EO (2022), di Jerzy Skolimowski

«Gli uomini sono stati creati per tormentarsi reciprocamente»
L’idiota, Dostoevski

Per tornare a fare un film sette anni dopo la distruzione analogica/digitale degli 11 Minuti del proprio personale INLAND EMPIRE, per Jerzy Skolimowski non c’era forse altra soluzione che un film disperato ed evangelico come EO (sì, proprio “Hi-hò”, il raglio dell’asino), che segna tanto l’inesorabile tragedia del destino umano – un cammino tortuoso di umiliazioni senza neanche più la dignità della ginestra leopardiana né tanto meno una possibile soluzione di salvezza all’orizzonte – quanto la resurrezione del (suo) cinema nel ritrovamento di una particella di speranza, di luce. Come quella photo che sulla pellicola non si scrive più – graphein – da quando è stata sostituita da una sequenza binaria infinita di zeri e uno (numeri così metaforici nel nostro linguaggio), e che nel già citato 11 Minuti (2015) si concludeva con il pixel mancante come buco nero dell’assenza di materia. Ad aprire EO, presentato nella competizione principale di Cannes75, è invece è una luce rossa come il sangue della materialità viva del mondo, che qui è forse infine ritrovata (?) e restituita nell’accettazione della morte di un mezzo, il cinema, che attraverso l’omaggio ai più grandi maestri ritrova la via per la propria inaspettata rinascita. Il film infatti non è che il rifacimento di un’opera centrale e fondante per l’evoluzione dell’autore polacco, Au Hasard Balthazar, che vide la luce nel 1966 dopo una lunga genesi ispirata da un passaggio dell’Idiota di Dostoevskij sul ragliare di un asino al mercato cittadino che avrebbe illuminato il principe Myskin e, attraverso questi, Robert Bresson. Una folgorazione che da sequenza di lettere su carta viene dunque trasposta in immagini-materia, per poi tornare numerica in questo 2022 digitale in cui gli 84 anni di Skolimowski non sono ostacolo al rinnovamento costante della sua opera. Torna infatti a rimettersi in discussione, a cercare una sintesi tra il linguaggio del maestro francese  e quelli sperimentali, e lo ritrova in una sorta di Essential Killing (2010) in cui al posto di Vincent Gallo – prigioniero talebano fuggito e rifugiato in Polonia – sta un asinello. Da qui il titolo, che poi è il nome dell’animale, come già detto il suo verso ma è anche la sillabazione latina del suo moto a luogo che altro non è che la storia del film: un viaggio attraverso le vessazioni degli altri, semplici punti in questa traiettoria che descrive un mondo senza grazia, e verso il macello che è quasi una salvezza. Ma è anche l’io vado, quella prima persona che segna il punto di vista di tutto un film. Quello di lui. Come in una sorta di trasposizione cinematografica del linguaggio modernista e dei suoi (in)costanti salti tra oggettivo e soggettivo, narratore esterno e monologo interiore a ruota libera, ma soprattutto fusione degli stessi nota come discorso libero indiretto e resa celebre da alcuni grandi della letteratura di inizio del secolo scorso, lo sguardo della camera scivola in quello del protagonista. Non si tratta solo di semplici soggettive, peraltro utilizzate con parsimonia, ma del passaggio del punto di osservazione tra il mondo esterno come questo percepisce l’asino e il mondo come questo viene percepito dall’asino, in cui anche quando EO è ancora parte dell’inquadratura o in parte nell’inquadratura il mondo viene presentato attraverso il filtro del suo punto di vista, secondo una logica tipicamente espressionista. Alle immagini per così dire più “oggettive” si alternano visioni opache e confuse, luci verdi o rosse ma comunque troppo potenti, suoni ovattati o esagerati, facce grottesche. Soggettive libere indirette con cui Skolimowski mostra il bestiario umano così come appare agli occhi a palla di EO che sono un po’ quelli della verità: il mondo come è da quando viene strappato alla sua Marie, madre per eccellenza che nella vicenda del 2022 non a caso è Magda (Maddalena), l’ultima nel gradino sociale, mentre suo figlio un asino il cui percorso in terra è metafora di un Cristo senza resurrezione, di cui rimane solo il calvario.  

