Inizia con un sogno, On Happiness Road, inizia con un ritorno all’infanzia, a quel momento nel quale Chi, un tempo bambina e adolescente taiwanese e oggi donna e moglie con tanto di cittadinanza statunitense, si era trasferita con i suoi genitori nella nuova casa proprio nella benaugurante via della Felicità. Ma i sogni, si sa, specialmente quando coinvolgono il proprio passato non pienamente risolto in un presente nel quale la felicità va ancora trovata, sono spesso destinati a virare in incubi, in cadute dal carretto, in tuffi in un mare dal quale solo la (memoria della) nonna, alleata di ogni battaglia e sempre pronta ad accorrere in difesa dell’amata nipote, potrà afferrare la bambina indifesa per trarla in salvo. Fino al risveglio di Chi ormai adulta ma ancora indecisa, sospesa in un presente che, fra la crisi coniugale che la sta portando al divorzio, la necessità di tornare a Taiwan per i riti funebri dell’amata nonna e una bambina in grembo della quale nessuno tranne lei è ancora a conoscenza, si è rivelato non essere il futuro che sognava. È sin da subito chiaro il motivo per il quale la regista live action Hsin Yin Sung, già autrice di tre cortometraggi in carne e ossa, ha deciso di passare all’animazione per questa sua sognante favola di formazione e ricerca di felicità, prima con l’omonima versione breve e ora con il lungometraggio d’esordio portato in Italia alla ventesima edizione del Far East Film Festival di Udine. On Happiness road, prima ancora che un omaggio all’isola di Formosa con tutti i suoi usi, i suoi costumi, le sue lingue, le sue contraddizioni, i sui pregi e i suoi difetti, prima ancora che un film sulla memoria e sul tempo che passa, prima ancora che una chiara contrapposizione fra oriente e occidente, prima ancora che un addentrarsi negli affetti, negli imbarazzi, nelle tenerezze, nelle gioie e nelle delusioni di ogni rapporto familiare, è infatti specialmente nella prima e più riuscita parte un detour dell’immaginario fatto di sogni e paure, di fantasia e realtà, di colori e tratti che, nell’onirico, si fanno necessariamente meno definiti, più grezzi e slabbrati, quasi puntinati, in un certo senso impressionisti come le impressioni giocose, creative e fiabesche dell’infanzia comportano. Solo l’animazione, con sua la possibilità di disegnare draghi che da mostri feroci diventano simpatici e tranquillizzanti animaletti pronti a porgere una rosa a chi fino a un attimo prima aveva paura di loro oppure con quella di trasformare padri e cugini in principi azzurri senza macchia e senza paura, o ancora quella di riportare in vita come eterna consigliera la nonna, può rendere giustizia a questa creatività e al ruolo chiave dell’immaginazione nella vita di ogni essere umano. Solo l’animazione rende possibile quello che, nel (fin troppo fitto) nugolo di tematiche messe sul piatto da Hsin Yin Sung, emerge in un certo senso come principale argomento del film, come sua necessità espressiva e vero punto di forza ben al di là dei limiti tecnici ai quali, quasi inevitabilmente, va incontro.
