18 Gennaio 2020 -

1917 (2019)
di Sam Mendes

«Il vero nemico è il tempo», recita la tagline di 1917. Un paradosso, pensando a come sia proprio il tempo l’aspetto, o forse il “nemico”, sul quale l’indiscutibilmente ambiziosa, ma forse anche un po’ spocchiosa, opera ottava di Sam Mendes scopre maggiormente il fianco alle sue contraddizioni. Perché prima di tutto c’è il pianosequenza, fondamentale punto programmatico sul quale tutto il film è stato costruito. Un rimanere costantemente accanto ai protagonisti senza mai perderli di vista, condividendo con loro guerra, viaggio, paesaggi, pericoli e paure alla ricerca di un’esperienza cinematografica il più possibile immersiva e coivolgente, con cui (tentare di) trascinare lo spettatore nelle trincee e nell’incubo bellico del primo conflitto mondiale. Una sorta di coreografia, pianificata passo dopo passo e lungamente provata sia prima della lavorazione sia durante ogni pausa nelle riprese, della macchina da presa insieme gli attori, con un unico punto di vista mobile che, senza poter contare sul montaggio al di là dei frame di raccordo realizzati (un po’ come le giacche “impallanti” grazie alle quali poter cambiare rullo ai tempi della pellicola del Nodo alla gola hitchcockiano) per unire come se fossero consecutivi set ricostruiti magari a centinaia di chilometri di distanza, si articoli di fatto in diverse inquadrature che variano costantemente le distanze senza mai perdere fluidità. Un’impostazione di messa in scena complessa e ai confini con il teatro, in cui non è possibile tagliare alcun tempo morto né lavorare sul ritmo dei dialoghi in moviola, già utilizzata in altri contesti, e con senso e risultati opposti, tanto dal sublime Sokurov di Arca russa (l’unico vero pianosequenza non simulato, senza trucchi e senza inganni dall’inizio alla fine in giro per l’Ermitage già Palazzo d’Inverno), quanto dall’irritante e gratuito Iñárritu di Birdman. Ma non è a loro che Mendes guarda, come non guarda affatto ai punti di vista dei war movie depalmiani Vittime di guerraRedacted, non guarda al di là di una replica un po’ superficialmente portata alle massime conseguenze della carrellata sulle truppe al Kubrick di Orizzonti di gloria, e non guarda nemmeno tanto alla sua prima personale incursione bellica dei tempi di Jarhead che sempre di Kubrick cercava semmai (seppure da molto lontano) di lambire nuovamente i territori già esplorati in Full Metal Jacket, quanto semmai al collega e concittadino inglese Christopher Nolan. 1917 parrebbe infatti, molto più che dei vari Apocalypse now con cui condivide il viaggio e Salvate il soldato Ryan con il quale condivide un fratello da salvare, avere molto della risposta a Dunkirk, del tutto differente nella sua regia “nervosa”, caotica e ampiamente montata, ma di fatto variazione, di due anni in anticipo, sullo stesso tema dell’immersione assoluta nel conflitto bellico. Da una parte l’IMAX e la macchina a mano che facevano dimenticare i limiti concettuali e la retorica del discorso nolaniano sul tempo in un’esperienza di sala pressoché inedita, dall’altra il rimanere accanto senza stacchi ai soldati fra ratti, vermi, carcasse, trincee, città distrutte e uomini galleggianti in putrefazione che non riesce a far dimenticare le troppe contraddizioni temporali sia teorico-cinematografiche sia puramente narrative di 1917.
Perché cade (letteralmente) dalle scale insieme al protagonista svenuto, l’impianto teorico del film di Sam Mendes in uscita in Italia esattamente a metà del suo percorso fra la scorpacciata di Golden Globes e il tentativo di bis nella notte degli Oscar alla quale si presenterà forte di dieci candidature. Cade nel momento di quell’unico stacco a nero dopo il quale risvegliarsi e portare definitivamente a terrmine la missione nella notte che progressivamente diventerà giorno, quando (ri)parte un nuovo intreccio di pianisequenza a simulare una (a questo punto seconda, e non più unica) ripresa one shot. Cade nel momento in cui un film che per la prima ora sembrava effettivamente in grado di accompagnare lo spettatore all’interno della Grande Guerra dalla trincea ai luoghi sconosciuti e abbandonati dai nemici in ritirata strategica, dai sentori di morte dei soldati all’affetto per le famiglie lontane, dalla disperazione alla forza interiore di chi ha giurato di portare a termine l’impresa, finisce per rivelarsi una mera operazione di spettacolo, una sfida tecnica tutto sommato pretestuosa e vinta quasi più dal DOP Roger Deakins, con la sua straordinaria squadra di operatori steady, spidercam, flycam, droni, wire e stabilizzatori di ultimissima generazione, che dal direttore d’orchestra Mendes indubbiamente notevole nell’organizzazione delle riprese e del costante movimento prevalentemente in esterni e su 360° di attori e macchina da presa, indubbiamente abile nel bilanciamento in sede di sceneggiatura dei vari possibili sottogeneri e registri da attraversare nel viaggio bellico fra la commedia, il melodramma, la tenerezza, la malinconia e la pura azione (con tanto di strizzata d’occhio perfettamente giustificata al musical), indubbiamente certosino nel calcolare il ritmo, i tempi, i dialoghi e gli spazi di ogni singola sequenza sulla quale sarebbe poi stato impossibile intervenire in sede di montaggio, ma sul più bello troppo ingolosito dall’estetica dell’alba per sapersi dimostrare radicale quanto l’impianto linguistico della sua creatura cinematografica avrebbe necessariamente previsto.

