“Ci hanno insegnato la meraviglia
verso la gente che ruba il pane
ora sappiamo che è un delitto
il non rubare quando si ha fame”Fabrizio De André, “Nella mia ora di libertà”, dall’album Storia di un impiegato, 1973
La famiglia, i bambini, la loro visione ingenua e poetica del mondo. Il (non) dubbio etico e morale, il (non) senso di colpa pubblico e privato, la povertà e la dignità degli ultimi. La semplicità del quotidiano, le ragioni del sangue contro quelle dell’affetto, il cuore contro la legge, chi fa i figli contro chi li cresce. Le difficoltà nel vivere cercando di difendersi da una società sempre più spietata, cinica, asfissiante, il cui ritorno allo status quo è l’esatto opposto della giustizia e dell’umanità. In Shoplifters, letteralmente “taccheggiatori”, ma nel titolo francese con il quale il nuovo film di Hirokazu Kore-eda è stato presentato in concorso a Cannes 71 – che poi sarà anche il titolo italiano Un affare di famiglia con il quale lo distribuirà BIM – si tratta più semplicemente di Une affaire de famille, ci sono ancora una volta tutte le tematiche di riferimento del cineasta nipponico, che torna in un certo senso a lavorare su Like father, like son declinando questa volta lo scambio di famiglia in un vero e proprio consapevole cambio, deciso spontaneamente dai bambini. Già, i bambini, sempre protagonisti, sempre vittime, sempre innocenti, ma questa volta di fronte a una nuova possibilità. Dalla freddezza dei genitori biologici vedono e provano forse per la prima volta l’umanità bruciante e disperata di chi è disposto ad accoglierli nella propria casa, nella propria vita e nella propria famiglia, vedono e provano forse per la prima volta l’amore genitoriale e lo scelgono deliberatamente, lasciandosi alle spalle soprusi, percosse, disinteresse, genitori che non sono mai stati genitori. Si entra così, semplicemente infilandocisi, in casa Shibata, trovando la decana nonna ex-prostituta sulla cui pensione si basa buona parte della sopravvivenza della famiglia, trovando le sue due nipoti delle quali una ha seguito le sue “antiche” orme lavorative in un locale a luci rosse fra sexy show allo specchio e privé con i clienti più timidi e l’altra è impiegata senza alcuna sicurezza in una piccola lavanderia, trovando il di lei marito Osamu, operaio altrettanto sottopagato in un cantiere, e trovando il loro primo figlio Shota, perfetto complice di quel padre di fatto che ha spontaneamente scelto ma che non chiamerà mai «padre» nei suoi piccoli furtarelli al supermercato e nei negozi, con i quali sopravvivere alla cruda quotidianità dei salari insufficienti. Un giorno, tornando da una delle loro sessioni di “spesa”, Osamu e Shota troveranno una bimba sola e impaurita, decidendo di darle ricovero per una notte. Al termine della quale, ovviamente, la bambina picchiata in passato da genitori talmente pessimi da non denunciarne nemmeno la scomparsa diventerà la nuova figlia. Quello della piccola Yuri, pochissimi anni e una tenerezza infinita, nella giustizia morale che dovrebbe stare ben al di sopra del diritto penale non è in alcun modo un rapimento, ma è il tendere una mano, è l’offrire un aiuto, è il chiamare a far parte del proprio focolare domestico chi anela quell’affetto che non ha mai trovato nella propria famiglia naturale. È un’adozione d’amore crescente, ma alla legge non importa l’amore, importa solo la “legalità”, e proprio per questo gli illegali Shibata sono costretti alla macchia, alla menzogna pubblica, alla ricattabilità.