Come prevedibile dalla provenienza taiwanese, infatti, la tecnica d’animazione di On Happiness Road non è propriamente impeccabile. È un’animazione a basso corso, parziale, fatta di movimenti non sempre fluidi e non sempre fedeli alla parola nel labiale, fatta di tratti tutto sommato standardizzati senza veri e propri guizzi grafici al di là delle non poche aperture all’onirico, fatta di fondali non sempre all’altezza dei personaggi che si muovono sui lucidi, fatta di una certa, obbligata, approssimazione. Ma non è quello prettamente tecnico, pienamente perdonabile e anzi nonostante tutto superiore alle aspettative, il vero limite del film di Hsin Yin Sung. Il problema di On Happiness road, seppure sincero nelle intenzioni e nell’omaggio di una donna alla propria terra e alle sue contraddizioni fra pillole di Storia, riti funebri e spirito d’appartenenza, si annida paradossalmente nella sua eccessiva ambizione, nella sua eccessiva lunghezza, nella sua bulimia di tematiche che, a costo di perdere a più riprese il filo della matassa narrativa fra salti e prolisse digressioni senza un reale costrutto, finisce per prendere un film fino a metà acuto e simbolico fatto di tempo, famiglia, memoria e identità e appesantirlo di divorzi, gravidanze, amiche di un tempo che hanno trovato la felicità da ragazze madri (?) e approssimazioni rigonfie di retorica sulla Storia e sulla politica di un Paese che, nel frattempo, non è più sotto dittatura militare e corte marziale, ma ancora è gestito da un governo che obnubila i cittadini con la propaganda sulla propria infallibilità. Attraverso schegge non approfondite a sufficienza di attivismo politico e di necessità di lavorare per mantenere i propri genitori, passando per cugini torturati dall’esercito che ormai vedono solo in bianco e nero e una madre che da perfetta casalinga è ormai ridotta a fanatica del riciclo che nemmeno toglie più gli ortaggi marci dal frigo, la seconda e ultima ora del film di Hsin Yin Sung scialacqua parzialmente quello che di buono era stato costruito nella prima parte, perdendo per strada la verve comica e gli istanti di tenerezza, e finendo nel frattempo per aggiungere tematiche e caratteristiche (quando non stereotipi e cliché) quasi come se volesse elencarle per spuntarle da un elenco, senza in realtà approfondirle. On Happiness Road abbassa così da una parte l’asticella del proprio smalto narrativo arenandosi in appendici tutto sommato inutili sui personaggi secondari (l’amica bionda a casa, il padre di Chi infortunato anni prima sul lavoro, le lotte nella scelta della facoltà fra pragmatismo e ideali, le continue richieste di soldi da parte dei genitori con tanto di umiliazioni quando la protagonista “oserà” rimanere poche settimane senza lavoro appena finita l’università), dall’altra quella delle proprie poetica e scrittura, con dialoghi che si fanno via via più superficiali, meno filosofici, più confusi, quasi come se la necessità di allungare il brodo avesse prevalso sulla densità e sulla poetica, mentre al contrario alcune situazioni (fra le quali il matrimonio) vengono chiuse in maniera sbrigativa e senza quei ripensamenti e dispiaceri che sarebbe stato lecito aspettarsi. I rapporti (multigenerazionali) fra genitori e figli, da sapidi e senza strattoni, finiscono per tendere progressivamente a uno schematismo che forza a sua volta la narrazione fra delusioni e conflitti, incomprensioni e allontanamenti, pretese sempre maggiori e colpi inevitabilmente persi da chi sta invecchiando, fino agli altrettanto prevedibili e sommari ritorni all’amore di chi sta per diventare nonno e alla sola notizia sembra quasi ringiovanire. Tanto On Happiness Road funziona nella sua descrizione dell’infanzia e dell’immaginario, tanto tiene salde le redini quando ragiona sulla memoria, sul sogno e sull’identità di chi è spartito fra due mondi totalmente differenti, tanto si accontenta di rimanere sulla superficie senza cercare una qualche risposta al di là dell’invito a usare «gli occhi del cuore», che poi nient’altro sono che una nuova declinazione di quell’immaginazione cardine del film, nei suoi spunti storici, politici e sociali che entrano quando l’infanzia diventa adolescenza e poi un’età adulta fatta ancora di dubbi e infantilismi.
