Su questo sito ci siamo spesso concentrati sul regista e sceneggiatore Paul Schrader ad esempio curando più di un anno fa un approfondimento sulla sua filmografia attraverso tre film che per noi costituiscono almeno parzialmente uno specchio della sua intera opera o perlomeno dei filoni concettuali principali del suo cinema mutevole: Hardcore, Auto Focus e The Canyons. Ma in una filmografia così vasta e stratificata, è importante considerare che spesso si esce dai confini e dalle coordinate prestabilite di un mondo cinematografico e ideologico coerente, come ci ha dimostrato il grandissimo First Reformed all’ultimo Festival di Venezia. Mishima è il quinto film dietro la macchina da presa per l’autore, che lo considera il suo capolavoro di regia: abbiamo avuto modo di rivederlo all’edizione del 2018 del Cinema Ritrovato a Bologna e, grazie a una versione in 4k proiettata sull’enorme e soddisfacente schermo del Cinema Arlecchino, abbiamo ottenuto la conferma che è probabilmente davvero il più grande film del versatile Schrader. Ma innanzitutto andiamo a ritroso per riscoprire per l’ennesima volta la sua carriera. Schrader ha cominciato come saggista cinematografico e poi come sceneggiatore, con The Yakuza di Sydney Pollack, scritto insieme al fratello Leonard, esperto di cultura giapponese che collaborò anche con Yoji Yamada, Obsession di Brian De Palma e soprattutto Taxi Driver di Martin Scorsese, successo dopo il quale si cimentò in un esordio direttoriale intitolato Tuta Blu nel 1978, un film praticamente neorealista che racconta il conflitto razziale attraverso il mondo operaio mischiando l’umorismo di Richard Pryor con la tragedia intima americana à la Cassavetes di Ombre. Con il capolavoro Hardcore e col successivo American Gigolò, che fu un grande successo al botteghino, ha deciso di spostarsi di più sul racconto esistenziale della vita di uomini soli in società o clan con cui c’è un’apparente problema di accettazione su più strati e su più livelli drammaturgici impliciti ed espliciti. Pur rimanendo sempre nei meandri del film di genere, Schrader collima sempre di più col mondo del cinema d’autore europeo e asiatico, facendo in particolare riferimento a Polanski e soprattutto al Bresson di Diario di un curato di campagna e Pickpocket. In un momento per molti meno brillante ma per noi decisamente suggestivo, tra questi sforzi autoriali spunta anche un film di genere, tributo ai film dell’orrore di Jacques Tourneur, per la precisione un remake lisergico de Il bacio della pantera con al centro una Nastassja Kinski che diventa carne da macello per un contorto discorso psicosociale sulla sessualità e sulla sua repressione del mondo moderno. Arrivati a questo punto della sua carriera, Schrader è già un autore formato, quadrato e comprensibile, ma anche imprevedibile. E il fatto che dopo Cat People sia arrivato proprio Mishima: A life in four chapters lo dimostra massimamente: scritto sempre con Leonard, il film, che si avvale di un’intensissima colonna sonora di Philip Glass, della brillante fotografia di John Bailey (che ha presentato il film a Bologna), di un ricco cast giapponese capitanato da Ken Ogata e del supporto economico di Coppola e Lucas, è un kolossal esotico, erotico e sperimentale che racconta con un ordine delirante ma matematicamente calcolato la vita dell’autore Yukio Mishima dall’infanzia al suicidio.
