6 Luglio 2021 -

74° Festival de Cannes_6-17 luglio 2021_Presentazione

È inutile girarci attorno: nessuno, o quasi, avrebbe mai pensato di doversi realmente mettere in viaggio per Cannes il 6 di luglio. Dopo l’edizione dello scorso anno, saltata causa pandemia al termine di una serie di tira e molla comunicativi non esattamente degni della kermesse più importante al mondo, l’annuncio dello slittamento delle date dalla abituale collocazione di metà maggio al culmine dell’alta stagione balneare ha avuto per mesi tutta l’aria di essere un bluff logisticamente impossibile, in una Costa Azzurra già infarcita di bagnanti e con alberghi e case piene, con i prezzi alle stelle e con una diffusione epidemica, almeno al tempo, ancora tutta da monitorare. Tanto che fra le chiacchiere da bar (o meglio, da casa) che hanno affollato le chat dei social durante il lungo periodo di restrizioni invernali, si paventava da più parti perfino un nuovo slittamento al prossimo autunno, ipotesi che avrebbe sì consentito i tempi per una più massiccia campagna vaccinale anche fra le fasce d’età più giovani, ma che avrebbe d’altra parte scoperto il fianco al pericolo (pessimista e a questo punto oggettivamente improbabile, ma sarebbe ingenuo negarne la possibilità) di una nuova ondata magari spinta da una qualche nuova variante. Ma soprattutto un’opzione che, dilatando ulteriormente i tempi, avrebbe rischiato di compromettere il corretto svolgimento del Marché, principale mercato mondiale del film al quale Cannes deve tanta parte della sua economia, del suo prestigio e della sua potenza, al punto che non è difficile immaginare come sia la sua tutela il vero motivo alla base di questa sessione in piena estate. Solo Frémaux e Lescure, bisogna dar loro atto di questo, ci hanno creduto fino in fondo, contro tutto e contro tutti, contro il Covid 19 contro ogni raccomandazione della politica francese, contro ogni disorganizzazione e contro ogni apparenza, contro ogni pessimismo e forse persino contro la logica. Fino a riuscire in ciò che sembrava impossibile: quel Festival su cui nessuno avrebbe scommesso un centesimo inizia davvero nella data pattuita, rigorosamente in presenza, cercando di svolgersi in una modalità il più possibile “normale” sui consueti grandi schermi del Palais.

Certo, al di là dei prezzi effettivamente al rialzo e di una città effettivamente affollata di turisti, sulla Croisette ornata dagli insolitamente brutti poster con il faccione in bianco e nero del presidente di giuria Spike Lee andrà in scena un’edizione inedita e per molti versi kafkiana, distanziati in coda ma non necessariamente in sala, perennemente nascosti dalla mascherina e con l’obbligo di prenotazione di posti rigorosamente assegnati e tracciati. Un’edizione priva o quasi di statunitensi e in generale di extra-europei, costretti alla quarantena e conseguentemente ridotti al lumicino, e pronta a una netta riduzione degli accreditati autoeliminatisi fra le difficoltà di spostamento, il rischio epidemico e l’obbligo di tampone ogni 48 ore per chi ancora sprovvisto (non certo per colpa sua, ma semmai per i ben noti problemi europei di approvvigionamento farmaceutico a inizio campagna) del pass che attesti una recente guarigione dal Covid o la seconda dose di vaccino effettuata effettuata da almeno due settimane. Ma le difficoltà si superano, perché è pur sempre Cannes, non un Festival ma IL Festival, quello della scalinata verso la Palma, quello con le inossidabili regole di etichetta sui tappeti rossi e sul dresscode degli accreditati, quello che non si è fatto problemi a bandire Netflix rea di non distribuire a sufficienza in sala, quello in cui è complicato trovare il tempo per mangiare ed è praticamente impossibile dormire, posseduti dal demone di una produttività ai limiti dell’umano, calati in una sorta di trance agonistica cinefilo-redazionale che per 12 giorni annulla tutto il resto del mondo. L’unico Festival che può permettersi di tenere fermi per un anno nomi come Paul Verhoeven, Nanni Moretti, Wes Anderson e Apichatpong Weerasethakul per poi proporli in concorso contrapposti ai vari Leos Carax, Ildikó Enyedi, Asghar Farhadi, Bruno Dumont, Nadav Lapid e Ryusuke Hamaguchi. Calibri maggiori di un programma senza dubbio troppo sterminato (giocare ad asso pigliatutto e fare sostanziale piazza pulita per lasciare agli altri Festival solo le briciole non è di certo una pratica in favore di film magari ottimi ma dalla minore potenza produttiva e mediatica, che dalle troppe e spesso troppo nutrite sezioni laterali rischiano di perdersi in sale mezze vuote fagocitati dalle proiezioni contemporanee dei big: una dimostrazione di forza arrogante e per molti versi contro il cinema, contro le opere, contro il pubblico costretto a fare sempre più scelte) e – va detto – nella sua elefantiaca bulimia nemmeno particolarmente entusiasmante, praticamente privo di sorprese e decisamente troppo francese (contando le co-produzioni, oltre il 50% di ciò che verrà proiettato è almeno in parte d’Oltralpe), afflitto dai soliti limiti geografici e di ricerca di uno sguardo che raramente si discosta da quei pochi e soliti autori – tanto quelli eccelsi quanto quelli generalmente trascurabili – ormai “abbonati” alla presenza in Costa Azzurra. Ma anche un programma nel quale i film da vedere, fisiologicamente, sono tanti, diversi e assai attesi, pronti a illuminare gli schermi e le menti, trasversali fra i giorni, le fasce orarie e le sezioni, fra le quali l’inedita e dal senso ancora del tutto misterioso Cannes Premiére.