Nella famiglia (stabilita in quanto tale perché vuole essere una famiglia) Shibata si vive insieme perché si vuole vivere insieme, perché ci si vuole aiutare e supportare a vicenda, perché ci si vuole amare liberamente di un amore puro, totale, disinteressato, senza vincoli di legge né alcuna necessità di vincoli di sangue. Ma quello fra gli Shibata è un amore talmente cristallino da essere nei fatti impossibile, al di fuori della società e della legalità, non riconosciuto, né riconoscibile, dalla legge. Quello in cui Yuri viene ammessa e abbracciata, diventando a tutti gli effetti tranne quello legale una seconda figlia, è un focolare domestico che non riesce più, come fu nel passato cinematografico del regista, a porsi come il luogo protetto nel quale chiudersi mentre il mondo continua ad andare avanti nelle sue ingiustizie. Sarà anzi amaramente, e forse inevitabilmente, la nuova terra di conquista dell’iniquità sociale, della negazione di carità, dell’ottusità del Giappone di Shinzo Abe – e del mondo “civilizzato” tutto –, per il quale «I figli devono essere cresciuti dalle proprie madri», punto. E poco importa che le loro madri non li amino, poco importa che per loro la figura materna e quella paterna siano ormai altre, quelle di chi li ha accolti, quelli di chi ha dato loro quell’affetto genitoriale che mai avevano ricevuto. Proprio qui, in questa dolente constatazione pienamente politica e profondamente umana, pervasa dell’amarezza straziante e poetica di uno sguardo finale (anzi due) all’indietro senza più trovare il proprio padre, sta la migliore intuizione del nuovo film di Kore-eda. Eppure questa volta, tanto vale dirlo subito, il meccanismo del cinema del regista nativo di Tokyo sembra essersi per la prima volta in carriera un po’ inceppato, come se mancasse una reale ispirazione, come se una sorta di automanierismo avesse preso il sopravvento scoprendo il fianco a qualche forzatura e a troppe pennellate di retorica, come se Shoplifters si incanalasse sui sentieri di un pilota automatico un po’ stanco, che solo a tratti trova il “vero” Hirokazu Kore-eda, il suo acume, il suo trasporto e la sua intensità abituali. Certo, ci sono non poche sequenze di pura potenza poetica, dalla famiglia in spiaggia che gioca insieme saltando le onde sul bagnasciuga all’intensità attoriale di Sakura Ando, adorabile sin dai tempi del capolavoro di Sion Sono Love Exposure, che riesce a instillare nel suo sguardo addolorato e privo di speranza tutta la disperazione e tutta la mancanza di speranza del regista, passando per quell’unica e liberatoria scena di sesso – lasciata intelligentemente fuori campo ma filmata nell’intimità ritrovata del prima e del dopo – che si può consumare nell’unico momento in cui la coppia si ritrova da sola in una casa minuscola e affollata, priva persino dell’acqua corrente, nella quale sei persone convivono in una sola stanza. Così come non manca la sincerità dei bambini che diventano fratelli, non manca la nonna che si rende conto con gli occhi lucidi delle percosse sul corpo della piccola ultima arrivata, e non mancano gli istanti nascosti nell’armadio prima e dopo il cambio d’identità, il furtarello come gioco e ritualità, né il ribaltamento poetico del non poter andare a scuola per ovvi motivi (il)legali perché «la scuola è per i bambini che non possono permettersi di studiare a casa». E ci sono pure riflessioni tutt’altro che banali sul ruolo e sul senso della famiglia, sulla forza del proletariato, sulla verità e sulla menzogna, sulla costante messa in scena in cui vive chi deve riuscire a non dare nell’occhio, e sul saper chiudere un occhio di chi nota i loro segnali di fronte alle caramelle e li lascia liberi di prendersele. Il che rende Shoplifters senza dubbio un “buon film”, profondamente koreediano e accorato nei confronti dei suoi personaggi, ma poi, come a voler inserire di colpo tutta quell’ambiguità quasi assente nella prima parte senza però voler mai rimettere davvero in discussione la netta e condivisibile presa di posizione a favore degli Shibata, ecco la rivelazione di un passato terribile e un po’ pretestuoso, e con lui ecco tutti gli inaspettati limiti del film rispetto ai lavori passati, ecco le frasi didascaliche, ecco un paio di scelte discutibili, ecco un «papà» a denti stretti un po’ eccessivo e ormai telefonato. E Hirokazu Kore-eda, nella sua carriera ultraventennale, ha ampiamente dimostrato di saper fare molto più di questo, di saper essere ancora più intimo e molto più lucido, di saper maneggiare con maggiore cura e stratificazioni la narrazione e le tematiche sulle quali da sempre si interroga. Per questo il pur interessante e umano Shoplifters, probabilmente il suo lavoro più amaro e dolente, ma anche quello dal quale emergono qualche inaspettata approssimazione e qualche ridondanza, finisce per configurarsi (in mezzo a un quasi generale e apprezzamento, va detto) come una delle mezze delusioni di questa Cannes. Ed è sempre un piccolo trauma quando il nuovo film di un regista che si adora e che si segue da tempo immemorabile – il che, ovviamente, alza le aspettative – non riesce a entrare fino in fondo negli occhi e nel cuore, non riesce a colpire e trasportare ma solo a “interessare”, non riesce a “piacere” per intero, senza riserve e senza remore.
