26 Aprile 2015 -

Daily – FEFF 17

FEFF 17 – FAR EAST FILM FESTIVAL
23 Aprile – 2 Maggio 2015

1 Maggio
MY BRILLIANT LIFE (2014), di E J-Yong
E’ possibile superare tutte le barriere generazionali, anche quelle dell’aspetto? E’ possibile combattere la tragedia con l’ironia, con il sogno, con la narrazione, con l’umanità? La progeria è una malattia terribile e incurabile, dovuta ad una mutazione genetica casuale che colpisce un bambino su quattro milioni. Si tratta di un invecchiamento precoce, per il quale si hanno molto presto l’aspetto e la salute di un ottantenne, e l’aspettativa di vita è di una quindicina d’anni.
A-Reum, di anni, ne ha 17, e sembra il nonno di suo padre. Sta male, ha problemi al cuore e ai reni, la vista si sta progressivamente abbassando, sa che morirà. A dispetto della malattia, è di una viva intelligenza e ha un ‘dono’, quando scrive: sa emozionare, ironizzare e trasportare con la leggerezza di un fine umorista. La sua voce narrante introduce alla storia: i genitori che lo hanno avuto a 17 anni, la sua età, troppo giovani, ma hanno saputo crescerlo con incondizionato amore, a costo di rinunciare, per amore, alla gioventù e alla propria vita. Il padre immaturo e giocherellone -splendida la scena nella quale chiede al figlio in ospedale, con una sincerità tutta fanciullesca, di prestargli i videogiochi-, la madre indipendente e sboccata -“La chiamavano Principessa Merda” -, il loro brusco abbandono delle rispettive famiglie. Ora, le difficoltà economiche, i costi delle cure di A-Reum, la raccolta di fondi attraverso una (vorace) trasmissione televisiva. My brilliant life, scritto e diretto dal coreano E J-Yong, è resoconto puntuale di un’agonia, è vero, spesso sul limite del patetismo ma bravo a non caderci, tenendo lontano quel sentimentalismo patinato nel quale spesso i drammoni tendono a sfociare. Non c’è lacrima facile, non c’è retorica spicciola: My brilliant life, nella sua agrodolce durezza, è un film straziante e sincero, divertente e doloroso al contempo. Alla poetica quasi nipponica, più che coreana, del film -viene quasi in mente Hirokazu Kore-Eda per la costruzione della vicenda e per la delicatezza della mano con la quale vengono trattati i bambini- il regista risponde con un’ironia tipicamente autoctona, mescolando la profondità straziante della trattazione della malattia con un sarcasmo gentile che pare preso a prestito da Hong Sangsoo. Ma non si riducono a questo, gli spunti del film. Si parla anche dell’invasività mediatica, dell’inganno del cinema per far cassetta, della maturità ottenuta prima del tempo, dell’insensatezza e del superamento dell’età anagrafica di fronte agli stravolgimenti della vita. Del sogno di essere sani, che qualche notte sibillino ritorna nell’elaborazione preventiva del lutto.
Il vicino di casa, spartito fra l’amicizia con A-Reum, il bambino-anziano, e le cure al vecchio padre che inizia a dare segni di demenza senile, l’anziano-bambino, è un personaggio di una sincerità atavica, fondamentale nel bilanciare le due anime del lungometraggio. Ma è proprio il giovane-vecchio A-Reum il cuore pulsante del film: il personaggio del bambino sa catalizzare nella sua giovane vita l’intera esistenza di ognuno di noi, sa emozionare nei suoi racconti, sa rendere poetica e leggera persino la sua morte. Rimane un’auto in coda, la campana che suona ed i fuochi d’artificio: è iniziato un nuovo anno, la vita va avanti.