L’unica rinascita è il numero circense della scena iniziale, in cui la giovane e il protagonista condividono un respiro – forse a bocca a bocca – e una danza vitale immersi nel rosso (che non a caso erompe nella scena ogni volta che vediamo Magda), come un tango dell’angoscia e della libertà che riporta in vita il finto morto per il divertimento del pubblico pagante. Ma è paradossalmente il momento più intimo del film, che così anticipa il rispecchiamento dei destini e l’unione di due solitudini in un binomio fragile che verrà presto spezzato per lasciare entrambi in balia delle cattiverie umane. Quelle della vita emarginata di lei – che in realtà vedremo pochissimo rispetto all’originale del ’66 dal momento che il regista polacco sceglie di seguire e reimmaginare l’asino –  con il moderno e sempre perfido Gerard qui non più a dorso di una motocicletta ma di un motone da corsa, e quelle della vita invisibile di EO, che a differenza di Balthazar non ritroverà la padroncina per scoprirla ora disinteressata, ma che di lei conserverà il ricordo sfumato e doloroso di un sogno, una visione, un sussurro, «EO, EO, EO». Così flessuosa, slanciata, dolce e senza meta la (ri)vede e (ri)sente il pubblico, attraverso le fantasticherie dell’animale, quando dopo vessazioni e umiliazioni è lasciato a riposo in un box a fissare la luna, come un Ciaula che non scopre proprio un bel niente. O meglio ancora come il prigioniero di Montale a cui non resta che il sogno dell’amata, perché «la paglia e oro, la lanterna vinosa è focolare se dormendo mi credo ai tuoi piedi». E osservandolo così, inosservato, docile, recluso e secluso, la camera dona al moderno Balthazar dignità di uomo, là nella sua cella perenne, «nel fondo dove il secolo è il minuto». Non più puro animale come in Bresson (per quello c’è il resto della Natura), ma profondamente umanizzato anche nel dolore e nei sentimenti, nella gioia e nella paura, nella speranza e nella disillusione. Un prigioniero invisibile sin da quando nasce asino e non cavallo, come quelli che corrono liberi in un campo di fronte a lui che invece sta dietro le sbarre di un van di trasporto diretto verso l’Italia, o quello arabo, lucente e bellissimo, di cui vediamo da vicino e in dettaglio il pelo lavato con la più meticolosa cura di fronte a EO di cui non si cura nessuno. Ma la pur evidente metafora sociale non è il punto di maggiore interesse di Skolimowski: non c’è ingiustizia perché in fondo tutti sono come EO, non solo socialmente. In fondo è solo questione di punti di vista, e il povero e innocente protagonista è comunque aguzzino di qualcun altro, come le innumerevoli formichine che mangia più per noia e curiosità che per fame. Non è neanche l’animalismo il nocciolo del film, come potrebbe sembrare per ovvi motivi oltre che per le numerose scene di crudezza come la caccia al lupo (presentata espressionisticamente come un bosco stregato e stroboscopico), l’uccisione delle volpi per la pelliccia con quel ronzio elettrico che si infila sotto la pelle del pubblico e che torna nel finale al macello. Questi momenti non sono altro che una sottolineatura della validità del postulato di Dostoevskij  – non a caso messa in bocca al personaggio più inquietante del romanzo, Ippolit – che si estende a tutto il creato: gli uomini sono fatti per tormentare e basta. Anche quando non è loro intenzione, in fondo. Quasi come se la presenza stessa di una coscienza e di un’idea etica fosse non meno distruttiva – basti vedere gli attivisti contro la crudeltà verso gli animali che vorrebbero EO fuori dal circo perché lì «soffre», senza sapere che la loro spinta, che in realtà si concretizza immediatamente a causa del fallimento dell’attività circense, strapperebbe il loro protetto dalle uniche mani amorevoli che lo abbiano mai toccato. Ma anche come le eco-sostenibili pale eoliche che causano la morte del corvo, a cui assistiamo in diretta con una soggettiva lunghissima del volatile che attraversa una foresta intera per morire in una pozzanghera ai piedi dell’asino. In questo mondo dunque dominato dalla volontà umana che da qualsiasi lato si guardi (auto)distrugge, anche quando cammina in punta di piedi, il viaggio del protagonista ha una funzione onnicomprensiva.

