Un film narrativo di consueto ha la prosaicità di ciò che è graduale, e spesso quello che si definisce cinema sperimentale finisce per avere la forma della poesia visiva con le sue strutture di senso e cadenza interne. Sono due categorie che vengono spesso ben distinte, e che negli ultimi anni, in cui ottenere informazioni e vedere le cose è sempre più facile, sembrano avere un confine sempre più labile. Un regista che ha sempre voluto ballare tra l’uno e l’altro è Harmony Korine, che nei suoi ultimi due film presentati a Venezia, Aggro Dr1ft nel 2023 e Baby Invasion nel 2024, più che unire narrazione e sperimentazione sembra aver preferito mettere una pietra tombale sull’idea di struttura, creando film fastidiosi che soprattutto sono gesti netti. Per quanto si possa dire che entrambe queste opere liminali abbiano nella propria configurazione un inizio e una fine, alla fine nelle loro durate non si muovono di un millimetro dalla propria proposta di idea, come calcificando la forma, portando la regia, il montaggio, il senso dell’operazione in uno stato comatoso — osserviamo lo stesso istante reiterato ‘ad libitum’ in quella che potrebbe essere la durata perfetta per un film narrativo (in entrambi, Aggro e Baby, 1 ora e 20), ma che per lavori così autodistruttivi diviene facilmente estenuante. Aggro Dr1ft si presentava come un film-videogioco, e usava la camera termica e l’intelligenza artificiale per farsi alieno, radicale. Virtualmente una grande presa in giro con musica ambient a volume assordante, ma in fin dei conti il ‘senso’ (parola tosta) è racchiuso nel soliloquiare insistito del voice over, una masturbazione nichilista disperata. Viene creata un’esperienza, psichedelica ma sciatta, serotonergica ma patetica, che prende per sfinimento col desiderio di ‘trollare’ lo spettatore. Korine nelle interviste parla di morte del cinema e interesse crescente per il medium videoludico, ma nel suo primo esperimento ha più preso l’estetica e il ritmo dei videogiochi che altro, è pur sempre cinema. Se avesse fatto un film che è davvero anche un videogioco, avrebbe tentato di re-inscenare con la costrizione del cinema la base del mezzo a cui si ispira, ovvero l’interazione, la presenza della narrativa in seconda persona (al cinema teoricamente impossibile), specificatamente la figura del giocatore. Noi non possiamo che essere pubblico distante e distaccato del mondo apocalittico di questo cinema — se continuiamo a volerlo dire tale. Oltre alle proiezioni veneziane, Aggro Dr1ft è stato proiettato personalmente da Korine solo negli Stati Uniti in bar e strip club, per poi essere postato online in versione acquistabile (a bassa qualità, pure) sul sito di EDGLRD (che sta per: EdgeLord), la casa di produzione inventata per suddetto film. Per cui queste visioni, che cinematografiche lo sono ma a metà, al Lido di Venezia sembrano davvero degli eventi, esperienze trasversali che incrociano medialità in un senso alienato.
Il progetto alla base di Baby Invasion è ancor più anti-narrativo, e mette in scena con un poliedrico putiferio anti-ADHD proprio l’interazione del giocatore. Il film si apre e si spegne su una cornice mockumentaristica che dà l’illusione di una progressione e di un impatto reale, ma in fondo si bea di non avere un vero inizio – al massimo una vera fine. Spiegando meglio: una delle prime cose che il film urla allo spettatore, con una scritta veloce che lampeggia sullo schermo (cifra stilistica vicina all’amico Gaspar Noé, seduto vicino a Korine alla proiezione ufficiale in sala grande, e ai suoi vari Climax), è che questo, come la pipa di Magritte, «non è un film». Anzi, è un videogioco, ma non è un videogioco, è la vita reale, ma non è la vita reale, perché non c’è una vita reale, non c’è la realtà, c’è solo l’ora, l’adesso, «the eternal now». Ma suddetto momento presente infinito non può che essere effimero e disperato, il film finisce, peraltro nel modo più beffardo e autodistruttivo, e anche se Baby Invasion non è mai iniziato, è sicuramente, finalmente finito. In un senso di apocalisse irreale, la succitata cornice mockumentary è capo e coda dell’avventura, e funziona così: una donna racconta un videogioco che ha inventato al fine di ideare un progetto ipnotico, che dà dipendenza, virale. Il videogioco si chiama come il film, Baby Invasion, ed è uno sparatutto in prima persona che simula le invasioni casalinghe nelle ville dei ricchi, re-immaginando il giocatore come un soldato surreale in un team di suoi simili, una squadra di vendicatori in nero, giubbotto antiproiettile, fucili di ogni dimensione, e soprattutto, volti