La vita dello scrittore di Tokyo è raccontata tramite un espediente narrativo che diventa un espediente di arricchimento stilistico, ovvero un costante montaggio alternato di tre filoni che procedono con modalità di racconto diverse. C’è la storia della vita di Mishima, con una messa in scena compatta in bianco e nero che rimanda ai film di Ozu e di Mizoguchi, con pochi e brevi momenti di sperimentazione visiva e una progressione sostanzialmente diretta spesso accompagnata dalla voce narrante di Mishima stesso (e, nella versione americana, di Roy Scheider), che commenta le varie fasi della propria vita dando un profilo psicologico freddo ma mai disonesto, che paragonato alle altre sezioni del film dà un quadro completo sul suo personaggio; poi c’è la storia dell’ultimo giorno della vita di Mishima, dal risveglio fino al seppuku durante l’attentato al generale Mashita, con una regia dapprima puramente schraderiana e americanizzata nella presentazione del personaggio e poi movimentata, tesa e documentaristica, in una sezione che funge come prologo e come intermezzo tra i vari blocchi per poi occupare prepotentemente buona parte del quarto e ultimo blocco; e poi c’è un’altra, triplice storia che dà lo scheletro di questa suddivisione in blocchi mediante l’inserimento di opere dell’autore messe in scena. I quattro blocchi si chiamano rispettivamente “bellezza”, “arte”, “azione” e “armonia di penna e spada”, e mentre la biografia di Mishima in bianco e nero si alterna in maniera irregolare attraverso tutta la durata del film, la sezione sull’ultimo giorno della sua vita occupa sempre e precisamente l’inizio dei primi tre singoli blocchi, per poi occupare più spazio appunto nel quarto blocco. In “bellezza”, “arte” e “azione” buona parte del tempo è occupata da riadattamenti cinematografici, come se fossero tre piccoli cortometraggi in serie, che riprendono a piene mani tre romanzi dell’autore, per la precisione Il Padiglione d’Oro, La casa di Kyoko e Cavalli in fuga. Così Schrader struttura un discorso polivalente e multitematico sullo scrittore, in questo modo utilizzando come pretesto pseudo-agiografico e cronologico questi tre poli concettuali e l’equilibrio che Mishima ha cercato di trovare tra essi – l'”armonia di penna e spada”, che è il suicidio rituale quasi come forma artistica, momento massimo di estasi del dolore, con lo scrittore/regista che invece di guardare si fa guardare. Schrader decide di non indugiare sul realismo del rituale, che fu veramente scabroso poiché Mishima non riuscì a completare il seppuku immediatamente: il finale del film sovrappone un effetto Vertigo sul volto del protagonista ai momenti di “estasi” raggiunti dai protagonisti dei suoi racconti, così mettendo Mishima stesso ormai al livello di un personaggio fittizio, la cui vita è messinscena e il cui mondo etico e visuale è in completo deterioramento. La sua vita, anche nel film, si incrocia coi suoi romanzi, in particolare con Confessioni di una maschera, da cui sono riprese almeno due scene inserite però nella vita reale dell’autore.
Mishima è una figura umanamente, filosoficamente, eticamente e linguisticamente discutibile, che ancora crea vive discussioni morali nel suo paese a causa della violenza tradizionalista, in Europa accusata di fascismo, con cui l’autore ha sostenuto fino in fondo le proprie tesi imperialiste pur considerandosi apolitico. Ma se volessimo concentrarci su Mishima come entità o corpo ideologico, probabilmente dobbiamo cambiare film e guardare un’opera più nippocentrica e crepuscolare come 11/25 The Day Mishima Chose His Own Fate di Koji Wakamatsu. Lo sguardo di Schrader è uno sguardo più lirico e sfaccettato, almeno in questo caso, anche solo per la questione della lingua e della nazionalità: il fatto che sia proprio un americano a raccontare il mondo e la lotta interiore di un uomo che si è sacrificato per l’identità del Giappone significa in un certo senso costituire uno scompenso o un tradimento etimologico. Infatti Schrader costruisce il suo Giappone dalle radici mediante l’estetica del Giappone che conosce, quello del cinema giapponese, formando gli anni ’40 di Tokyo a partire da film come Crepuscolo di Tokyo di Ozu o Anatomia di un rapimento di Kurosawa e i mondi allucinatori dei romanzi di Mishima a partire dal senso plastico, variegato e psichedelico dei film della Nuberu Bagu, sinistrorsi ma fortemente legati all’identità nazionale giapponese, di