15 Novembre 2015 -

FIVE YEARS DIARY (1981-1997)
di Anne Charlotte Robertson

Approfondimento dell’articolo originariamente pubblicato su Il Manifesto

Eventually, I just sort of discarded the costume, and filmed myself naked. Last fall, I got very paranoid, and I cut out a lot of the naked parts. A lot of pans down my body were cut out. I left all the shots that were at a distance, but I cut out a lot of the ones that I felt really looked seductive. I wanted to take all that seductiveness out of the film, but I discovered you couldn’t really do that. You take a picture of a naked body: it’s seductive. But I did take out some of the best scenes, several hours of film
Anne Charlotte Robertson

Ci sono film che più di altri ti fanno interrogare sul senso stesso della rappresentazione, o forse di come la percezione possa suscitare sentimenti così reali che il cinema stesso fatica a definire. Anne Charlotte Robertson, allieva di Saul Levine e vicino ai lavori di Ed Pincus, aveva deciso di girarsi per cinque anni (che poi diventeranno quindici) con la sua piccola Super-8 in tutti i momenti della propria vita, in un modo che probabilmente non si è mai visto prima e che si pone in contraddizione totale ma in paradossale vicinanza con l’uso attuale dell’auto-rappresentazione. Dal 1981 al 97 condensa in 38 ore esperienze, sogni, paure, desideri e soprattutto una continua e devastante inadeguatezza nel vivere. Siamo a Framingham, nel Massachusetts, quasi un archetipo di provincia americana in cui viene rappresentato un mondo intero. Protagoniste dei rulli (ne abbiamo visti solo quattro tra Rotterdam e Lisbona – il 22, 23 e 26 del 1982 e l’80 del 1994) sono le mille sfaccettature della personalità di Anne, le sue lotte continue con la depressione e l’ansia che la divorano. Il quotidiano prende il sopravvento tra la fascinazione verso Tom Baker, la battaglia contro la bilancia, l’affetto per i gatti e la morte del nipotino; poi ci sono le sue riflessioni dolorosissime ed estremamente consapevoli sulla malattia e sugli effetti collaterali che subisce per via dei farmaci.

Un costante gioco a conoscere e a conoscersi, con la Robertson stessa che a fasi alterne torna sulle immagini per commentarle, narrando su tape i rulli muti, per vedersi allo specchio a distanza di tempo e cercare di capire dove stia andando. Ma tutto ciò non è solo un diario stratificato, perché in mezzo – tra l’obiettivo della macchina da presa e quello che noi guardiamo – c’è una persona, il suo crescere, il bisogno istintivo del filmarsi in maniera terapeutica e conviviale. Emerge una solitudine e una dolcezza assoluta, dai fotogrammi della Robertson, proprio perché nell’ingenuità di quei rulli c’è la materia stessa del cinema e la sua fascinazione in un flusso senza sosta, intenso ed emotivo. I suoi film non sono completamente negativi, per la giocosa consapevolezza di sé e l’umorismo stimolante che dona una luce rara alle profondità dei momenti più bui. Anne coraggiosamente ha esposto i suoi dialoghi interiori più intimi e ossessivi, e il filmarsi a tratti l’ha addirittura salvata dal personale oblio del non riconoscersi adeguata al mondo. Non esistono i tagli perché quella materia appartiene, appunto, al flusso della vita e non fa altro che ricordarla com’è trascorsa. Guardare oggi questi frammenti e pensare a quale deriva abbia preso l’immagine, soprattutto quella dell’autorappresentazione, e la continua messa in mostra e in bacheca di noi stessi, è agghiacciante. Lo spazio umano (e politico) del guardarsi per cercare la curiosità del conoscersi pare non esserci più.

E forse proprio qui sta il motivo fondamentale di una delle opere più particolari ed intime riscoperte degli ultimi anni. La Robertson non volle mai far vedere a nessuno questi diari, perché in fondo avevano un presunto destinatario, un principe azzurro. A loro modo dovevano essere un pegno d’amore: chi avesse voluto sposarla in quelle trentotto ore l’avrebbe conosciuta fin da giovanissima, avrebbe apprezzato i suoi pregi e i suoi difetti, l’avrebbe amata per quello che in fondo era, in ogni singolo momento. Lei aveva paura di dimenticarsi chi fosse stata, e allora ecco i diari, e la loro magia pressoché unica. Anne se n’è andata tre anni fa per colpa di un cancro, e probabilmente quell’uomo ideale non lo ha mai incontrato. Però in eredità ci ha lasciato quest’opera straordinaria, di cui basta solo un’ora per innamorarsene. Viene davvero la voglia di conoscerla, e di amarla, non tanto come autrice – e di uno dei più importanti lavori di cinema diaristico di sempre – , ma come anima, come ragazza. E proprio come ragazza il cinema l’ha accettata, e la sua vita è rimasta per sempre nella finita immortalità di una pellicola.

Erik Negro

Articoli correlati

DocLisboa'15 di Redazione CineLapsus.com
THE SKY TREMBLES AND THE EARTH IS AFRAID AND THE TWO EYES ARE NOT BROTHERS (2015), di Ben Rivers di Nicola Settis
PARK LANES (2015), di Kevin Jerome Everson di Erik Negro
A DISTANT EPISODE (2015), di Ben Rivers di Nicola Settis
O BACANAL DO DIABO E OUTRAS FITAS PROIBIDAS (2013), di Ivan Cardoso di Erik Negro
GOSHU IL VIOLONCELLISTA (1982), di Isao Takahata di Marco Romagna