Ben al di là di eroismo, spirito di sacrificio, promesse da mantenere, rapporti umani fra commilitoni, senso del dovere e valore militare, è infatti inevitabilmente un lavoro teorico e pratico su tempo e spazio 1917, un film calcolato al millesimo in ogni sutura invisibile per lavorare sulle unità aristoteliche trasformando momenti e location diverse in apparentemente unico pianosequenza, e quindi in unità di tempo, di luogo (che progressivamente cambia, ma risulta sempre coerente e consecutivo nello sviluppo di un gigantesco spazio scenico) e di azione da condividere perennemente con i protagonisti. In questa corrispondenza che dovrebbe necessariamente essere perfetta fra macchina da presa, e quindi occhio dello spettatore che corre e soffre insieme agli attori, e la loro azione/emozione sullo schermo, interrompere bruscamente il flusso narrativo dividendolo in due macroblocchi finisce per annullare qualsiasi tentativo di effettiva aderenza al tempo reale, e quindi inevitabilmente per non portare a conclusione quel discorso su spazio e tempo sul quale il film si impernia. Un’incoerenza concettuale che, ben prima delle derive narrative finali fra l’immortalità di Robocop e gli spot del Mulino Bianco, rimette in discussione il senso dell’intero progetto, tanto più in una trama ispirata sì ai racconti del nonno di Sam Mendes e al suo ruolo in guerra di messaggero di corsa per la Terra di Nessuno, sì perfettamente ricostruita in ogni minimo dettaglio storico e veritiera in tanti dei suoi aneddoti realmente accaduti e tramandati, sì basata su fatti reali, luoghi reali e reali mappe militari del tempo ancora tramandate nei musei, sì applicata su un ben preciso momento e su una ben precisa situazione realmente avvenuta, ma pur sempre di pura finzione, e quindi tranquillamente immaginabile, senza tradire l’impronta programmatica del lavoro e il suo voler trasportare dentro la guerra rimanendo attaccati senza respiro ai suoi protagonisti, in un lasso temporale che iniziasse e finisse entro le effettive due ore del film. Solo in quel caso 1917, vicenda volutamente il più possibile piccola e risibile nelle reali dinamiche belliche – «La prossima settimana arriverà l’ordine opposto di attaccare all’alba», commenta sarcasticamente il colonnello destinatario del messaggio dopo aver ricevuto e assecondato l’ordine di interrompere l’offensiva – per ergerla a paradigma degli eventi grandi e certificati sui libri di Storia, avrebbe realmente portato sullo schermo due ore in guerra senza diventare poco più che un pretesto per esibire capacità tecniche (comunque ben meno complesse rispetto ai 30-40 punti macchina gestiti contemporaneamente dal regista, con diversissima grammatica, nei suoi 007). Solo in quel caso il 6 (e non il 7 in cui sconfina) aprile 1917 immaginato da Sam Mendes avrebbe realmente detto qualcosa di nuovo e coerente dal punto di vista teorico e cinematografico.
Fra i salire e scendere da un camion impantanato che sembrano quasi più funzionali ai movimenti della macchina da presa che all’effettivo procedere del viaggio nella/per la guerra di 1917, è poi un problema narrativo, sempre riflettendo sul tempo «nemico», quando a metà della (seconda) corsa contro il tempo, appena sveglio a pochi chilometri (per lo più di fiume) e a una manciata di minuti dal messaggio da consegnare prima che cominci la carneficina delle truppe inglesi pronte a lanciarsi nella trappola ordita dai tedeschi, la fretta del protagonista Schofield (già sopravvissuto ben oltre la credibilità a ogni tipo di attacco, sparo ed esplosione) finisce per arenarsi nella lunga sequenza in cui si ritrova a parlare e a regalare cibo e latte alla sconosciuta francese e alla neonata che sta faticosamente cercando di crescere. Una scena estremamente umana e centrale nella caratterizzazione del personaggio, ma così smaccatamente “perdita di tempo” nell’economia della necessità di evitare il massacro che viene quasi da pensare, pensando al politically correct a ogni costo che si sta imponendo nella contemporaneità anglosassone, che sia stata inserita più che altro per evitare le polemiche che, in questo periodo, un film totalmente privo di personaggi femminili avrebbe rischiato di attirare a sé. Tanto che, a fine visione, viene da chiedersi come il protagonista non possa sentirsi minimamente in colpa per la partenza verso il fuoco nemico della linea Hindenburg della prima ondata di uomini, che giungendo solo pochi minuti prima avrebbe potuto fermare.