Il suo passaggio attraverso i gruppi più disparati in cui capiterà non serve altro che a mettere in luce (o forse in ombra) i soliti eroi solitari e disperati e inquieti della filmografia del regista. Come in 11 Minuti parimenti sconnessi tra loro ed equamente (non) importanti nel mosaico di questa umanità grottesca di cui non costituiscono che tessere, il film li passa in rassegna – un quadretto dietro l’altro, assolutamente sconnessi eppure legati dal medesimo filo rosso. Non sono più un marito geloso, una moglie sexy, un venditore di hot dog ex galeotto, un lavavetri con una porno attrice e tutti gli altri improbabili personaggi che costituivano le undici vite accomunate solo dal fatto di essere in quel giorno a Varsavia tra le 17 e le 17.11 – ma chissà perché li ricordano. Come i tifosi di calcio che festeggiano bestialmente il rigore sbagliato dagli avversari e per questo verranno ancora più bestialmente attaccati dalla tifoseria nemica nel proprio bar, come l’anziana coppia del centro pet therapy, come la modella spaventata dal cavallo, come gli acchiappa animali deficienti, come il veterinario impettito e la sua etica del lavoro, come il camionista notturno sgozzato senza un motivo all’autogrill, come la prostituta affamata che divora patatine fritte, o ancora come il prete bello e misterioso che nasconde un segreto e forse tra poco un altro nel suo incesto appena accennato con la matrigna, nell’inaspettato cameo di un’Isabelle Huppert dai toni disneyani che, nel suo mescolare liberamente italiano e francese, di fatto sta compiendo la stessa operazione di Skolimowski, alla ricerca di un punto di sintesi fra il linguaggio emotivo sublime di Bresson e quello visivo, sontuoso e radicale, con cui presentare l’umanità come il trucco esagerato e sbavato su una vecchia: triste e pagliaccesca. L’unica risposta, l’unica possibile soluzione alla freddezza del mondo sarebbe colorarlo con un po’ di calore, perché è solo nell’amore che si può ritrovare la salvezza. Ma questo sembra impossibile, una contraddizione delle parole di Ippolit. E allora l’unica (non) salvezza qui non sta che nella sparizione, nell’abbandonare la materialità, che non è neanche una scelta ma l’ultima ennesima imposizione sull’asino-uomo privato di volontà o di capacità, e quindi della dignità che permette alla ginestra di alzare la testa al cielo. Così, senza nemmeno capire, solo e di fretta, EO corre verso la morte. Non più quella di Baltazhar, per lo meno calma in mezzo ad un prato di pecore, ma la morte moderna, organizzata, rapida, precisa, di massa. Una morte che il pubblico osserva, incapace di parlare, incapace di reagire, interpellato da un grido silenzioso a cui non si sa dare risposta come la luna ancora leopardiana del Canto notturno di un pastore errante nell’Asia, a cui infine si smette di porre domande per presentare delle non-risposte. È di nuovo il nero a chiudere il film. E il bzz elettrico che di nuovo si innesta sottopelle comunica che la visione è finita, il sangue di EO ha smesso di pulsare, e presto il suo corpo eternato dalla (non) materia del film non sarà più materia. «Intatta luna, tale è lo stato mortale».

Bianca Montanaro