PARASYTE – PART I / PART II (2014/2015), di Takashi Yamazaki
Lo ammetto, mi è molto difficile parlare di un doppio film con una cesura così netta come quella di Parasyte. Il nipponico Takashi Yamazaki, vincitore del FEFF lo scorso anno, sforna un lavoro in due parti che è complessivamente squilibrato, zoppo, concluso eppur incompiuto. La prima parte è ottima, la seconda, se non è pessima, poco ci manca. L’allegoria politicamente scorretta ed il geniale frullato di generi che sostengono il primo film, infatti, vengono malamente intrisi di una retorica facile e stucchevole che ne appiattisce ed appesantisce terribilmente il secondo capitolo.
La prima parte è brillante e splendidamente giapponese: una flotta di parassiti alieni sbarca sulla terra per impossessarsi del cervello e del corpo degli esseri umani, trasformandoli in temibilissimi mostri cannibali non distinguibili dalle persone comuni. Fra fantascienza e horror, uno dei parassiti mancherà il cervello del cupo e goffo adolescente Shinichi, installandosi invece nella sua mano e dando inizio ad una esilarate commedia nera non priva di incursioni nell’action. I parassiti sono ovunque, sono pericolosi, sono furbi e mutanti. Si installano nelle scuole, nella polizia, nei municipi, prendono il controllo della città. Anche la madre di Shinichi sarà uccisa e trasformata in uno di loro. Traslato della crisi mondiale e del Sol Levante in particolare, Parasyte part I sfrutta le forme aliene per interrogarsi sull’integrazione, sul parassitismo, sulla simbiosi, sul valore dell’ amicizia e sulla sete di vendetta. Persino sulle cellule staminali, con Shinichi salvato dal suo stesso parassita. Le forme aliene non riescono a capire i sentimenti umani, la loro necessità di salvare gli altri a costo di sacrificare loro stessi, ma vogliono integrarsi e convivere. Fra Visitors, Alien e il primo Cronenberg, la prima parte pone ottime basi, rivelandosi un film assolutamente valido.
Peccato per Parasyte part II, quasi schizofrenico nel rispondere a questi interrogativi in maniera goffa e facilona. Via via meno spassoso, il film si sgonfia drammaticamente in un pamphlet sul facile sentimentalismo, sulla natura fragile di questi ‘poveri’ parassiti che hanno bisogno di noi, sul reale parassitismo dell’uomo che distrugge foreste ed inquina. Lamentoso nella sequenza della mutante umanizzata dalla maternità ed ora morente, retorico nel dubbio se finire il cattivo o lasciargli la possibilità di rigenerarsi, patetico nel ricordare che tanti altri mutanti sono fra di noi ma perfettamente integrati e non più cannibali. Fino allo spegnimento dell’ormai rimpianto parassita nella mano e la chiusa, totalmente gratuita, con la lotta con uno psicopatico.

30 Aprile
0,5 MM (2014), di Momoko Ando
Momoko Ando, scrittrice e regista giapponese classe ’83, dirige la sorella Sakura in 0,5mm, monumentale opera-fiume tratta dal suo omonimo romanzo del 2011. Ogni uomo, secondo una vecchia leggenda nipponica, può spostare una montagna di mezzo millimetro. Una leggenda che urla la necessità dell’unione fra gli uomini, costituendo un’ode al reciproco rispetto, all’aiuto vicendevole, all’umanità. Sawa fa la badante, o meglio, Sawa E’ una badante. Perso il lavoro per scarsa professionalità -in realtà per aver compassionevolmente accettato, in piena buona fede, una richiesta bizzarra della figlia del badato che finirà in tragedia-, inizia un percorso che la porta ad infilarsi nelle case di ogni anziano le capiti a tiro, felice o meno di essere accudito. Sembra una fredda calcolatrice, usa stratagemmi e ricatti pur di entrare nelle loro vite, eppure si interessa sinceramente al benessere delle persone che incontra.
0,5mm è un torrente narrativo denso e stratificato, che scorre placido per oltre tre ore, senza particolari sconvolgimenti né sussulti ma mai inerte né prolisso. Road movie che si fa enciclopedia del degrado, in un Giappone nel quale la crisi economica e le difficoltà post tsunami e Fukushima sono ben più gravi del previsto. Il film mette in successione una galleria di anziani strambi e patetici, ma capaci di esprimere, con il giusto mix di ironia e sentimenti, una dolcezza a tratti sconfinata. Dal ciclista vendicativo vittima di raggiri da parte della yakuza, inizialmente scontroso con Sawa ma in realtà alla disperata ricerca di amicizia, al vecchio professore pornofilo e reduce di una guerra che ripudia, passando per la sua amata moglie gravemente invalida. Fino all’incontro casuale con il nipote del primo anziano accudito, ulteriore viaggio nella violenza domestica e nell’identità sessuale.
Sawa è una giapponese comune, pochi yen in tasca, vittima di una società in gravi difficoltà, ma anche carnefice di chi viene forzato ad essere assistito. Sawa agisce infatti per sincero bisogno di aiutare qualcuno, di amare per essere amata, di superare i gap generazionali. Sawa agisce per un sincero ed ancestrale bisogno di spostare la montagna. Momoko Ando non ce lo dice espressamente, non può, ma 0,5mm sembra urlarlo: è questo Giappone -quello che ha risposto alla crisi economica con l’elezione del nazionalista destrorso Shinzo Abe- la montagna che ha bisogno di essere spostata. 0,5mm è un film straordinario, magmatico ed ipnotico, figlio di un talento, quello della Ando, capace di combinare uno stile curatissimo con una precisa coscienza politica e sociale che implora cambiamenti.