Perché, certo, ci sono i luoghi che cambiano in 1917. Ci sono, perfettamente ricostruite, le fangose trincee inglesi in terra di Francia, c’è il dentro e fuori delle molto meglio organizzate linee tedesche abbandonate, c’è il progressivo scoprire gli spazi delle città fantasma (spesso rese inospitali dalla ritirata strategica tedesca fatta di palazzi bruciati e animali lasciati uccisi perché il nemico non potesse cibarsene, ma fatte anche di fiori, case, giardini, erba) per cui i soldati combattevano sotto terra senza nemmeno conoscerne la conformazione, e poi ci sono i boschi, i nascondigli, i fiumi con tanto di rapide e cascate, i ponti crollati e controllati dai cecchini, le trappole esplosive lasciate dalla Triplice Intesa, e pure i pugnali (per quanto un po’ retorici nel loro dimostrare come i tedeschi fossero “cattivi” e gli inglesi “buoni”) di chi è infame contro chi è ingenuo. Ci sono gli aerei e i camion della prima guerra tecnologica e totale, ci sono le silhouette fra le fiamme, ci sono le fotografie delle famiglie sul cuore di ogni soldato, ma ci sono anche i petali che volano placidi fra le sindromi post-traumatiche, il sangue, il filo spinato che si infila in una mano e cadaveri ovunque. Ci sono i complessi e costanti movimenti della nuova Alexa Mini digitale sistemata su più o meno ogni supporto frizionato e stabilizzato possibile, e ci sono pure, a fare il paio con le due giovani poco più che reclute e gli ufficiali depressi e sarcastici con i quali devono avere a che fare, le più alte cariche dell’esercito che, cinicamente, affidano la pericolosissima missione di attraversare le linee nemiche con il messaggio al fratello di uno dei 1600 che in caso di fallimento sarebbero andati incontro a morte certa, consci che solo la forte motivazione data dal coinvolgimento personale avrebbe fornito le energie necessarie per superare quella ventina di chilometri. Un motore umano e bellico acceso dalla necessità bruciante di salvare un familiare, un fratello, e spinto al massimo della sua forza dalla promessa fatta a un amico. Ma tutto questo non basta per non svuotare di senso cinematografico e trasformare in sostanziale videogioco l’impostazione one-shot nel momento in cui si interrompe il tempo che, da unità “reale”, diventa quello “personale” percepito dal soldato svenuto e risvegliato dopo ore e ore. Tutto questo non basta per fingere che la tecnica e la prima parte che in qualche modo “funziona” (pur con qualche ineleganza di scrittura, nei raccordi luce/buio e nella CGI) siano sufficienti a nascondere la serie di contraddizioni e banalità inanellate nella seconda metà del film fino al nadir del finale lacrimevole e patinato di fratelli stupiti, lettere da scrivere a una madre sconosciuta e dagherrotipi inspiegabilmente ancora asciutti. Tutto questo non basta a fare di 1917 un film con un’anima. Solo una sostanziale trappola, fatta di pretesti e di un’estetica che soverchia i contenuti e le riflessioni. Una trappola rilucente, rifinita, “bella” da vedere, perfetta per piacere a Hollywood e a quell’Academy che con ogni probabilità fra meno di un mese la travolgerà di statuette. Un po’ meno allo spettatore un filo più smaliziato, che all’esibizione di bravura autocelebrativa e un po’ boriosa di un autore che sfida limiti che probabilmente non gli appartengono avrebbe preferito semplicemente un film con un inizio, uno svolgimento, una fine e soprattutto la necessaria coerenza fra forma e sostanza, un ragionamento realmente compiuto sulle possibilità del mezzo cinema, l’umano oltre la fredda pianificazione. La Grande Guerra, evidentemente, è un argomento sul quale è meglio non andare a disturbare Mario Monicelli. L’ha già fatto infinitamente meglio, con la testa e con il cuore, e non basta cambiare le regole del gioco (al cinema) per tornarci senza prima o poi scivolare. Lo schianto di un aereo, o uno sparo in contemporanea. È il tempo che si incrina, si spezza e va in frantumi, insieme alla sua stessa idea.

Marco Romagna

“1917” (2019)
119 min | Drama, War | UK / USA
Regista Sam Mendes
Sceneggiatori Sam Mendes, Krysty Wilson-Cairns
Attori principali Dean-Charles Chapman, George MacKay, Daniel Mays, Colin Firth
IMDb Rating 8.6

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