Dal Delo di Alexei German jr al “nuovo” JFK, stavolta documentario, di Oliver Stone, da Cow di Andrea Arnold a Serre-moi fort di Mathieu Amalric, da Tromperie Arnaud Desplechin a In front of your face di Hong Sang-soo, dal nuovo Babyn Yar Context di Sergej Loznitsa a Todd Haynes che racconta i The Velvet Underground, passando per l’anime di Belle di Mamoru Hosoda e per la Palma d’Onore a Marco Bellocchio (forse un risarcimento per la ridottissima presenza italiana, di certo un doveroso riconoscimento per il maggiore regista vivente della Penisola) con annessa prima mondiale del suo nuovo e “familiare” Marx può aspettare. Fino a uscire dal Palais e, senza nemmeno dover cavalcare lo scooter, spostarsi a piedi di poche centinaia di metri verso il Marriott, il Miramar e il Cinema Les Arcades, a cercare nella Quinzaine des Réalisatèurs, nella Semaine de la Critique e nella totale indipendenza di AciD quella freschezza, quella ricerca e quella capacità di prendersi rischi che, al di là dei grandi nomi quasi inevitabili, sembrano mancare sempre più alla selezione ufficiale. Con Jonas Carpignano e con Radu Muntean, con Miguel Gomes e con Anaïs Volpé, con i 16mm del trio Munzi/Marcello/Rohrwacher e la pellicola graffiata di Peter Tscherkassky. Ma anche con il Piccolo corpo di Laura Samani e con il Re Granchio che segna il ritorno dietro alla macchina da presa di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis dopo Il Solengo. Salvo poi magari tornare in Salle Buñuel a fare un salto nel passato, con i Classics che non rinunciano al difetto endemico di non costituire in alcun modo una retrospettiva strutturata e programmata, ma che fra l’F for Fake di Welles e La guerra è finita di Resnais, passando per le Lettere di una sconosciuta di Ophüls, per Francesco giullare di Dio di Rossellini e per Mulholland drive di Lynch, di certo non mancano di capolavori. Fra opere prime e ritorni di autori affermati, fra cinematografie differenti con diverse urgenze, diversi linguaggi, diverse ambizioni. In attesa che, come sempre, sia il buio della sala a fornire i responsi che annullano i pregiudizi. In quella visione collettiva su grande schermo per cui i film sono concepiti: l’unico modo per poter guardare senza limitarsi a vedere. Quelle emozioni, quella concentrazione condivisa e quel reciproco scambio che fanno parte del film quanto le sue immagini e il suo sonoro, e a cui nessuno streaming al mondo, nemmeno il più potente, nemmeno il più preciso, nemmeno quello proiettato sull’intera parete del salotto, potrà mai nemmeno lontanamente avvicinarsi.

Marco Romagna

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