100 YEN LOVE (2014), di Masaharu Take
100 Yen valgono circa un euro. Una cifra non certo inestimabile, per tasche limitate. Ecco quindi che un supermercato ‘Tutto a 100 Yen’ diventa, per il regista Masaharu Take, luogo ideale intorno al quale ruotare per raccontare la vita, la sconfitta ed il riscatto di un intero sottobosco nipponico. La trentaduenne Ichiko, interpretata da una divina Sakura Ando capace di regalare una prova attoriale di una fisicità struggente, è un’eterna sconfitta mai davvero cresciuta. Ciondola a casa dei genitori, esce di rado, non frequenta altre persone. In seguito ad un litigio finito alle mani con la sorella -epica food-struggle a colpi di ketchup e spaghetti di soia-, Ichiko abbandona la casa per andare a vivere da sola. Trova lavoro da ‘100 Yen’, fa la notte, e tornando verso casa si ferma a guardare quasi sognante un pugile di mezza età che si allena dietro i vetri della palestra. I pugili, alla fine dell’incontro, si danno una pacca sulla spalla: fra loro non c’è odio, c’è solo sport, c’è solo adrenalina, c’è solo passione. Ichiko, in seguito allo stupro subito da un collega, inizia ad allenarsi nella stessa palestra. Non sa neanche il perché, forse per imparare a difendersi, forse per provare emozioni, forse per, una volta tanto, vincere. A metà fra Rocky e Toro Scatenato, 100 YEN LOVE è un romanzo di formazione sullo sport come percorso di crescita e di riscatto, sulla ricerca di se stessi, sulla fiducia nei propri mezzi, ma anche uno sguardo sincero sull’umanità dei pazzi e sugli alcoolizzati che popolano la città notturna. Nulla di incredibilmente originale, in realtà, ma c’è lo stato di grazia di Sakura Ando che alza vortiginosamente l’asticella del film. L’attrice lanciata nel 2007 da Love Exposure, capolavoro di Sion Sono, è assolutamente perfetta in ogni fase del suo personaggio, dalla ragazzotta impacciata alla dura pugilessa che vuole vincere, conscia dei propri mezzi e con il destino nelle proprie mani. La Ando interpreta i due estremi alla perfezione, mettendo al servizio della narrazione abnegazione, lacrime, grida, sangue, fisico. Ben oltre la perfetta tecnica pugilistica, dagli allenamenti al ring. ADRIANA.

THE LAST REEL (2014), di Sotho Kulikar
Nel (quasi) capolavoro in plastilina L’Image Manquante (2013) di Rithy Pahn, l’eccidio perpetrato in Cambogia fra il ’75 e il ’79 da Pol Pot ed i suoi khmer rossi era l’immagine non più da cercare, ma da ricreare, immobilizzata e straniante attraverso i pupazzi. Pahn ha perso la sua intera famiglia, barbaramente uccisa davanti ai suoi occhi di bambino, e sente il bisogno ancestrale di portare avanti il ricordo. In The Last Reel, primo film cambogiano in diciassette edizioni del FEFF, scritto e diretto dalla giovane Sotho Kulikar, a mancare è invece solo un rullo. Ma c’è sempre una mancanza, la necessità di trovare forme per raccontare, il Cinema come mezzo per ridare una Storia ed un’identità ad un Popolo che se le è viste portare via con violenza e morte. “Tenervi non comporta alcun sacrificio, eliminarvi non comporta alcuna perdita”: il regime (tutto fuorchè Comunista) di Pol Pot è stata una delle più inaccettabili barbarie che la Storia ricordi. Non esiste una stima certa delle sue uccisioni, ma si parla di circa due milioni di persone, oltre un terzo della popolazione. Sono stati colpiti uomini, donne e bambini, con particolare ferocia contro gli intellettuali, gli artisti, la cultura. Degli oltre trecento film prodotti ogni anno prima della dittatura, solo in 30 si sono salvati.
Sophoun è una giovane della capitale Phnom Pehn. Nella sua vita Veasna, fidanzato sbandato, un fratello minore, una madre molto debole e un padre autoritario. A quasi quarant’anni dal massacro di Pol Pot, la città si è ripopolata. Un vecchio cinema è ormai ridotto a parcheggio per le moto, ma una sera dal proiettore si staglia di nuovo un fascio di luce. Sophoun riconosce la madre, quasi identica a lei, in un film del 1973. In cabina, il seducente ticchettio del proiettore, lo scorrere del 35mm, foto e locandine di un tempo ancora felice. Sullo schermo, un film in costume, spensierato, l’amore conteso fra un principe ed un cavaliere mascherato. Ma l’ultimo rullo non c’è, è sparito, bisogna rimettere in scena il finale. Ad altissimo tasso di cinefilia, The Last Reel è un racconto fortemente politico, che nasce dall’intima necessità di restituire quantomeno la memoria di un mondo fisicamente eliminato dalla Storia. Si tratta di un film pienamente autoriale, dalla messa in scena curata, potente, sentito, onesto. Eppure, a dispetto dei tanti pregi, a The Last Reel manca qualcosa per quel salto di qualità che era riuscito a L’Image Manquante: l’assenza di retorica. Il film della Kulikar, infatti, pecca a tratti, in particolar modo nel finale, di ampollosità. Così contestualizzata, va detto, anche la retorica può avere un suo valore -del resto la trama è poco più che un’orpello per dar forma al disegno, umano e sociale, che sta alla base- ed il film rimane più che buono, ma qualche rimpianto resta. Un film sulla memoria e sul rimorso, greve e necessario, estremamente interessante.

