23 Febbraio 2020 -

FIRST COW (2019)
di Kelly Reichardt

Non c’è quasi più spazio nemmeno per le armi, nelle sempre più rarefatte riletture del mito della frontiera di Kelly Reichardt. Al massimo c’è qualche ramoscello legato in una rudimentale frusta per montare le uova, c’è un secchio, c’è un tegame, c’è un camminare furtivi e silenziosi per i boschi. E di certo c’è una brillante commistione di generi, fra il saloon e la cucina, fra la commedia e la poesia, fra il malinconico e il pastorale, fra il tragico e l’estatico. Un approccio al western antispettacolare e dall’autorialità fortissima, dove il tradizionale anamorfico degli sterminati orizzonti bruciati dal sole è, come già in Meek’s cutoff, negato in un 4/3 che focalizza l’attenzione sui personaggi, dove non esistono eroi né imprese eclatanti ma solo uomini comuni impegnati nelle esperienze quotidiane, dove non ci sono inseguimenti a cavallo perché i cavalli costano e nessuno o quasi se li può permettere, e dove i fiumi trasportano parecchia acqua ma nessuna pepita d’oro. L’epica, al di là di rare e contenute esplosioni musicali, è pressoché assente nel minimalismo stilistico e narrativo dell’autrice statunitense, e non ci sono concitate sessioni di caccia al bisonte ma al massimo qualche ingegnosa trappola per conigli. I tempi si dilatano nella contemplazione degli spazi preferendo di gran lunga l’emotività delle attese alle azioni, i punti di vista della macchina da presa si moltiplicano per restituire con la necessaria precisione il punto di vista dei protagonisti, e il vero Sogno Americano sta nei rapporti umani e nella condivisione, forse se necessario nel sotterfugio, ma di certo non all’interno del ventre molle del Capitale. Semmai, esattamente all’opposto, se ne può ricercare per lo meno una qualche scheggia nella convivenza con la Natura, alla quale, che siano i funghi spuntati nel bosco o il latte offerto da una giovenca, non si ruba, ma si chiede dolcemente e con rispetto. Con lo stesso spirito di quegli idealisti che volevano salvare il mondo facendo saltare la centrale elettrica di Night moves, le cui azioni notturne hanno ben più di un allele in comune con i furti di latte di ‘Cookie’ Figowitz e King Lu per realizzare le frittelle da rivendere, anche e soprattutto, allo stesso proprietario della mucca. Ma non corriamo troppo, andiamo per ordine.

Prima del lungo flashback ottocentesco che compone la quasi totalità della narrazione inizia nella contemporaneità First cow, in concorso alla 70ma Berlinale dopo la prima di Telluride e la passerella al New York Film Festival. Una nave mercantile, navigando sulle stesse rotte che portarono nell’Oregon rurale il capitalismo britannico e con lui la “prima mucca” del titolo, attraversa il campo visivo della macchina da presa quasi come per ricordare la necessità di rinnovare quella che fu/sarà la lotta di classe dei protagonisti, mentre una donna, a passeggio con il suo cane, ritrova per caso due scheletri umani adagiati vicini e si mette a scavare riportandoli alla luce. First cow, adattato dalla stessa Reichardt insieme a Jonathan Raymond riducendo sino al minimalismo il romanzo d’esordio dello sceneggiatore The Half Life, del quale sono stati accorpati o tagliati i personaggi inessenziali, le vicende inutilmente compesse e l’intera parte ambientata in Cina, immagina la loro storia, il loro rapporto fraterno, le loro confessioni e la loro fiducia reciproca, il loro saper unire le forze e le rispettive capacità. Impregnando l’emulsione, con la splendida fotografia in luce naturale a cura del fedele sodale Christopher Blauvelt, dei paesaggi, degli specchi d’acqua risplendenti, delle stelle notturne, dei boschi floridi, ma soprattutto degli esseri umani. Dei volti, dei corpi, dei silenzi del laconico pasticcere, e del successo nel mercato cittadino delle intuizioni imprenditoriali di quell’immigrato cinese trovato stremato nella foresta e ben presto diventato – anche nella morte – suo inseparabile amico. Un po’ (forse pure un po’ troppo, va detto) come William Blake e Nessuno nel Dead Man jarmuschiano, nei confronti del quale il debito di First cow va probabilmente ben oltre le più o meno esplicite citazioni (l’apertura con una poesia dell’omonimo William Blake scrittore britannico, la sdrammatizzazione della violenza, le musiche improvvisate da William Tyler variando su un tema come già Neil Young per Jarmusch), ma con ambizioni e pasta – in primo luogo di immagine, con il cinereo bianco e nero del ’95 che qui di colora degli abbacinanti raggi caldi che filtrano attraverso le fronde degli alberi, ma anche e soprattutto di ambientazione sociale – differenti.

L’Oregon di First cow è fatto di miseria e sporcizia, di denti ingialliti, di banconote accartocciate, persino di monete spartanamente tagliate in due mezzelune per dividerne a metà il valore. Un Oregon abitato ma non ancora realmente civilizzato, fatto di vecchie radici estirpate dalla violenza latifondista e dell’assoluta mascolinità dei bruti cacciatori irsuti, in cui le donne sono relegate ben oltre i margini della protosocietà e in cui persino un uomo dall’animo gentile come Cookey, che preferisce salvare una salamandra all’arte venatoria, da solo ha a stento la possibilità di difendersi, di certo non quella di emergere. I pionieri delle montagne vivono in mezzo agli indigeni calpestandone quotidianamente ogni diritto anche e soprattutto quando l’unico ricco ne sposa le figlie, e gli accenti si moltiplicano fra le regioni americane di provenienza dei trapper, l’Asia di Lu e l’Europa del facoltoso possidente inglese con la sua sostanziale corte di scozzesi. L’unico uomo in abito inappuntabile e lucidissimo cilindro d’ordinanza, che abita l’unica vera casa in una distesa di catapecchie mentre il latte della sua prima e unica mucca, «ingrediente segreto cinese» da dichiarare nelle frittelle ogni giorno sempre più a ruba al mercato locale, diventa una sorta di sublime patto di condivisione e cooperazione fra gli uomini che lo rubano e l’animale ben felice di essere munto dando così il proprio contributo alla lotta di classe. Èd è proprio qui che la talentuosissima Kelly Reichardt innesta un rapporto di amicizia tenero e sinceramente affettuoso, umano quanto dissonante in quei brutali anni Venti dell’Ottocento. Un rapporto che nemmeno un ramo cedevole potrà spezzare, nemmeno la fuga, nemmeno la stanchezza, nemmeno la morte. Con la necessaria calma, con le necessarie attese, con il necessario ritmo. Come se fosse una ricerca di serenità in un mondo troppo caotico, come se fosse una sospensione bucolica, come se fosse una fiaba in cui di certo non si vivrà per sempre e probabilmente nemmeno troppo felici e contenti, ma il legame raccontato e messo in scena è oramai troppo forte per essere reciso, da qui all’eternità. Tenendosi per mano, ancora.

Marco Romagna

“First Cow” (2019)
121 min | Drama | USA
Regista Kelly Reichardt
Sceneggiatori Jonathan Raymond (novel), Jonathan Raymond (screenplay by), Kelly Reichardt (screenplay by)
Attori principali John Magaro, Orion Lee, Rene Auberjonois, Toby Jones
IMDb Rating 7.1

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