Un affare di famiglia ha di certo dalla sua un incipit folgorante, che quasi strizza l’occhio alla commedia slapstick nella vera e propria organizzazione familiare di esche e distrazioni con cui riuscire, in un lavoro di gruppo, a portare via il cibo dal supermercato. Così come, al di là dei dubbi su quell’unico e malinconico ma ormai retorico «papà», è splendido il finale, fatto di saluti al (non più) padre e di sguardi malinconici nel vuoto e non/mai più negli occhi, e in mezzo non manca, nello sviluppo del melò familiare, più di qualche istante in cui Kore-eda torna finalmente alla sua consueta densità, alla sua consueta sensibilità di interstizi umani e alla sua consueta straziante poetica, fra cicatrici che si scoprono uguali fra “madre” e “figlia”, bizzarri rimedi medici proposti dalla saggezza popolare della nonna e dentini caduti scagliati sul tetto come atto benaugurante. Eppure, a legare i non pochi momenti di puro cuore, c’è questa volta una narrazione dal ribaltamento inaspettatamente meccanico, che durante lo scorrere dei titoli di coda lascia con un sapore amaro in bocca. Quello stesso sapore, se vogliamo, che aveva lasciato la Pietà secondo Kim Ki-duk ai tempi della sua prima proiezione (con tanto di generosissimo Leone d’Oro elargito nel corso della prima edizione del Barbera-bis) a Venezia. Sia ben chiaro: Un affare di famiglia è un film decisamente superiore a Pietà, e il nostro paragone non vuole essere sull’effettiva qualità dei film, ma piuttosto sul loro ruolo all’interno delle rispettive filmografie degli autori. Dopo un lavoro atipico (l’autoanalisi eremitica di Arirang nel caso del regista coreano, l’inedita incursione nelle forme di uno spiazzante quanto riuscito noir giudiziario per il Kore-eda di The third murder), Pietà ieri e Shoplifters oggi segnano infatti il ritorno dei rispettivi autori alle forme più canoniche e melodrammatiche del loro cinema, ed entrambi lo fanno in una sorta di “tono minore”, con un’inaspettata approssimazione nel riproporre schemi e tematiche avendo apparentemente meno da dire, con una sceneggiatura e una messa in scena più superficiali, forzate e retoriche rispetto alle abitudini. Ma se nel caso di Kim Ki-duk Pietà è stata una cesura, una chiusura con quel cinema per aprire una nuova, minore ma comunque interessante e decisamente più depressa, fase della sua carriera, nel caso di Kore-eda Shoplifters si pone per ora come un semplice e improvviso passo stanco, come un film/campanello d’allarme che, seppure ancora doloroso e stratificato, accorato e indubbiamente “bello”, rivela tutti i possibili limiti della scrittura e della costruzione del cinema semplice e intimo del suo autore, e apre ai dubbi su una sua possibile stanca ripetitività “per portare a casa” un film all’anno o giù di lì.