Sarebbe tuttavia estremamente ingeneroso impuntarsi sui limiti di un film lontano dalle vette della storia del cinema, ma pur sempre sincero, sentito, a tratti irresistibilmente spassoso e a tratti quasi inaspettatamente commovente, frutto di un progetto così lungo, articolato e profondamente personale. È evidente, per tematiche e per gestione dell’epopea storica e familiare, come lo sguardo di Hsin Yin Sung si sia spinto verso Isao Takahata, con ispirazioni a metà strada fra I miei vicini Yamada e Pioggia di ricordi. Sarebbe però quasi crudele, oltre che fuori luogo, proporre un reale paragone fra due capolavori di quello che è stato probabilmente il più grande regista d’animazione (per quanto non animatore, Takahata non ha mai preso in mano una matita!) di ogni tempo e un film d’esordio che, seppure (troppo) ambizioso (per le sue possibilità), nemmeno vuole provare a imitare la poesia e la profondità del maestro ghibliano, ma punta più semplicemente a delineare una strada, seppur tortuosa nel suo legame passato e futuro con l’isola di Taiwan, verso una personale felicità. Così come sarebbe altrettanto folle azzardare paragoni con la new wave taiwanese dei vari colossi Edward Yang, Hou Hsiao-Hsien o Tsai Ming-Liang, per quanto sia inevitabile che Hsin Yin Sung, nell’affastellare tematiche, guardi anche a quello. On Happiness Road, o per lo meno la sua prima parte, segue l’infanzia e la vita di Chi fra flashback fluidi nella struttura, sogni di straordinario potere immaginifico e l’avanzare del filone narrativo del ritorno a casa, concentrandosi sulle sue tematiche di riferimento e trovando più di uno spunto di interesse nell’identità personale di chi non sa più quale sia la sua casa e in quella di un popolo, “aborigeni” o meno, diviso fra il dialetto taiwanese ancora parlato nelle case e il mandarino ufficiale insegnato nelle classi. L’America è il sogno di libertà ma al contempo specchio del fallimento (del matrimonio, ma anche di una reale integrazione), i rapporti di Chi con i genitori saranno destinati ad alternare gioie condivise, incomprensioni, lacrimati (non) addii all’aeroporto e cocenti delusioni, mentre la tenerezza del suo legame con la nonna è e rimarrà intriso di quella stessa innocenza dei bambini che piangono terrorizzati dall’abbandono e magari si fanno la pipì addosso il primo giorno di scuola. Quel primo giorno di scuola nel quale l’orologio digitale al polso del figlio del sindaco già destinato a seguire le orme paterne si erge a simbolo di opulenza e di divisione in classi sociali, fra chi è nato privilegiato e chi dovrà soffrire per guadagnarsi ogni singolo spunto di felicità, fra chi passerà tutta la vita a mentire e chi in un certo momento smetterà di crederci per abbracciare più giusti ideali, ma dovrà nel frattempo continuare a ingoiare bocconi amari, magari nella redazione di un giornale di parte (sbagliata) ma dal quale non ci si può permettere di perdere il posto di lavoro, oppure in America terra di (in)finite opportunità ma anche di razzismo, di intolleranza, di tristi occasioni per Chi in cui sentirsi diversa, fuori posto, lontana. Di fatto, nella prima parte c’era già quasi tutto, e si fatica sinceramente a capire questa volontà di spingere il film a quasi due ore quando, con l’asciuttezza dei classici 90′, On Happiness Road avrebbe probabilmente trovato il suo equilibrio ideale, senza essere costretto a rigirare su se stesso, senza perdersi in argomenti sui quali non riesce ad andare oltre il riferimento o lo slogan, senza essere costretto a correre per recuperare il tempo perduto. Ma il tempo, si sa, è un concetto relativo, un qualcosa fatto di percezioni e spesso di sbavature che, se appesantiscono un film, di certo non sono sufficienti per sminuirne i tanti pregi. Nel tornare indietro per poter guardare avanti di Chi, la vera felicità sta a casa, nel focolare domestico, con chi ama e sempre amerà al di là di ogni scelta e di ogni delusione. In fondo, si è quel che si crede di essere, quello che dice il profondo dell’anima, quello che vedono «gli occhi del cuore». Basta saper trovare se stessi, lavorare sulle proprie contraddizioni, ampliarsi quotidianamente come esseri umani e come cittadini, consci che, nel momento del bisogno, nell’immaginazione e nel fondo del cuore, ci sarà sempre una nonna sulla quale contare.
Marco Romagna