votarlo e sostenerlo, senza magari nemmeno rendersi conto delle sue contraddizioni. Del resto, se basta chiamarlo “contratto di governo” per negare con fermezza che sia un inciucio e basta chiamarlo “reddito di cittadinanza” per dare un “cambiamento” al sussidio di disoccupazione, è palese che la politica sia diventata più o meno mero tifo da stadio, ed è normale (per quanto atroce se applicato alla Cosa Pubblica) che ogni tifoso miri solo a vincere, e non certo alla sportività e alla cultura. Il popolo si è incattivito, ha virato a destra, è diventato profondamente egoista, preferisce esultare per la (criminale) chiusura dei porti agli immigrati e sperare nella liberalizzazione o quasi delle armi piuttosto che lottare per i propri diritti civili e sociali, per il proprio posto di lavoro, per il proprio sacrosanto diritto alla pensione. A ogni sparata del neoministro dell’Interno Salvini, dai censimenti dei rom che tanto ricordano l’anticamera delle leggi razziali del ’38 ai selfie sul Lungarno di Pisa, dall’espressa solidarietà a chi si è macchiato di crimini e omicidi in divisa alle almeno tre o quattro crisi diplomatiche con Paesi esteri create nelle primissime settimane al governo, passando per le incursioni negli altri dicasteri parlando di economia e di vaccini come se fosse il premier, anziché esplodere la rabbia sociale e il malcontento si vede ogni giorno la sua popolarità crescere, come se fosse un fiore lungamente curato sul terreno dell’ignoranza e del mal di pancia. Un terreno preparato per molti anni, con un’istruzione scientificamente mandata in malora, con un appiattimento culturale televisivo e cinematografico che ne ha eliminato quasi ogni tipo di funzione didattica, e non certo in ultimo con il suicidio del centro(centrocentrocentro)sinistra, nel quale ormai il PCI non è nemmeno più un lontano ricordo.

Eppure, anche in questo desolante scenario, basterebbe probabilmente il discorso/comizio che pronuncia Marcello Mastroianni nel prefinale de I compagni per riaccendere la scintilla degli operai e del popolo, per riportare al centro la Resistenza, la lotta sindacale per orari e salari, l’umanità e i valori di un popolo che si unisce anziché dividersi. È un discorso scritto a sei mani, come tutta la sceneggiatura, da tre comunisti veri e conclamati come Monicelli, Age e Scarpelli, ed è un discorso di Resistenza, un discorso di lotta, un discorso di giustizia e di ideali, un discorso che probabilmente non verrà mai (più) pronunciato da alcun leader politico per lo stesso motivo per il quale questo film, proiettato a Bologna in occasione del Cinema Ritrovato 2018, anziché essere proposto nelle scuole come testo fondante di una nazione è ormai un oggetto raro, lontano dai radar delle programmazioni televisive e spesso ignorato o sottovalutato dai dizionari di cinema. È un discorso che inizia provocatorio, dando ragione per assurdo ai padroni dicendo che i salari sono evidentemente sufficienti a chi non sta morendo di fame e che la percentuale di infortuni con le 14 ore di lavoro sono un rischio calcolato e accettabile, secondo il quale solo un centinaio dei 500 operai presenti finiranno storpi o mutilati, per poi scaldarsi progressivamente ricordando che la lotta non è ancora finita, non è ancora persa, e che anzi che sono proprio i padroni sul punto di cadere. Abbandonare la battaglia per le pance vuote non potrà che renderle ancora più vuote, mentre i padroni, destinati a vincere sempre, continueranno ad arricchirsi sempre più sui lavoratori e sui loro figli. Perché la fabbrica è di chi ci suda, di chi ci passa tutto il giorno tutti i giorni, di chi la vive, di chi la porta avanti, di chi la merita. Di chi la occupa. Anche se sarà proprio l’occupazione l’ultima tragica mossa, quella per cui chi è destinato a vincere la battaglia perderà contro il potere e la forza dei padroni, probabilmente senza nemmeno sapere che sarebbero bastati ancora pochi giorni, forse poche ore, per vedere ascoltate le proprie richieste, per mettere l’aristocrazia sabauda in ginocchio e con le spalle al muro, per tornare a essere considerati esseri umani e non bestie da prendere e sostituire come un qualcosa di masticato e sputato una volta privo di gusto. O di un arto. O della vita.
Inizia con un afflato sospeso fra l’ironia amara e il neorealismo, I compagni. Inizia con la povertà più estrema di Omero e della sua famiglia, inizia con l’operaio più giovane, poco più che un ragazzino, costretto a svegliarsi nel gelo di una casa non riscaldata, costretto a rompere uno spesso strato di ghiaccio semplicemente per lavarsi, eppure è ancora spiritoso, vivo, profondamente umano e sardonico fra gli zero a scuola inanellati dal fratello minore e il carbone umido che si ostina a non diventare brace. Poi, la fabbrica, e la macchina da presa di Monicelli volteggia quasi danzando fra gli enormi macchinari dell’industria tessile. Ci sono padri che vedono i figli quasi solo attraverso le grate delle cancellate, ci sono pause pranzo troppo brevi nelle quali mangiare un panino cercando di sbirciare una qualche gonna, ci sono le sirene che scandiscono la vita in fabbrica come fosse quella in un carcere, ci sono i fuochisti impregnati di sudore e carbone, e c’è chi, stanco, in un macchinario ci rimette una mano o magari addirittura un braccio, mentre i colleghi non trovano di meglio da fare che organizzare l’ennesima colletta. O forse no, stavolta no. È il momento della consapevolezza, è il momento di un qualcosa di più strutturato. È il momento dell’assemblea, con i rappresentanti e i consiglieri eletti e messi di fronte, ma rigorosamente senza capi, perché nella lotta si è tutti uguali, uomini e donne, giovani e anziani. È il momento di presentarsi in direzione per fare le proprie rivendicazioni, ma i delegati non riescono nemmeno ad avvicinare i padroni, bloccati prima dal viscido e ipocrita segretario e tirapiedi, «sono un salariato come voi», che alla stregua di un infiltrato definisce un’«assurdità» la richiesta di ridurre l’orario a “solo” 13 ore giornaliere e passerà tutto il film a ordire trame e inganni per conto dei proprietari non intenzionati a cedere. Come se, dal punto di vista delle stanze della direzione, non fosse un’assurdità sfruttare altri esseri umani, ma semplicemente affari, guadagni, economia. E quando gli operai decideranno di attuare un’azione dimostrativa suonando un’ora prima la sirena, non solo non riusciranno per un caso sfortunato a spegnere le macchine e uscire all’ora voluta, ma si ritroveranno tutti multati, con l’esecutore materiale costretto a fingersi ubriaco e sospeso per due settimane. Fino alla controproposta indecente dei padroni, ovviamente rifiutata con sdegno dagli operai, che verterà sull’annullare le punizioni per far tornare tutto come prima, con le 14 ore lavorative e con gli stipendi da fame presentati con la faccia di bronzo del potere e della borghesia come una concessione, un avvicinamento, quasi un regalo.