29 Aprile
MEETING DR. SUN (2014), di Yee Chih-Yen
La scuola, una classe di dormiglioni, uno di loro non ha ancora pagato la retta, non se la poteva permettere. Si fa chiamare Lefty, “come quelli di sinistra”. A 12 anni da Blue Gate Crossing, uscito in Italia come Incrocio d’Amore, il regista taiwanese Yee Chih-Yen torna dietro alla macchina da presa, per continuare a descrivere con sublime leggerezza i giovani del suo Paese. Il risultato è molto più di una commedia brillante, ma un film che scava profondamente nella società, una storia di povertà e riscatto, una storia di fame, tradimenti e amicizia. Meeting Dr. Sun sa far ridere di gusto ed emozionare, dotato di un tocco di rara delicatezza nel mostrare la fatica della zia di Lefty, il padre violento del suo nemico-amico, la lotta tra sconfitti in mezzo alla strada. Il Dr. Sun del titolo è Sun Yat-Sen, padre della Cina moderna, raffigurato con tanto di libro in mano in una statua, chiusa in un magazzino della scuola. Lefty la vuole rubare, per farla fondere in acciaieria e guadagnare a sufficienza per pagarsi la retta e qualche pasto, ma scoprirà che un suo coetaneo ha avuto la stessa idea. Un film dalla profonda spinta politica, che si sofferma dolcemente sulle classi più basse e la loro lotta per restare vivi. Emblematica la sequenza della lettera di scuse, nella quale i bambini sembrano litigare su chi sia più povero, arrivando ai licenziamenti dei nonni dei nonni. Yee Chih-Yen riesce ad alternare il messaggio politico ed il più puro strazio umano con sequenze estremamente spassose, come la fallimentare comunicazione a gesti durante il furto della statua, o il quasi surreale acquisto delle maschere. Rimane un ponte dal quale alzare il pugno verso il cielo, rimane la voglia di rialzare la testa. Per ora, nettamente il miglior film del Far East 17, difficilmente superabile.

UNCLE VICTORY (2014), di Zhang Meng
Ennesimo gangster dal cuore d’oro, in un polpettone cinese buonista, confuso e totalmente privo di mordente. Shengli è uscito dal carcere, dopo dieci anni. Ha ancora il tattoo gigante sulla schiena, ma la prigione lo ha cambiato, lo ha ammorbidito. Vuole tagliare i ponti col passato, cancellarlo come se fosse una cicatrice, costruire una nuova vita onesta. E’ proprietario di un asilo, ama i bambini e la loro innocenza, indossa un costume da panda per giocare con loro ed educarli. Ma il suo vecchio rivale, reso invalido da Shengli in passato, vuole a tutti i costi ostacolarlo, impedirne la rinascita. Shengli vorrebbe essere uno zio, una figura esclusivamente positiva, ma ha ancora negli occhi i modi usati contro di lui delle guardie carcerarie. “Guarda che non sono mica prigionieri!”, lo ammonisce l’infermiera della quale si innamora. Zhang Meng strappa pochi sorrisi -su tutti la lezione di danza in cortile, cliché che funziona quasi sempre- e molti sbadigli, fino ad una seconda parte che si arena fra i flashback e la scavatrice di una discarica. Per chiudere con un finale che vorrebbe essere poetico ma risulta solo disorganico. Non si riesce a capire che cosa questo film vorrebbe essere: come commedia non fa ridere, come romanzo di formazione e redenzione è piatto, come gangster movie non ha la minima spettacolarità, come focus sulla situazione cinese di figli abbandonati -argomento solo sfiorato- è terribilmente banale, come saggio sul tempo che passa ed i cambiamenti risulta essere privo di una reale ambizione, senza una reale idea da seguire. Uncle Victory è un film molle, informe, pretenzioso, manchevole di una direzione. Indifendibile.

THE SWIMMERS (2014), di Sophon Sakdaphisit
I cavallucci marini sono gli unici esponenti del regno animale per i quali la gravidanza è affidata al maschio. The Swimmers è un divertente horror psicologico thailandese, follemente sbalzato fra la piscina del Bacio della pantera e la sequenza proibita di Nymph()maniac. Perth e Tan sono nuotatori, amici e rivali. Le loro vite cambiano quando Ice, fidanzata di Tan ed amore segreto di Perth, si uccide gettandosi dalla piattaforma di una piscina. Era incinta, non di Tan. Il suo cellulare, la sua pagina facebook, gli incensi di una madre mistica che la richiama a casa: di chi era questo bambino? In un progressivo disvelamento della verità, Perth continua ad essere perseguitato dal fantasma di Ice, perde la forma fisica, ha voglie e nausea, mette su pancia. Un film che non ha paura di tuffarsi nel trash, osa, diverte e fa -poca- paura, parlando di amicizia, tradimenti, invasività della tecnologia, doppi giochi e terrore ancestrale. Non c’è alcun capolavoro al quale gridare, e anzi sicuramente in molti troveranno esagerate le trovate, spesso spinte ben oltre il limite, ma ad un festival di cinema popolare come il Far East, la collocazione è perfetta. Promosso.