Nella famiglia allargata, “de facto”, che Shoplifters mette in scena, il film di Kore-eda inanella ancora una volta quelle che sono sempre state le più tipiche tematiche del suo regista, continuando a interrogarsi su famiglia biologica e famiglia adottiva, sulle classi sociali del Giappone di oggi e sulla dignità degli individui, sugli interessi (o disinteressi) e sui sentimenti che innervano ogni rapporto umano, ma questa volta finisce per fermarsi ad assunti giusti ma, per quel che sa fare Kore-eda, tutto sommato banalotti, scontati (che i figli siano di chi li cresce e non di chi li partorisce non ci pare questa grande novità, come non ci pare una grande novità che giustizia e legge si trovino solo di rado a coincidere), già portati alla luce con maggiore acume e complessità da altri lavori del passato e magari espressi con un inspiegabile, soprattutto conoscendo e apprezzando da molto tempo l’autore, eccesso di retorica nei dialoghi. La ridondante frase «Dare alla luce un figlio rende automaticamente una madre?», messa in bocca al personaggio interpretato da Sakura Ando nel momento in cui la polizia la metterà sotto torchio in sostanziali interviste frontali guardando in macchina, suona in questo senso quasi come un’ovvietà inutilmente palesata dalla parola dopo essere stata già ampiamente espressa (questa volta in maniera più cupa ma meno stratificata del solito) dal cinema, e non è la sola “verità” incolore che viene troppo apertamente esplicitata nei fitti dialoghi, quasi come se il regista questa volta non si fidasse fino in fondo della sua narrazione e della sua, incontrovertibile, capacità di comunicare per immagini e linguaggio. Dove nel magnifico Like father, like son (o Father and Son, titolo con il quale uno dei maggiori capolavori di Kore-eda è stato distribuito in Italia) non esistevano verità assolute ma solo enormi ambiguità e contraddizioni in cui naufragare e commuoversi (il padre ricco e freddo costretto dagli eventi a scoprire la propria umanità ha al suo fianco una moglie remissiva ma che è sempre madre “vera” e commossa; il padre povero ama i figli che «non si possono comprare» fino in fondo, ma di certo non brilla per intelligenza, e dove non si intaccano i sentimenti finisce per dimostrarsi più volte legato ai soldi; le ragioni del sangue – e del corredo genetico – possono avere la loro effettiva importanza nelle attitudini del bambino/ragazzo/uomo che verrà mentre quelle del cuore, seppure più “giuste” e intime, portano a una dolorosa ingiustizia quale che sarà la decisione presa; fino al finale al contempo sublime e atroce, sentimentale e triste, d’apertura eppure intimamente già sconfitto), Shoplifters parte invece da idee ben definite di famiglia “alternativa” e di assoluta moralità dei furtarelli per fame, e cercherà solo nell’ultima parte di rimetterle in discussione. Ma se è indubbiamente interessante e acuta la riflessione amara e disillusa secondo la quale il degrado di una società iniqua e disumana finisce inevitabilmente per portare alla degenerazione anche la famiglia, magari fino a ridiscutere lo stesso meccanismo di identificazione dello spettatore in quella famiglia dipinta come idillio d’amore e di arte dell’arrangiarsi, convincono decisamente meno le modalità con le quali questo avviene, e le verità che saranno destinate a emergere.