C’è, profonda, una coscienza che muove I compagni, e non è incarnata solo dal professor Sinigaglia (uno straordinario Marcello Mastroianni), appena giunto da Genova dove è ricercato per resistenza a pubblico ufficiale e inguaribile sovversivo per vocazione, disposto a perdere la famiglia per i propri ideali, disposto a lottare insieme agli operai dei quali sente di fare parte, disposto a mettere loro a disposizione la sua esperienza e i suoi studi persino dal carcere, pensando agli altri fino alla vittoria. Certo, il suo intervento sarà fondamentale per strutturare la protesta, per trasformare le decisione di astenersi per un’ora dal lavoro in un vero e proprio sciopero lungo un mese fatto di viveri comprati a credito e di organizzazione, ma non è l’unico protagonista di un film straordinario e straordinariamente corale. La coscienza che vive nei meandri del film di Monicelli è quella che fa convincere uno dopo l’altro tutti gli operai della necessità di sacrificarsi per lottare, è quella che li fa passare dal prendersi a pietrate al costruire qualcosa insieme, è quella che porta Raoul (Renato Salvatori) a passare dallo scetticismo alla continuazione della lotta anche dopo questa lotta, è quella che li fa partire in spedizione punitiva verso il siciliano appena giunto a Torino che ha annunciato che il giorno dopo non potrà permettersi di non andare a lavorare salvo impietosirsi all’istante di fronte alla sua povertà ancor più estrema e atroce delle altre. Capiscono le ragioni dell’immigrato al quale non possono togliere il lavoro appena trovato dopo viaggio e sacrifici, e non potranno che benedire, proprio all’opposto dei forcaioli razzisti di oggi che invece sono convinti nel chiedere di affondare i barconi, la sua decisione. Del resto, anche su questo la lucidissima e acuta sceneggiatura de I compagni non perde occasione di ragionare, nei meandri dei suoi dialoghi con una frecciata di straordinaria stratificazione. Nella contrapposizione del perentorio «Il Piemonte va male da quando siete arrivati voi siciliani» con l’innocente «semmai dice mio padre che è la Sicilia ad andare male da quando siete arrivati voi piemontesi», Monicelli cristallizza tutte le difficoltà storiche e culturali di un Regno d’Italia di recente costituzione, tutte le divisioni interne, tutto il processo di integrazione. E mentre il padrone, quasi macchiettistico nella sua ostentata aria di superiorità sociale ed economica, parla di tagliare i viveri, chiudere strade e muovere amicizie pur di fermare la protesta degli operai, sotto sotto nel suo sfarzoso salotto di Piazza San Carlo inizia a rendersi conto che prima o poi dovrà probabilmente cedere alle loro richieste – «o eliminiamo quel professore o caliamo le braghe». Anche convocare a Torino gli operai disoccupati di Saluzzo, perfettamente consci della natura della protesta e altrettanto consapevolmente crumiri nel prendere il posto di chi la mette in atto, non servirà a nulla per la proprietà: sarà solo l’ennesima lotta fra poveri, fra gli scioperanti che chiedono per il bene di tutta la classe operaia di lasciar portare loro a termine la battaglia e i crumiri che rispondono a pugni, perché a ben poco serve parlare di politica e di lotta condivisa quando l’interlocutore ha troppa fame, e i padroni, da sempre, approfittano esattamente di questo per mantenere il proprio potere e il proprio stuolo di servi da vampirizzare giorno dopo giorno in cambio di qualche briciola. Dopo la rissa alla stazione e la tragedia sotto alla locomotiva in arrivo nella nebbia, sarà il prefetto di Torino a rimandare indietro la seconda squadra di operai per evitare ulteriori incidenti, permettendo ai protagonisti di lottare ancora e di conservare fino alla fine la propria dignità.