GARUDA POWER: THE SPIRIT WITHIN (2014), di Bastian Meiresonne
Siamo dalle parti del meraviglioso Remake, Remix, RipOff, documentario di Cem Kaya sui remake (involontariamente trash) turchi di film hollywoodiani, presentato allo scorso Festival di Locarno. Ma qui non si tratta solo dei remake: attraverso il direttore di un centro culturale-cineteca, diversi critici cinematografici, un fumettologo, un produttore, attori e registi, ma anche persone comuni intervistate per strada, vengono ricostruiti quasi 90 anni di cinema d’azione indonesiano. Si inizia con il montaggio di uno schermo in una piazza, la proiezione pubblica come evento che coinvolge la collettività. Schermo che ritroviamo in un prato nella giungla, dove arriva l’eroe a rivedere le proprie gesta. Il lavoro di footage fatto da Bastian Meiresonne è assolutamente sensazionale: vengono mostrati spezzoni dagli anni ’30 a The Raid, fatti di film scritti in una notte e girati in un giorno, effetti speciali quantomeno approssimativi, teste che volano, corpi che si spezzano, occhi che emettono fasci laser, mani tagliate che si riattaccano al corpo. Cala un po’, va detto, negli ultimi minuti, nei quali si concentra sugli ultimissimi anni, parlando della crisi delle sale e rivelando uno sguardo sostanzialmente scettico su Gareth Evans e lo sbarco del cinema indonesiano nei box office americani, perchè non sarebbe sufficientemente ‘tradizionale’. Rimangono a doppia mandata nel cuore i calci volanti di Barry Prima, i remake di Superman e Zorro, titoli splendidamente grindhouse come La collina degli scheletri, senza dimanticare i sosia di 007 e Bruce Lee. Un’industria cinematografica capace di alternare periodi di massima prolificità ad interi lustri senza film o quasi, per un documentario nel quale si scopre una cinematografia rimasta locale, si riflette sui gusti e le abitudini del pubblico, e soprattutto si ride a crepapelle. Assolutamente imperdibile.

28 Aprile
HELIOS (2015), di Sunny Luk e Longman Leung
Quando tutta la sala becca l’unico colpo di scena del film dopo meno di cinque minuti, vuole per forza dire che l’action in questione non funziona. Eppure Helios, coproduzione a budget altissimo, avrebbe avuto le potenzialità per essere un buon film. Helios, appunto, è un supercriminale la cui identità è sempre rimasta segreta. Se il frutto del suo ultimo furto, un’arma di distruzione di massa ad altissimo contenuto di uranio, finisse nelle mani sbagliate, potrebbe causare un attacco di proporzioni epocali. C’è il compratore, c’è un misterioso informatore che conosce il luogo dello scambio, ci sono i rapporti con MI6 e CIA, c’è un illustre professore di chimica con gli occhiali tondi e il farfallino, c’è una task force che vede l’unione della polizia di Hong Kong, di quella cinese e di quella coreana. Nonostante la profusione di proiettili, esplosioni ed effetti speciali di ogni sorta, Helios si configura subito come un film troppo confusionario, malscritto, monco. Non è la spettacolarità che manca, ma piuttosto si avverte un’opprimente mancanza di vitalità: il film sembra quasi scimmiottare le spy stories occidentali, mancando però di qualsivoglia sussulto, o semplicemente credibilità. I personaggi sembrano quasi telepatici, non una singola mossa esce dai cliché, fino al trash inconsapevole puro quando una pericolosissima assassina in stato di arresto viene fatta guidare, in auto da sola, dalla polizia che si limita ad ammanettarla al volante. Noioso, avanza pigramente sul suo binario morto fino alla mancanza di finale, buona solo per un seguito che si auspica non venga mai fatto. Da evitare.

HOW TO WIN AT CHECKERS (EVERY TIME) (2015), di Josh Kim
Come vincere a dama (ogni volta) è il libro che Oat, undicenne orfano thailandese, acquista per riuscire a battere, una volta tanto, il fratello maggiore Ek. Vivono con una zia alla periferia di Bangkok, fra il sogno di un cheeseburger troppo caro e la moto ereditata dal padre, grido di libertà. Josh Kim esordisce al lungometraggio con un delicato romanzo di formazione che sbarca a Udine dopo la proiezione berlinese nella sezione Panorama. Ek lavora in un bar, dedito alla prostituzione maschile, fuma crac per dimenticare e riuscire a mantenere la famiglia. Ha un ragazzo di alta estrazione sociale, con il quale sta dai tempi di scuola. Oat, narratore del lungo flashback che costituisce il filone principale della narrazione, è perseguitato dagli incubi, continua a sognare il fratello che prende fuoco, ricorda la chiamata di Ek alla lotteria dei ventunenni per la leva, e quella scritta rossa sul bigliettino estratto che glielo ha portato via per sempre. Un film visto con gli occhi innocenti di un bambino, su una distanza, quella fra i due fratelli, che si assottiglia progressivamente. Fino al momento nel quale Oak scopre le implicazioni fisiche del lavoro di Ek, e cresce all’improvviso capendo quanto il fratello si stia realmente sacrificando per la famiglia. La perfetta normalità LGBT in Thailandia, la corruzione all’ordine del giorno, le classi sociali, gli errori in buona fede, l’affetto. Josh Kim trae da due romanzi di Rattawut Lapcharoensap un film onesto, umano, soffice, affettuoso, impreziosito dalla mancanza di qualsiasi orpello moraleggiante. L’Oat adulto, che racconta la storia, ha evitato il servizio militare ed è diventato un gangster, ha “conosciuto il colore dei soldi”. Ma ancora, durante le notti, gli appare l’immagine del fratello, il ricordo dell’infanzia difficile e del punto di riferimento. Ancora, durante le notti, vince l’essere umano.