deformati da filtri orripilanti, trasformati con intelligenza artificiale in volti di bebè, che si divertono durante le atrocità. Il gioco è stato bandito in quanto pericoloso ma le persone avrebbero cominciato a compiere le azioni proposte dal gioco nella vita reale. Ipoteticamente alla fine c’è un boss, che in classica tradizione da storia fumettistica/animata/videoludica giapponese è chiaramente uno scontro con Dio. Il momento dell’uccisione non è mai in campo… prima si vede un “livello” portato a compimento, dal punto di vista del giocatore, ovvero un’invasione asettica in una villetta i cui abitanti si arrendono zombificati al loro destino, prima che all’improvviso ci si ritrovi di fronte ai soli bebè (i “baby invaders”) che festeggiano in mezzo ai cadaveri. Il giocatore è premiato di conseguenza con tesori virtuali, e comincia un nuovo livello. La faccia del giocatore, o dei giocatori quando è in modalità multiplayer, appaiono sullo schermo in riquadri spostati in un angolo come in un video di gameplay, con a lato un’intermittente chat di commenti in un sacco di lingue diverse che inventano battute per trovare un senso in quello che stanno guardando. La chat da Twitch occupa quasi metà schermo e fa nel contempo da sottofondo comico, coro greco e riflesso di quello che potrebbe star pensando il pubblico, il tutto verbalizzato col linguaggio della memetica zoomer. Sembrano davvero i commenti di spettatori del settore videoludico che si sono trovati per sbaglio a guardare un film di Korine. Oltre a tutto ciò, si aggiungono tunnel cubisti di immagini che si ripetono, distorsioni dei piani di realtà con una grafica computerizzata pacchiana, etti di cocaina, sangue, piscio sugli yacht, scoregge, diti medi, una colonna sonora incessante di Burial che re-immagina techno e hardstyle con un piglio martellante apocalittico, e soprattutto: un voice over più ipnotizzato che ipnotizzante, un meccanico delirio che racconta l’interiorità del giocatore ipotetico, disperso in questo mondo di violenze ormai reali, usando l’allegoria fiabesca di un coniglio che cerca di tornare a casa, nella tana di sua mamma.
Con un multilinguismo sfrenato (di lingua, di suono, di immagine-movimento) che fa appiattire ed esplodere l’immagine a tempi alterni senza controllo, Baby Invasion finisce per essere, tra le visioni di questa 81esima edizione della Mostra di Venezia, quella più adrenalinica e sbilenca, ma forse anche quella più sinceramente godardiana. In quest’espressione implosiva di estetica mortuaria, diviene immagine inconscia (ripetuta, ripetuta, ripetuta) di un’invereconda tendenza alla violenza, al male banale, una pernacchia all’idea di un cinema morale e bacchettone. È trasmutato il senso di connessione tra immagine e suono al punto da rendere il film una playlist, peraltro con la rabbia adolescenziale che dovrebbe contraddistinguere un vero ‘edge lord’. Un gesto netto. Incondivisibile. La tensione tra l’etica e l’estetica è in uno screzio totale movimentato in tutto questo «eternal now» ripetuto, al punto che Baby Invasion diventa un film dell’orrore. Gli spazi visti in pov sono raggiungimenti del sogno americano, divenuti campo di battaglia per un eccidio. Una deriva alla violenza, al prendersi le cose senza voler aspettare, può far realizzare il proprio diritto alla felicità, in pieno diritto costituzionale statunitense, e questo lo sappiamo da sempre, da mille storie ed esperienze… Eppure i protagonisti koriniani (vengono in mente l’Alien di Spring Breakers e il Moondog di Beach Bum) sembrano sfuggire come schegge impazzite e volare nell’iperspazio dell’inaccettabile. Provocazioni sterili con corpo umano, bucano lo schermo davvero sbalestrando lo sguardo, scandalizzando i sensi, agitando le mani al cielo come in una preghiera a Dio mentre annegano in un caos a cui partecipano volontariamente. In un mondo che appare finito, e con un cinema che a sua volta somiglia a un corpo morto, Baby Invasion è l’opposto della nostalgia, è futurismo datato e autodistruttivo, è un’azione confusionaria e destabilizzante che si propone come visione unica e sbagliata. Un giochetto tra ragazzi, che sembra uno snuff movie. Una ribellione di classe, che però di politico non ha niente: solo l’atto di dare un’immagine a un senso, di vita, di morte, realtà e irrealtà, finalità. Si parla sempre di fine del mondo, nello zeitgeist delle conversazioni in ogni ambito, e Baby Invasion nella fine di tutto ci sguazza, non propone soluzioni, si dispera e priva di certezze il senso del tempo. Onesto nel suo divertissement stupefacente, fino a essere straziante.
Nicola Settis