Quella stessa dignità che cerca l’insegnante della scuola serale nel suo organizzare una colletta per la famiglia di chi ha perso la vita, e che verrà negata da un preside che, nell’altruismo, nell’umanità e nella solidarietà vede invece un «sovvertimento sociale» mentre i libri continuano a insegnare che è giusto che esistano servi e tiranni. Quella stessa dignità di Niobe, che alle «16 ore in filanda con le mani a bagno» ha preferito la prostituzione, e che per questo è stata scacciata e ripudiata dal padre ma saprà accogliere, nutrire e nascondere Sinigaglia fino a quando non sarà lui stesso, spinto dagli eventi, a tornare allo scoperto ben conscio del probabile arresto pur di riaccendere la fiamma ribelle in chi stava smettendo di crederci. Quella stessa dignità del poliziotto che, dal sostanziale plotone d’esecuzione che punta i fucili verso gli operai che tornano in fabbrica per occuparla, appena vedrà cadere Omero sotto un colpo d’arma da fuoco partirà per andare dall’altra parte, fra i lavoratori, fra chi ha ragione e per la sua ragione è disposto a lottare fino alla morte. Quella stessa dignità di Mario Monicelli, punto di riferimento morale oltre che artistico, quando molti anni dopo ebbe il coraggio di aprire la finestra e di prendersi un diritto – quello all’eutanasia – esattamente come I compagni si prendono il diritto allo sciopero. Fino al finale tragico, perché il destino impone la beffa, l’ingiustizia, la vittoria del padrone, e i diritti dei lavoratori saranno rimandati di ancora qualche anno. Sarà forse proprio il fratellino di Omero, quello che non amava andare a scuola e che ora ha sostituito il maggiore che non c’è più nei turni in fabbrica, a vedere le rivendicazioni ascoltate, a vedere i risultati della lotta, a far tornare il proletariato contro la borghesia e contro l’aristocrazia fino alla rivoluzione sociale, fino alla democrazia, fino al potere al popolo. Monicelli, a dispetto della critica del tempo e delle sue risibili motivazioni – dalle inesistenti smielate definite “à la De Amicis” al puntare il dito su una presunta retorica assolutamente assente – per non accettare un film così smaccatamente politico e schierato, chiaro e diretto, militante e umano, ha sempre considerato I compagni il suo capolavoro, il suo film più riuscito, ancor più de La grande guerra, ancor più de I soliti ignoti, e ancor più di ciò che negli anni successivi saranno Brancaleone, Un borghese piccolo piccolo, Il marchese del Grillo e il dittico, ereditato da Pietro Germi, di Amici miei. Aveva ragione, perché I compagni è un film pressoché perfetto, sentito, dolente, sempre più attuale, bruciante e necessario, nel quale ogni parola e ogni singola inquadratura, ma anche ogni gioco di seduzione e ogni interstizio amoroso e d’amicizia, ogni incomprensione e ogni doloroso chiarimento, ogni afflato epico e sentimentale della narrazione, collaborano alla creazione di un qualcosa di più grande, di un’idea, di un mondo, di un movimento, di una dignità. Di un comunismo, di un movimento operaio, di una lotta di classe. Proprio quella che l’Italia di oggi sta dimenticando, preferendo il tiro all’immigrato, preferendo trasformarsi in mostro. Preferendo (ri)trasformarsi in bestia, e questa volta per davvero.

Marco Romagna

“The Organizer” (1963)
126 min | Drama, History | Italy / France / Yugoslavia
Regista Mario Monicelli
Sceneggiatori Agenore Incrocci (story), Furio Scarpelli (story), Mario Monicelli (story), Agenore Incrocci (screenplay), Furio Scarpelli (screenplay), Mario Monicelli (screenplay)
Attori principali Marcello Mastroianni, Renato Salvatori, Gabriella Giorgelli, Folco Lulli
IMDb Rating 8.1

Articoli correlati

LOS OCÉANOS SON LOS VERDADEROS CONTINENTES (2023), di Tommaso Santambrogio di Marco Romagna
THE PALACE (2023), di Roman Polanski di Marco Romagna
LIMONOV – THE BALLAD (2024), di Kirill Serebrennikov di Donato D'Elia
GATTA CENERENTOLA (2017), di Alessandro Rak – Ivan Cappiello – Marino Guarnieri – Dario Sansone di Marco Romagna
IO CAPITANO (2023), di Matteo Garrone di Marco Romagna
ROSSOSPERANZA (2023), di Annarita Zambrano di Marco Romagna