Kore-eda le racconta, sia ben chiaro, senza alcuna volontà di giudicare o far giudicare i suoi personaggi, o meglio ancora continuando a stare apertamente dalla loro parte mentre spinge il pubblico a ridiscutere tutta la moralità degli Shibata, ma si fa lo stesso fatica a non considerare le rivelazioni di omicidi e di interramenti passati un qualcosa di troppo, quasi al limite del gratuito, lontano dalla complessità continuamente stratificata delle opere precedenti in cui l’unica verità era l’impossibilità di una verità, e in un qualche modo in conflitto con il senso stesso del film. Il prefinale di Shoplifters, con il suo innervare di orrore passato la genesi della famiglia Shibata fondata sul delitto e sul silenzio come menzogna da cui nasce ogni menzogna, è un sostanziale gioco alla ridiscussione che questa volta non parrebbe riuscire a uscire dalla sua natura, appunto, di “gioco”, che alle continue (e continuamente acute) ambiguità che innervavano (non solo) Like father, like son preferisce un ribaltamento netto, un po’ forzato e pretestuoso, in cui una madre-non-madre che quasi incarna(va) l’amore materno ora si scopre assassina dell’ex marito, e sarà – con tanto di accordo fuori campo che porta il marito a mentire ancora una volta sul ritrovamento della piccola – la sola a pagare con il carcere quando Osamu è stato, e la polizia lo dice chiaramente, suo complice nei “sequestri di minore” e negli “occultamenti di cadavere”. Anche l’omicida può essere più umano di chi lo giudica, ma non è più questo ciò che conta. Ciò che conta è la (in)”giustizia” che arriva a distruggere l’idillio, a “restituire” i figli ai genitori “legittimi”, a lasciare tutti soli, in prigione o nella sostanziale prigione di una casa vuota e silenziosa, immersi nei rimpianti. Il che è profondamente koreediano e poetico, ma questa volta, per la prima volta, rimangono i dubbi ben definiti e inaspettati sulla costruzione dell’iperbole narrativa che porta al disfacimento della famiglia non attraverso le ambiguità “presenti”, incontrate nel quotidiano messo in scena, ma con la rivelazione di un passato il più possibile truce, terribile, scioccante, ma in qualche modo separato dalla narrazione, lontano, senza reali ripercussioni, al di là dell’aura di mistero e della necessità di mentire, sugli Shibata raccontati per oltre due ore. E questo, per quello che è sempre stato un maestro della scrittura cinematografica nello strabordare cuore mentre tutti si contraddicono e nel mantenere sempre una linearità assoluta, quasi soffice nello scorrere perfettamente oliato dei momenti, è un limite, è una forzatura, è una debolezza di fronte alla consueta densità, è ciò che rende Shoplifters un film probabilmente minore. Anche quando, non solo per la morte della nonna, le difficoltà economiche si saranno fatte sempre più gravi, suona quasi (forzatamente) contrastante il furto “antietico” del padre Osamu non più dai negozi, dove «la merce non è ancora di nessuno», ma da un’automobile privata parcheggiata in un piazzale, così come lascia più d’una perplessità, per quanto sia dettato dalla purezza dell’infanzia, il convincersi dei due giovanissimi protagonisti che la chiusura – in realtà solo temporanea e per lutto – del piccolo negozio dove sono soliti taccheggiare sia in realtà un fallimento dovuto alla loro colpa, ai loro furti, agli ammanchi di cassa che quotidianamente provocano. Fino alla necessità del sacrificio. Per proteggere la sorellina alla quale un furtarello al supermercato si stava complicando, Shota si farà “beccare” apposta, fuggirà, e durante la fuga si lancerà da un viadotto finendo in ospedale, trascinando di fatto la famiglia Shibata al di fuori di quel cono d’ombra e d’amore puro ma clandestino nel quale era necessario che si nascondesse (non mandando i figli a scuola, inventando nuovi nomi e nuove biografie, vivendo nei silenzi e nelle fondamentali bugie) alla collettività e alla legge per proteggere il suo idillio d’umanità. Negli sviluppi e nei ribaltamenti di Un affare di famiglia, Kore-eda finisce così non tanto per ridiscutere, ma quasi per tradire l’effettiva piena legittimità del furto per fame, postulato su cui la famiglia – e il film – basa(va)no la propria sopravvivenza. Ma se da una parte la rinuncia (apparente) ai postulati per ridiscuterli innerva Shoplifters di ulteriori riflessioni e di tridimensionalità etica dei personaggi, questo processo finisce per giungere in un certo senso troppo tardi, fuori tempo massimo, lasciando questo film lontano dalla profondità e dalle riflessioni a cui l’autore nipponico ci aveva abituati nella sua straordinaria carriera. Sembra quasi un’autoimitazione Un affare di famiglia, una versione un po’ impallidita e meno ispirata del lavoro ultraventennale di Kore-eda, un film comunque “buono”, ma che questa volta rivela anche qualche problema. Da rilevare a costo di essere fin troppo severi – del resto, si sa, il critico più crudele è proprio l’amante deluso, al quale un “buon film”, quando arriva da un maestro, non basta.