CART (2014), di Boo Ji-Young
Fino a che punto ci si può spingere per un ideale? Cosa vuol dire lottare? Può Davide battere Golia? I diritti dei lavoratori nella Corea del Sud sembrano utopia: il precariato dopo anni, ore ed ore di straordinario non pagate, l’obbligo di sorridere sempre. L’umiliazione delle scuse in ginocchio, quando una cliente viene ingiustamente sospettata di taccheggio. Il film, romanzato su una storia drammaticamente vera, lancia subito lo spettatore in questa realtà (per noi folle), con gli slogan a favore del cliente ripetuti subito prima dell’apertura del supermercato. Sun-Hee è impiegata modello: cinque anni da precaria, mai un ritardo, mai un giorno di assenza, mai un reclamo, mai un demerito, sempre disponibile nonostante i due figli, che fatica a mantenere. Le viene promessa una promozione, con assunzione a tempo indeterminato. Pochi giorni dopo, però, i vertici annunciano un licenziamento collettivo. Senza giusta causa, rescindendo unilateralmente i contratti, in barba alla legalità e al rispetto. Le donne si coalizzano, formano un sindacato, tentano inascoltate una trattativa, scioperano, sono costrette ad occupare il supermercato, vengono portate fuori dalla polizia. La protesta si trasferisce in strada, chiedono il reintegro, di tutte. A costo di rimanere oltre due mesi in una tenda, a costo di trascurare le famiglie, a costo di rifiutare la riassunzione perché proposta solo a una parte. A costo di essere picchiate e di finire in galera. L’azienda scaglierà contro di loro polizia e squadracce, le sfotterà modificando a piacimento le date di fine ai contratti, sarà costretta a reintegrarle -ci avverte una schermata alla fine- ma riuscirà ad epurare chi si faceva potavoce della resistenza. Uno spaccato interessantissimo sulla questione lavorativa (e politica) coreana, una storia di lotta e di ideali, una storia di cooperazione e di lealtà. Sull’altro piatto della bilancia, un po’ troppa retorica e un finale in ralenti che convince molto poco. Ma, nel complesso, è assolutamente un bel film, dal forte impatto sociale ed emotivo.

GANGSTER PAYDAY (2014), di Lee Po-Cheung
Vorrebbe fare Scorsese, l’hongkonghese Lee Po-Cheung, ma finisce per incartarsi in tutti i possibili cliché del caso firmando un polpettone sinceramente difficile da digerire. Gangster Payday, fra bottigliate in testa e ricette da accompagnare al thé, ha tutti i difetti del gangster movie non riuscito. Innanzi tutto, il gangster ripulito: Ghost, gestore di un night ed immobiliarista, ha il cuore d’oro, non vuole spacciare droga, non vuole uccidere, si innamora. Opposto, il cugino Mei, cattivo davvero, che non si fa scrupoli ad uccidere amici e parenti pur di mettere le mani su un carico di cocaina. In mezzo, la ragazza pulita ed onesta, che eredita una sala da thé sulla quale il cattivone vuole mettere le mani. Banale e buonista, aggravato da una fotografia smaccatamente digitale di raro piattume, Gangster Payday è un film da dimenticare prima possibile.

