23 Marzo 2017 -

BELLE TOUJOURS – BELLA SEMPRE (2006)
di Manoel De Oliveira

Belle toujours o Bella Sempre è nato come tributo a Luis Buñuel e a Jean-Claude Carrière scritto e diretto da Manoel De Oliveira come seguito a Bella di giorno (1967). Un seguito apparentemente anacronistico, che prende uno dei più celebri film del regista spagnolo costituendo una specie di suo secondo capitolo quasi 40 anni dopo, con come protagonisti sempre Henri e Séverine, il primo interpretato sempre da Michel Piccoli e la seconda non più da Catherine Deneuve bensì da Bulle Ogier, moglie di Barbet Schroeder nota per aver recitato in film del marito ma anche di Rohmer, di Rivette, dello stesso Buñuel, di Werner Schroeter, di Garrel, della Duras, di Fassbinder, Ruiz, Audiard, Assayas, dello stesso De Oliveira e di Chabrol. Bella Sempre dunque più che un film che continua Bella di giorno sembra essere un film che lo completa, più che un film appartenente allo stesso universo narrativo paresin dalla sua stessa sintesi un film che commenta il cinema di Buñuel. Bella sempre è un film corto ed elegante, ed è una meravigliosa coincidenza il fatto che abbiamo avuto modo di vederlo in sala al Cinema Arsenale per il tributo alla costumista Milena Canonero proprio poco dopo la proiezione del film di Buñuel a Bergamo in occasione della rassegna su Carrière. L’incontro tra Henri e Séverine parte innanzitutto da un riconoscimento nel mezzo del pubblico teatrale ad un’esecuzione della Nona Sinfonia di Antonín Dvořák, e il riconoscimento è subito un dilemma biunivoco proprio come l’incontro tra Henri e Séverine nel bordello nel primo film: Henri insegue Séverine, e Séverine evita il suo sguardo. Prova a scappare dal cinema (non inteso come luogo fisico ma proprio come arte dello sguardo), evitando gli occhi degli altri che erano l’unica cosa che sembrava capace renderla viva e profonda secondo la visione sociologica di Buñuel.

De Oliveira ha un approccio molto più (almeno apparentemente) reale di Buñuel, che anche nei suoi film più quadrati provava ad inserire il surrealismo nei dettagli o in macrosequenze create appositamente, portando su di un altro livello di lettura e di onirismo anche la più generale e semplice delle storie. Quindi parrebbe assurdo in un certo senso vedere un seguito così coraggioso da parte dell’autore portoghese, così tanti anni dopo, quando il nome del regista di Un chien Andalou è ormai scomparso dal mondo e vive soltanto nella memoria degli appassionati. Ma in un certo senso De Oliveira potrebbe essere tra le poche persone a davvero poter capire bene il mondo che Buñuel negli anni ’60 osservava e percepiva con questa lente così deforme e mostruosa: entrambi nati nella prima decade del ‘900 (8 anni di differenza), entrambi appartenenti alla penisola iberica, entrambi vissuti dunque in un periodo colmo di guerre e rivoluzioni artistiche che hanno seguito passo passo. Buñuel, però, è morto negli anni ’80, mentre De Oliveira è rimasto in vita fino al 2015, avendo la possibilità (unica, probabilmente, nella storia del Cinema tutto) di creare un’osmosi storica tra il cinema del proprio paese e il proprio cinema. È passato dal cinema muto al digitale, cominciando la propria carriera con un corto city symphony nel 1931 (Douro, Faina Fluvial) e concludendola nel 2014 con un corto sull’incontro assurdo tra Luís de Camões, Don Chisciotte, Teixeira de Pascoaes e Camilo Castelo Branco. Rivoluzionando il proprio cinema anno dopo anno, decade dopo decade, eppure sempre mantenendo una certa coerenza storica soprattutto nel formale utilizzo dei riferimenti alle altre arti (teatro, letteratura, pittura e fotografia principalmente) e nell’inserimento sporadico di piccole e folli finezze metacinematografiche, De Oliveira con Bella Sempre ricongiunge un cinema distante temporalmente al presente-2006 per ricollegarsi all’eleganza di un clima filmico che ormai se n’è andato. Così facendo, Buñuel può vivere ancora, in maniera completamente diversa, attraverso i silenzi e gli sguardi dei personaggi che ha amato e che ha odiato negli anni ’60. Henri chiede di Séverine in un bar parigino, e lì il suo sguardo e il suo riconoscimento si incontra con delle prostitute, con il mestiere passato di Séverine, con la libido di un mondo elegante scomparso che appare come fantasma negli angoli oscuri dei locali. Uno sguardo mai assente, sempre in agguato. Già solo da queste prime due scene (teatro/bar) percepiamo l’importanza dei costumi della Canonero, costumi formali ed eleganti ma anche profondamente inattuali, come appartenenti all’epoca del film di Buñuel: è cambiato tutto, non è cambiato nulla. Come in piccoli intermezzi operistici, panoramiche e inquadrature fisse vuote con in sottofondo sempre la Nona di Dvořák intervallano una storia di un incontro necessario in cui la donna scappa dallo sguardo dell’uomo.