Eppure, ben al di là dei problemi di questo film, nella minuziosa costruzione di un Giappone sottoproletario e indifeso fatto di lavori provvisori e di case scarsamente riscaldate, nell’interrogarsi apertamente sul ruolo, sulla volontà e sui sentimenti della famiglia, nel mettere in aperto conflitto la società e il privato domestico, i genitori biologici e quelli che danno amore, la famiglia “ufficiale” e quella volontaria e “proibita”, la menzogna delle parole e la realtà delle immagini, e non certo in ultimo nel cuore con cui ogni personaggio viene ritratto e dolcemente filmato, Hirokazu Kore-eda si schiera ancora una volta e con afflato forse ancora più deciso di altre con gli ultimi, con i reietti, con i socialmente “cattivi”, che invece sono spesso molto migliori dei “buoni”, molto più sinceri, molto più emotivi, molto più di cuore. Si schiera apertamente con chi è costretto a una piccola (e vana) resistenza quotidiana e familiare contro una società spersonalizzante, e per questo sarà ancora una volta schiacciato, “punito”, sconfitto. I “taccheggiatori” di Kore-eda rubano e si prostituiscono, è vero, e in passato hanno ucciso e nascosto cadaveri, ma il regista – atto di per sé cinematograficamente coraggioso e pienamente politico nel Giappone di ieri e di oggi – prende fino in fondo le loro parti, si siede al loro fianco, rema insieme a loro contro le peripezie della vita, lasciando che emerga tutta la loro profonda dignità messa in scena con sguardo sincero e intimo, pudico e di onestà specchiata – anche nei furti, per lo meno in questi furti ben più onesti dei processi che restituiranno i bambini a quei genitori “ufficiali” che potranno ricominciare a ignorarli e maltrattarli. Tanto che ci si ritrova a pensare, anche se in sostanza freddi di fronte a un film su cui le aspettative erano molto alte e in primo luogo profondamente dispiaciuti per questo, a come da Shoplifters traspaia comunque la pura autorialità di un regista gigantesco, traspaia comunque la contemporaneità (o atemporalità) delle sue ossessioni, traspaia comunque la sua capacità di scandagliare i sentimenti e l’umanità più straziata, e soprattutto traspaia forse mai come questa volta tutta la sua profonda e amara disillusione, declinata in un film pessimista, dolente, probabilmente sofferto ben più di quanto non dia a vedere. Tanto da riaccendere quasi subito la speranza e la convinzione che, già dal prossimo lavoro, Hirokazu Kore-eda possa tornare alle sue abituali vette, senza sentire la necessità di una retorica “hollywoodiana” finale (anche se forse è proprio questo il reale motivo del suo apprezzamento a occidente) a “spiegare” ciò che era già più che chiaro con la poetica. Sempre con la consapevolezza che, a prescindere da cosa dirà il futuro e molto più prosaicamente, magari tutti i film “problematici” e “difettosi” fossero così! E che di certo non può bastare un lavoro un po’ meno riuscito del consueto, che sarebbe probabilmente un esordio folgorante ma che nella carriera di un maestro (mai abbastanza) conclamato come Hirokazu Kore-eda sembra un piccolo passo indietro che per la prima volta apre a qualche dubbio e a qualche riserva ben definiti, per smettere di volere bene a un autore e a un uomo dalla sensibilità da sempre così straordinaria, e così profondamente necessaria.
Marco Romagna