SOUTHEAST ASIAN CINEMA – WHEN THE ROOSTER COWS (2014), di Leonardo Cinieri Lombroso
Quante rivoluzioni, nel Cinema. Quante emersioni, quante ondate. Gli anni ’30, con il Giappone di Ozu e Mizoguchi, poi il neorealismo in Italia, la Nouvelle Vague d’oltralpe, il Nuovo Cinema Tedesco, il Cinema Novo in Brasile, la Hong Kong di Hou Hsiao-Hsien negli anni ’80. Adesso, sta iniziando ad emergere il Medio Oriente, di una fertilità creativa che è urlo di dolore sotto la morsa delle guerre, mentre continua l’ascesa esponenziale, iniziata tra fine ’90 e primi 2000, del Sud Est asiatico. Nel 2007 Brillante Mendoza prende il premio alla regia a Cannes, alla sua quarta partecipazione al Festival, nel 2010 Apichatpong Weerasethakul vince la Palma, nel 2014 Lav Diaz torna da Locarno con il Pardo. Nel Sud Est asiatico, spiega il regista, è pieno di galli, ed il loro canto è presente in quasi ogni film, come una sorta di segno distintivo di questa New Wave. Leonardo Cinieri Lombroso, documentarista e cinefilo italiano, intervista il filippino Brillante Mendoza, il thai Pen-Ek Ratamaruang, il singaporiano Erik Khoo e l’indonesiano Garin Nugroho, capostipiti, o quantomeno rivoluzionari, delle proprie cinematografie. Le loro ripetute presenze ai Festival internazionali hanno rivitalizzato l’industria, creando intere generazioni di filmmaker già affermati o interessanti. Emerge, pur nei diversi Paesi, l’invadenza della censura, in prevalenza politica, la tensione alla commistione fra finzione e documentario, la volontà di raccontare per creare un’identità, l’ampio uso dell’improvvisazione. “La realtà in Asia è talmente drammatica”, chiude Nugroho, “da rendere il Cinema necessariamente imprevedibile”.
Un documentario su cinematografie e luoghi, ma anche sulla gente, estremamente interessante per quanto concerne i punti di vista dei registi intervistati. C’è però un grave problema che gli tarpa le ali: l’eccessiva ripetitività. Southeast Asian Cinema è infatti strutturato in maniera modulare, quattro capitoli, ognuno dedicato ad un regista. Alternando le interviste con spezzoni dei film, interventi di attori o tecnici e concetti chiave espressi dai critici maggiormente esperti, Cinieri crea quattro capitoli pressoché identici sia a livello di montaggio sia contenutisticamente, rendendo il documentario, alla lunga, tedioso. Ricorda un po’ la serialità di un programma televisivo, con il ritmo sempre perfettamente identico puntata dopo puntata. Sarebbe TV di qualità, in realtà, ma pur sempre televisione.

27 Aprile
MAKE ROOM (2015), di Kei Morikawa
Tratto da una pièce teatrale, Make Room è una commedia nipponica ambientata in una sola stanza. Ma non è una stanza a caso: si tratta infatti del camerino di un film porno, nel quale la truccatrice prepara le pornostar. Una giornata di riprese, piena. Cinque attrici coinvolte, uno script finito la sera prima e molta poca professionalità. Nel camerino si chiacchiera, si preparano le scene, se ne gira una, quella ‘drammatica’. Il regista con le idee poco chiare, l’attrezzista imbranato, la seconda truccatrice che sbaglia set, la protagonista che litiga con il ragazzo perché scopre che fa la pornostar, la ragazza acqua e sapone al primo film che prima piange e poi tira fuori -a detta delle altre- la performance sessuale del secolo. Emerge la serialità del sesso, demitizzato e privato di erotismo, vissuto come un semplice lavoro ben pagato. Make Room intrattiene, a tratti fa ridere, ma scivola ben presto in una comicità troppo facile e stereotipata, fra svenimenti, unghie da tagliare e manager che scelgono i nomi d’arte. A metà fra la sitcom e le nottate su AXN, fa passare un’ora e mezza tutto sommato gradevole. Ma nulla di più.

NEIGHBORS (2014), di Cai Jiahao
E’ possibile in un cortometraggio mescolare Tsai Ming-Liang e Takashi Shimizu? Cai Jiahao, giovane hongkonghese fra i nomi di punta della Fresh Wawe, con il suo Neighbors gioca coi generi, fino a far emergere ancora una volta le contraddizioni di una questione amministrativa e sociale, quella fra la Cina e HK, mai pienamente risolta. Una studentessa cinese si è appena trasferita ad Hong Kong. Appare incantata dalla città-stato, compra sorridente un pesce rosso. Torna a casa, i vicini sembrano strani. Un incipit che ricorda quasi il primo Kim Ki-Duk, nella presentazione non verbale dei personaggi: non serve parlare, la fredda diffidenza si mostra con un solo sguardo. L’occasione per virare al j-horror è il ritrovamento di un cadavere davanti alla porta di casa. La paura, la necessità di chiamare la polizia, ma nessuno dei vicini pare voler aiutare la studentessa. Parla mandarino in una regione cantonese, è estranea, sperduta, e c’è un assassino ancora nel palazzo. Suonano alla porta, meglio non aprire. Ma in casa non c’è cibo, la fame è brutta, e vediamo tutto lo strazio della ragazza costretta a uccidere e mangiarsi il minuscolo pesce rosso. Ricorda il cavolo in Stray Dogs di Tsai, tale è la portata emotiva della sequenza: le mani le tremano, il pesce boccheggia ancora vivo sul tagliere, le lacrime sgorgano da ogni morso. Nel mentre, davanti alla porta di casa, appare un misterioso pacco. Un corto estremamente interessante, cinefilo, intelligente. Di Cai Jiahao, se saprà continuare così, sentiremo parlare molto, in futuro.