Dopo un tentativo di incontro malriuscito, Henri ritorna nel bar della sera prima e viene subito riconosciuto dal barista (interpretato da Ricardo Trêpa, nipote di De Oliveira), che gli dice che Henri è una persona fuori dal comune: che sia perché Michel Piccoli è un volto cinematografico definitivo, che spicca in mezzo alle comparse anonime, o perché Henri è ancora un personaggio anni ’60, datato nei movimenti ed eccessivamente elegante nella parlata? Henri racconta al barista la trama di Bella di giorno, riportando ad un livello di narrazione semplice il film di Buñuel, un po’ per fare un riassunto al (possibile ma raro) spettatore che non ha visto il film originale e un po’ per lo sfizio di riunire, come a volte è giusto che sia, il cinema al mezzo tradizionale della voce come porta per tramandare. Henri ricorda di essere stato oggetto di desiderio di Séverine, e ne racconta i ritmi come di una cosa folle, evitando ancora lo sguardo delle prostitute, una giovane e moderna e l’altra anziana, forse una legata al presente e l’altra al passato, una a Bella sempre e l’altra a Bella di giorno. In questa breve durata che sembra di per sé nascondere microcosmi di riflessioni che vanno dallo spazio cinematografico al mezzo filmico, dall’attore alla sessualità, dall’apparenza alla Storia, il barista si tramuta in psicanalista e in professore che spiega la psicanalisi, prima di lasciare Henri alla deprimente coscienza della partenza di Séverine. Il rapporto tra Henri e il barista/psicanalista diventa un raffinato dialogo continuo che serve a Henri come sostituto ideale del dialogo con lei, come riflessione sui demoni di entrambi, più o meno come Séverine che si prostituiva per avvicinarsi sia alle proprie fantasie masochistiche sia soprattutto all’amore per il marito. Il barista è severo con Henri, dice che il suo è (o è stato) sadismo, considerata la riflessione che Henri fa su se stesso (ovvero la riflessione di De Oliveira sul personaggio di Henri, probabilmente), ma Henri dice che era auto-difesa, cerca una motivazione psicologica non sessuale forse per crearsi una dignità o per distanziarsi da Séverine nonostante ricerchi questo dialogo. Qua si comincia a percepire un’altra motivazione nell’operazione di De Oliveira: il commento sulla vecchiaia, lo specchiarsi di Henri in Manoel e del barista in uno spettatore/critico che analizza e dialoga, ma rimane fuori dal contatto con Henri, oltre il bancone, lontano dalle faccende degli uomini cinematografici, saggio ma giovane. O addirittura fuori campo, proprio mentre il barista stesso dice “è come se stessero parlando ad un muro, o in un pozzo”.