Seijun Suzuki (Barriera di carne, Tokyo Drifter) e Shuji Terayama (Throw away your books rally in the streets, Pastoral: to die in the country). Nei capitoli dedicati ai romanzi, infatti, la sospensione dell’incredulità gioca un forte ruolo poiché le location nelle quali si dipana la narrazione sono veri e propri set teatrali, che ostentano la finzione e la ricostruzione figurativa dell’immaginario inconscio dell’autore mediante escamotage grafici quali: un completo irrealismo nelle proporzioni tra architettura e figura umana; il perpetuo manifestarsi di finestre, quadri e schermi come “pareti” che separano goldonianamente il mondo-teatro dal teatro-mondo; lo spostamento e il mutamento delle scenografie stesse all’interno della scena per esplicitare la natura subconscia e onirica dello spazio; e l’ossessiva ripetizione di colori tematici all’interno dei singoli segmenti (Il Padiglione d’Oro usa il verde e l’oro, La casa di Kyoko il fucsia e il grigio, Cavalli in fuga l’arancione e il nero). Mediante le storie dell’autore di Tokyo, Schrader non ha l’ambizione di catturare pienamente il suo inafferrabile profilo artistico e psicologico quanto quella di delineare l’immagine complessa dell’ennesimo uomo solitario, inetto e in crisi spirituale della sua filmografia, un uomo talmente patetico che per pietà nei suoi confronti l’autore americano descrive i suoi sentimenti e le fasi della sua vita empatizzando con lui e dandogli la possibilità di specchiarsi, visivamente e mentalmente, nei propri personaggi, nei propri protagonisti, in una escalation sul dolore umano, che passa dalla pulsione alla distruzione del bello de Il Padiglione d’Oro alla scoperta del masochismo e della sessualità di La casa di Kyoko fino alla volontà al sacrificio di Cavalli in fuga e al suicidio reale dell’attentato del 25 novembre 1970.
Pur non costituendo propriamente un bignamino didascalico o documentaristico su Mishima, il film di Schrader è ironicamente e in maniera a dir poco unica un’introduzione perfetta al mondo dell’autore giapponese per gli spettatori e i lettori occidentali, poiché le proiezioni mentali dell’assurdo immaginario dello scrittore sono qui traslate e filtrate attraverso il più creativo e solenne degli sguardi, appunto, occidentali. Le scenografie di Eiko Ishioka presto scompaiono, quando non se ne sente più il bisogno, e questo perché il protagonista non è uno scrittore qualsiasi, è un corpo che si autodefinisce e si propone come corpo, ricerca di un’estasi immaginifica o di un’immortalità immateriale che non possono giungere attraverso i suoi romanzi, ed è per questo che, quasi come cercando di dare a Mishima stesso una sorta di catarsi attraverso il montaggio, Schrader decide di sostituire la narrazione delle sue storie con la narrazione della sua storia, della Storia di un paese e di una controversia leggendaria, rendendo la vita stessa di Mishima l’opera d’arte camaleontica di ricerca della bellezza nella morte che Mishima stesso ha sempre voluto esperire. E nel finale, dopo l’urlo tragico che conclude tutto un percorso di dolori psicosessuali e ideologico-simbolici, di nuovo Mishima è sostituito, per quanto brevemente, dai suoi personaggi, che giungono alla loro personale estasi basata sulla distruzione o sull’autodistruzione. Il Sole che emerge da dietro l’Orizzonte, visione di un Dio che non è mai nominato ma è sempre presente come promemoria di un dolore e di un’entità che sono più grandi dell’uomo, come ci ricorda il “Kami-sama”-Sole di Silence di Scorsese o i discorsi di Nietzsche sulla cultura della sofferenza nel cristianesimo, è l’ultimo barlume di luce in una vita dedicata alla luce ma vissuta nel buio, in un’incoerenza che ancora oggi fa discutere, per un film sul quale ci sarebbe molto di più da dire, analizzando le singole sequenze sia stilisticamente che contenutisticamente. Ma ora, così, la diretta complessità della struttura e la ricchezza semantica e simbolica dell’operazione ci possono bastare per osare questa definizione: Mishima: A life in four chapters è uno dei più grandi film biografici di ogni tempo, un capolavoro visionario che fa collimare culture e mondi diversi in un enorme e ambizioso calderone esistenziale omnicomprensivo dai ricchi riferimenti umanistici, senza mai entrare davvero nel rischioso ambito del kitsch. E sono poche, nella settima arte, le opere altrettanto intellettualmente stimolanti e sorprendenti.
Nicola Settis