TAZZA: THE HIDDEN CARD (2014), di Kang Hyoung-Chul
Gioco d’azzardo e gangster, per un thriller coreano di inganni e doppiogiochismo. Dae-gil ha un talento naturale come baro. Il gioco, sorta di variante coreana del poker, garantisce adrenalina, mentre Dae-gil si fa strada nel mondo delle bische. Truffe, carte nascoste, fino a quando, ad un tavolo, incontrerà di nuovo MiNa, suo primo amore di gioventù. Dae-gil si ritrova intrappolato in una matrioska di frodi, raggiri, tradimenti, diventerà capro espiatorio e cercherà, di nuovo al tavolo, la sua vendetta. Una lotta fra bari, concentratissimi alla ricerca di quella piega nel sopracciglio dell’avversario, di quella pupilla più o meno dilatata, di quel giochetto con le mani che non convince. La carta segnata, le telecamere nascoste alle spalle degli avversari, e montagne di contanti. Fino a scommettere la vita. Un buon prodotto di genere, scorrevole e ben girato.

SARA (2015), di Herman Yau
A causa di un articolo, mai pubblicatole, su affaristi, politici e prostitute, la giornalista Sara ricomincia a riflettere sulla sua vita. Dallo stupro subito giovanissima da parte del padre, nel silenzio della madre traditrice, alla fuga da casa, al barbonaggio, fino a diventare l’amante di un importante e maturo dirigente del Ministero dell’Istruzione, che le pagherà gli studi e si rivelerà, a discapito dell’iniziale convenienza, il grande amore della vita. Sara si reca in Thailandia, dove tra una bottiglia e l’altra di tequila incontra una prostituta bambina, rendendosi conto di quanto le loro vite siano in realtà simili e ritrovando forza e voglia di raccontare, fino a fare definitivamente i conti con il passato. Herman Yau, questa volta regista ma non scrittore, mette la macchina da presa al servizio di questa (tutto sommato flebile) lotta, tutta al femminile, contro abusi e tratta di esseri umani. Snocciola cifre, attacca il sistema scolastico hongkonghese che taglia fondi e fa finta di nulla, arriva persino ad un retoricissimo perdono della madre morente. Un film di alti e bassi, fra make up pessimi e fughe in taxi, per salvare vita ed articolo. Da Herman Yau, duole dirlo, ci si sarebbe aspettato ben di più.

BROTHERHOOD OF BLADES (2014), di Lu Yang
Cappa e spada nell’esercito Imperiale cinese in un torbido gioco di inganni, per uno sterile e, alla lunga tedioso, pamphlet sull’amicizia e sulla fratellanza. L’Eunuco corrotto Wei, tre assassini imperiali e i loro segreti, la figlia del dottore ed una prostituta da liberare. Inserito a pieno titolo nel filone hongonghese wu xia, Brotherhood of Blades è exploitation che gioca all’accumulo, cadendo però nella stanca ripetizione di un genere che pare avere già sparato le cartucce migliori. Ricatti, combattimenti, tradimenti, pepite d’oro e cadaveri carbonizzati si susseguono nella difficile ricerca della verità. Un film già visto, facilmente dimenticabile, estremamente curato ma vuoto, noioso, inutile. Prevedibile e senza sussulti, si trascina stancamente, inespressivo come gli attori, fra qualche errore di montaggio ed una regia affetta da una tamarreide ben oltre il consentito anche all’interno del genere. Per irriducibili del wu xia, ma purtroppo solo per loro.

MY OLD CLASSMATE (2014), di Frant Gwo
Il sottotitolo potrebbe essere Ricordi di un vecchio amore. O Storia di un fallito. Un’intricata struttura a flashback racconta la storia di Lin Yi, che riceve l’invito al matrimonio del suo primo amore. Il loro primo giorno di scuola insieme, nel ’93, poi l’università, finalmente il fidanzamento che lei impone per solo 5 minuti al giorno, poi allungati a 21 e accorciati a 14, “Perché senza regole non si va da nessuna parte”. Gli eventi storici che intercorrrono: la ribellione contro l’ambasciata americana, la guerra nei Balcani, la SARS, l’11 Settembre. Fino al 2004, la partenza di Lin Yi per l’America, lei che non lo raggiunge, la rottura del fidanzamento. Un film quantomeno strabico, a tratti -pochi- divertente, ma fondamentalmente inconcludente e con gravissime cadute. Una sequenza, quella della fuga dall’ospedale sulle note di We Are The Champions, rimane nel cuore, il resto, se non è da buttare, poco ci manca. L’intreccio procede nel 2014: da un lato la vita newyorkese non è tutta rose e fiori -compresa l’attuale fidanzata a letto con un altro-, dall’altro il ritorno in patria e il sogno della fuga d’amore. Fin qui il film è solo inutile, ma a renderlo disprezzabile c’è un particolare agghiacciante: la Cina viene nominata sempre e solo unita e in lotta contro un nemico, segno evidente della mano della censura sulla produzione cinematografica, atta a rendere ogni film propaganda. My Old Classmate, nelle pieghe del drammone amoroso, nasconde l’ennesimo film di regime.

Inizia la diciassettesima edizione del Far East Film Festival.
Da Udine, Marco Romagna.

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