Chissà quale fu lo scoramento del dottor Bouzgarrou, neurologo e psichiatra parigino di origine tunisina, quando si rese conto che proprio la sua amatissima figlia Diane soffriva di disturbo bipolare della personalità. Di una sindrome maniaco-depressiva acuta, per l’esattezza, radicata, grave ben al di là dello sbalzo d’umore e dell’eccessiva irritabilità, nella quale le fasi di depressione annichiliscono, e invece quelle maniacali tolgono ogni tipo di autocontrollo e di autocritica. Era il dicembre del 2010, durante il deflagrare proprio in Tunisia delle Primavere Arabe, quando per Diane, “bi-polare, bi-sessuale, bi-nazionale”, iniziò la fase maniacale più insostenibile. Una fase fatta di megalomania crescente fino alla necessità di mesi di ricovero, una fase fatta di ostentazione del proprio corpo e di straordinaria loquacità, una fase fatta di senso di grandiosità e di ossessione per parlare, dipingere, esibirsi, scrivere, muoversi, amare, esporsi, filmarsi. Una fase talmente intensa che, di quei mesi, Diane-Sara Bouzgarrou non ricorda assolutamente nulla, “Je me ne souviens de rien”. Ma poi entra in campo il cinema. È stato il ragazzo di Sara a raccogliere e tenere da parte tutto il materiale prodotto durante questo lasso di tempo, è stato il ragazzo di Sara a restituirle brandelli di memoria. Una memoria racchiusa in un hard disc e in qualche scatolone, una memoria al contempo fisica e digitale che, con i suoi frammenti, rimpiazza il completo vuoto di quella umana, permette di ricostruire un qualcosa, di capire la propria malattia, e forse di capirsi un minimo. Se durante la fase più compulsiva l’ossessione per il filmarsi nient’altro era che un modo per assecondare lo scatenarsi dell’eccesso psicotico, un filmare la patologia per patologia, adesso queste immagini restano gli unici istanti di una memoria perduta per sempre, totalmente elisa dalla malattia e dai medicinali con cui ora, finalmente, Diane la riesce più o meno a tenere a bada.
Je me ne souviens de rien è una sorta di post-diario, un mosaico di immagini, scritte e blocknotes con il quale Diane ha cercato di recuperare parte di se stessa. Quello che giunge nella sezione Onde del Torino Film Festival 2017 dopo la prima proiezione all’ultimo Cinéma du Réel è un ritorno al passato che ricostruisce la fase più acuta della sua patologia, mettendo in luce aspetti che generalmente non si conoscono di un disturbo diagnosticabile e grossomodo controllabile, ma nei fatti ancora oscuro, cronico, inguaribile. E, per lo meno al tempo, irrefrenabile, totalizzante, assoluto. Non possono che tornare alla mente le 38 ore del Five Years Diary di Anne Charlotte Robertson – le due donne, le due sofferenze, i due circondari: da una parte la solitudine, dall’altra la presenza fondamentale di una famiglia e di un uomo al proprio fianco. Avrebbe molto senso pensare ad un rapporto (im)possibile tra Diane e Charlotte, le loro immagini, le loro malattie, le loro passioni. Sempre in ricerca di se stesse, del loro senso assoluto di passaggio, del loro progressivo allontanamento dal reale, e dal farsi rappresentazione per tentare un avvicinamento. Ma laddove Charlotte cede, nell’esangue e disperata ricerca di una vicinanza come di un senso, Diane reagisce con quel materiale, lo cristallizza per poi vivificarlo, ampliando l’idea provvisoria della propria presenza in questo mondo. La solitudine della prima è il respiro della seconda, che ora può uscire dal suo stesso film, iniziare a camminare, guardare ciò che le sta intorno con la consapevolezza di avere un passato. Perché in gioco, ancora una volta, c’è la memoria, la paura di dimenticare e forse anche quella del ricordare, in un rapporto ambiguo e dialettico, profondo e inconscio, che significa cercare la propria traccia, scavarla così da poterla ripercorre, affrontare la sovraesposizione di tutte le proprie nudità (fisiche e psicologiche), mettere in scena il proprio dolore sperando forse di ritrovarlo già risolto in altra forma. Come in uno specchio o in una caverna, è necessario cercare una fessura dove possa farsi spazio un filo di luce, quel tanto che basta per potersi riconoscere e così potersi donare.
