Quella di Romeo e Giulietta è una storia antica eppure sempre attuale, un amore così puro e assoluto da rivelarsi inevitabilmente impossibile, travagliato, tragico. Come la memoria, del resto, come il tempo, come i flutti avvolgenti e a volte crudeli della Storia. Come alcune ferite decisamente troppo difficili da rimarginare, in cui a sanguinare è il cuore. Sole Alto (titolo originale Zvizdan) del regista croato Dalibor Matanić, già vincitore di Un Certain Regard all’ultimo Festival di Cannes, apre la ventisettesima edizione del Trieste Film Festival con una tripla storia d’amore che è in realtà una lucida riflessione sulla guerra, sui suoi strascichi, sulla ricerca matta e disperatissima di una normalità per la quale l’amore è, se non l’unica strada, la stella cometa da seguire per una reale e pacifica convivenza. Quella nei Balcani è una guerra in un certo senso ancora in corso: c’è ancora la paura, c’è ancora l’intolleranza, c’è ancora la memoria del parente prossimo ucciso dall’altra parte, c’è ancora la diffidenza, c’è ancora il razzismo. Ma non manca la speranza di riuscire a estirpare questi sentimenti incartapecoriti, la speranza che alla fine l’amore trovi la porta aperta.
Sole Alto si articola su un ambizioso progetto composto da tre storie indipendenti interpretate dagli stessi attori, la sorprendente serba Tihana Lazović in un’interpretazione magistrale e l’aitante croato, a tratti meno in parte, Goran Marković, ambientate nel corso degli ultimi trent’anni. Nel 1991, allo scoppio del conflitto, tocca a Ivan e Jelena trasformarsi nei Montecchi e Capuleti dell’est, con tanto di memorabile e disperato suono di una tromba contro i fucili spianati e l’odio che stava tragicamente montando; nel 2001 saranno invece Ante e Nataṧa a non essere ancora pronti per amarsi, in un crescendo erotico di diffidenza, punzecchiature e un’intesa non cercata ma ineluttabile; nel 2011 toccherà poi a Marija riaprire la porta a Luka, e con quella porta la speranza di una vita insieme, lasciando davvero, finalmente, la guerra, la disperazione e l’intolleranza alle spalle. Ma, sebbene gli anni passati non siano pochi, gli strascichi sono ancora presenti, e non sarà facile ricominciare.
L’acqua è un elemento fondamentale del film: il mare è quello spazio dove non esistono più i confini, ci si bagna tutti allo stesso modo, ci si schiariscono le idee dopo troppe lacrime versate, o dopo una robusta razione di mdma inghiottito proprio per dimenticare. In mare si diventa in un certo senso più puri e limpidi riacquistando l’innocenza del ventre materno, ma al contempo più maliziosi e complici, seminudi e bagnati. L’acqua è sospensione, la spinta per galleggiare è la sua metafora politica. Non a caso Matanić apre il film sulla spiaggia, per poi tornare nello stesso luogo in tutti e tre gli episodi, quasi come se il moto delle onde potesse portare via il dolore, il razzismo, il ricordo doloroso di una guerra così devastante e fratricida. Come se il mare, lavando via il sangue, potesse portar via anche la ferita. Il sangue, appunto, quello dell’inevitabile tragico epilogo dell’episodio del ’91, ma soprattutto quello intelligentemente lasciato fuori campo, quello dei fratelli e dei padri uccisi come cani dagli “animali dell’altra parte”, quello delle ferite e delle cicatrici che non stanno sul corpo ma sul cuore e sull’anima, e proprio per questo così difficili da guarire. Emblematica, in questo senso, la scena di sesso all’apice del secondo episodio: quello fra Ante e Nataṧa è un rapporto caldo eppure freddo, umanissimo eppure animalesco, emotivo eppure meccanico, un sentimento represso troppo a lungo per non esplodere, ma destinato a essere represso ancora, per via di una mentalità ormai chiusa da troppi lutti e troppi traumi. Un amore che non può nascere se non in un raptus, perché il ricordo della guerra era ancora troppo drammaticamente vicino, e in un momento di convivenza forzata, inevitabile memoria dei tempi di Tito.
Riassumendo, Sole Alto si rivela quindi un melodramma in tre atti in grado di riaggiornare e declinare il dramma shakespeariano in tre storie nel corso di tre decadi, fotografando la ex-Jugoslavia subito prima del conflitto, sei e sedici anni dopo la fine. Nel corso dei tre episodi, Dalibor Matanić scandaglia i sentimenti, i sensi di colpa, gli umori, gli sguardi, le allusioni, la Storia e la geografia sociale e politica di una terra ancora intimamente travagliata. Per farlo, sceglie gli ampi spazi del cinemascope, una fotografia ad alto tasso emotivo, sofisticati quanto efficaci raccordi di montaggio e una sceneggiatura tutto sommato in grado di scorrere e districarsi nonostante l’eccessivo schematismo dei tre episodi e qualche piccola forzatura (ci risulta difficile, per esempio, credere ad una gioventù del 2011 dedita esclusivamente a droghe e feste in spiaggia, con tanto di autostoppiste succinte, senza altri pensieri che non siano istintuali). Un film, insomma, estremamente ambizioso nel volersi ergere a paradigma di una terra, acuto, capace di sonori picchi di coinvolgimento emotivo, eppure a tratti discontinuo, talmente attento alle sequenze migliori da finire per dare qualcosa per scontato in quelle di raccordo, scritte e girate con meno ispirazione. Un peccato veniale, che non intacca la riuscita complessiva del buon Sole Alto, ma che in un progetto così ambizioso lascia un po’ di amaro in bocca. Ma non vogliamo essere iperciliosi: abbiamo visto un film sul tempo, sulla memoria, sugli esseri umani, sul fatto che la carne possa essere molto più razionale della testa, abbiamo visto un film di cuore e politica. E non è affatto poco.
Marco Romagna