Finalmente, dopo un breve incontro per strada in cui lo scambio di battute è inudibile, giunge il vero e proprio dialogo, circondato da disegni di baccanali, corpi nudi e vivi impressi sulle pareti, passati sessuali e cornici grafiche per un vero e proprio set teatrale in cui consumare un piccolo dramma semplice. Henri attende a lungo Séverine, tramutandosi lui nello spettatore (figura che prima era riscontrabile nel barista o nelle prostitute), ma adesso il cinema non è più Piccoli (= l’attore), bensì diventa Séverine (= il personaggio) e siamo pronti per un teatrino cinematografico di sguardi e confessioni, segreti e pareti cinematografiche. Séverine però è distaccata e distante, lontana dal pubblico che cerca di penetrare in questo palco in cui la Storia della Settima Arte deve continuare. Più di metà del film è già passato ma seguendo la macchina da presa ci ritroviamo nel film “vero”, nella fittizia e plastica realizzazione di un sogno che entra in campo attraverso una messinscena più che mai elegante ed emotiva ma nel contempo fredda, chirurgica, a suo modo colma di tensione a causa di imbarazzanti silenzi in interminabili inquadrature fisse. Henri sfotte il nuovo atteggiamento pio di Séverine nella stanza ormai buia e caravaggesca, innescando un discorso in continuo movimento in cui entrambi sembrano essere maturati e cresciuti. O forse proprio invecchiati, più morali, più rilassati e meno alla ricerca di una catarsi perversa e viziosa. Il motivo del dialogo però non è un motivo filosofico o nostalgico, bensì una richiesta di aiuto: Séverine vuole sapere se Henri ha rivelato al suo marito morente paralizzato i vizi della moglie prostituta e masochista, vero motivo per il quale l’incontro è stato organizzato, rivelando dunque in maniera “ufficiale” la natura fantastica e surreale del finale utopistico e perverso del film di Buñuel. Tra queste ombre espressioniste, Henri ride beffardo della sua vittima-cinema e le dà un regalo: il carillon del cliente cinese dei suoi tempi di prostituzione, un promemoria leggero di un passato pesante che lei vuole dimenticare. Lo spettatore non dimentica Buñuel, ma il cinema rimane quello di De Oliveira, che rifiuta il passato e lo allontana attraverso le ombre. Henri usa l’enigma (l’ultimatum, la risposta-non risposta) come confessione; e Séverine scappa, stanca, forse, delle interpretazioni eccessive sulla narrazione cinematografica, fuggendo e lasciando al nostro sguardo il surreale passaggio di un gallo appena fuori dalla porta, la rinascita della fantasia e del surreale apparentemente abbandonati dal tempo — il tempo che, pur essendo passato, cicatrizza gli sguardi e rende statuari i corpi, con Séverine che è “bella sempre” e non solo “di giorno” perché ormai è corpo cinematografico/Deneuve e immagine storica immortale. Il teatro si illumina di nuovo con la luce artificiale, e il teatrino pare concludersi con Henri che paga i camerieri con i soldi lasciati per sbaglio lì da Séverine. I giovani camerieri dicono, come il barista precedentemente, che Henri è un uomo strano e peculiare. Mettono lentamente la stanza a posto, e il film si conclude. Nulla è stato aggiunto a Buñuel, nulla è stato aggiunto al classico con Catherine Deneuve, l’unica cosa che Bella Sempre fa (e che fa con un tatto e un’eleganza impeccabili) è ristabilire un ordine, una responsabilità, una forma di un qualcosa di non più esistente con uno sguardo perfettamente in equilibrio tra la gloria del passato e l’incomunicabilità del postmoderno. L’esistenzialismo dei silenzi, la lotta e il particolare contro la società borghese assassinano il sadismo pulito di un enigma senza fine, ironico e pregno di un odio che sconfigge il tempo stesso.

Nicola Settis

“Belle toujours” (2006)
68 min | Drama, Music | Portugal / France
Regista Manoel de Oliveira
Sceneggiatori Manoel de Oliveira
Attori principali Michel Piccoli, Bulle Ogier, Ricardo Trêpa, Leonor Baldaque
IMDb Rating 6.5

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