Ci ha messo anni, Diane, per poter lavorare su un materiale che non aveva la minima idea di aver raccolto, specchio di un momento che nella sua testa non esisteva più. Cinque anni prima di poterlo guardare, la necessità di fermarsi ancora, e poi la nascita di una missione: il montaggio, per se stessa e per gli altri, per riscoprirsi e per fare un po’ di luce sulla sua patologia. Je me ne souviens de rien è una raccolta di sogni e paure, drammi e desideri, in cui tutto appare nella sua assoluta precarietà, senza margini definiti, come emozioni corrose e fluide che l’immagine condensa in un segno scritto attraverso il movimento, lambendo costantemente l’oblio di ogni fragilità. Diane cerca dettagli di se stessa, frammenti del suo corpo, i suoi piedi, le sue mani, il suo tatuaggio sul dito che a sua volta è ricerca di identità (nazionale, sessuale, linguistica, d’alfabeto), il suo volto magari ricoperto di altri frammenti di un volto. O il suo seno, esporsi per istinto patologico, ma forse anche come unico e (in)consapevole modo per mettersi a nudo di fronte a se stessi. Le immagini, come proiezione di una mente progressivamente sempre più immersa nella sua crisi, si fanno sempre più evanescenti, sempre più confuse e frammentarie, quasi fantasmatiche. È il momento dell’ingresso in ospedale, del ricovero, delle cartelle cliniche, dei tentativi sui dosaggi, delle dimissioni. Dell’oblio, di un vuoto che prima o poi sarà necessario riempire, con il ritrovamento, con la riscoperta, con l’hard disc, memoria esterna di donna. Je me ne souviens de rien è, per Diane, il rendersi conto di conversazioni compromettenti su taxi che nemmeno si sa di avere preso, è il rendersi conto in maniera tangibile dell’avanzare della propria megalomania e della propria necessità sempre minore di dormire, è il rendersi conto dei propri comportamenti incontrollati e delle proprie attività incessanti, dal disegno alla scrittura, dal mostrarsi al compiacersi, dalla gioia alla voglia, dall’autostima alle endorfine, dai continui specchiarsi alla decapitazione di una bambola.
Ma il punto non sono né devono essere in alcun modo eventuali vergogne o sensi di colpa, e forse nemmeno la patologia causa e oggetto di indagine. Il punto è molto più semplicemente la memoria persa e ricostruita, e il punto è molto più semplicemente l’immagine amatoriale e personale, affranta sincerità di chi sta toccando il fondo, o forse il cielo. Per Diane, memoria e immagini di quei mesi di oblio vogliono dire perfetta coincidenza, complementarità, sovrapporsi, come pennellate su una tela ormai bianca, o come clip finalmente riscoperte e finalmente stese su una timeline di montaggio, come a cercare disperatamente un senso nel caos, un ordine nel disordine mentale, fisico, personale. Questo film, in fondo, parla anche di noi, del nostro girare (per chi lo fa confusamente, e per chi altrettanto confusamente lo vorrebbe fare) e del girarsi, come dello stare al cinema, luogo in cui si ha il coraggio di provare emozioni che nella vita paiono spaventose, quasi insopportabili. Vedere Diane di persona, oggi, in sala e subito fuori nel gelo di una Torino di fine novembre, fa forse parte di una resistenza possibile alla degenerazione come alla disperazione. E di un respiro sottile ma profondissimo, quasi infinito. Perché non si può non amare l’anima di Diane, come non si può non pensare ancora a Charlotte, perché questo probabilmente loro ci hanno chiesto, e perché questo spesso (sempre?) cerchiamo anche noi, nel nostro (eterno) peregrinare da una sala cinematografica all’altra, da una vita all’altra, da una memoria all’altra. Fotogramma dopo fotogramma, film dopo film, Festival dopo Festival.
Marco Romagna, Erik Negro