C’era già tutta l’inquietudine di Van Gogh, nei suoi Girasoli. Quella delle linee curve, quella dei punti di (non) fuga verso il basso, quella della caducità dei petali. Eppure, nel calore dei loro gialli, nella loro luminosità, nella timidezza delle semplicissime firme “Vincent” che appaiono come una decorazione sui vasi, dalla serie di dipinti traspare ancora, in qualche modo, il profumo della vita. Ben differente da quell’aura scura e lancinante con la quale, una ventina d’anni più tardi, l’ancora figurativo Piet Mondrian sarebbe riuscito a incorniciare la sua visione dell’Amarillide, trasformando per la prima volta un fiore in purissimo distillato di morte. Ichiko, al museo, si sofferma a lungo sul dipinto, sul suo trittico di fiori rosso sangue, sul suo sfondo blu come l’oscurità della notte. Lo guarda, lo studia, lo vive, lo sente, ci si identifica. Lei, che da fedelissima infermiera privata considerata ormai una di famiglia è diventata, sotto le bordate e l’ipocrisia di un potere mediatico che nella sua corsa allo scoop non guarda in faccia nessuno, una nemica. Lei che per una parentela e un silenzio ha perso la fiducia totale di cui godeva, lei che per la vendetta di un cuore infranto ha visto uscire sui giornali e fraintendere i suoi piccoli e innocenti scheletri nell’armadio, lei che proprio per la sua troppa generosità, per la sua troppa sincerità, per il suo troppo affetto, per il suo rapporto troppo stretto con la famiglia per cui lavorava è stata schiacciata, rovinata, per sempre distrutta. Non tanto per la sua “colpa” di essere la zia del rapitore della giovane rampolla di casa, destinata a tornare sana e salva dopo poche ore con il pronto arresto del reo confesso, ma per non averlo detto subito alla famiglia, per aver fatto loro scoprire la verità dai giornali accorsi come piranha affamati di fronte alla porta di casa e del posto di lavoro, per il prezzo più salato che possa avere un silenzio. E poco importa che l’anziana paziente, di fronte alla nuova infermiera, rifiuti anche quella musica che aveva sempre amato e ancora chiami Ichiko, poco importa che la figlia primogenita, nella scoperta della sua sessualità, ne sia ancora e forse per sempre fortemente attratta, così come poco importa la sincerità dei sentimenti e della rispettosa amarezza sullo stipite della porta al momento dell’inchino d’addio. Ormai il dado è tratto, ogni equilibrio è rotto, la vita è distrutta, e la tenerezza è diventata prima senso di colpa e poi rancore, odio, rabbia, delirio.
Sono ancora una volta le vendette e l’emotività il centro nevralgico del cinema di Koji Fukada, che dopo la passerella a Rotterdam con l’ottimo Sayonara e il premio in Un Certain Regard a Cannes con il meno coeso Harmonium sbarca sulle rive svizzere del Lago Maggiore per presentare il suo nuovo Yokogao – A Girl Missing in prima mondiale nel Concorso internazionale del 72mo Locarno Film Festival. Un noir atipico, asciugato di ogni orpello, essenziale nella sua lunga presentazione dei personaggi a posticipare il rapimento/punto di rottura dal quale scaturirà la detection e si ramificherà ogni senso emotivo, al contempo profondamente lirico nel costante evolversi e poi repentino precipitare dei rapporti umani che mette in scena, eppure forse non del tutto riuscito, tutto sommato banale nel suo attacco sociale al quarto e quinto potere, a tratti confusionario nel suo accatastare troppe tematiche laterali senza realmente affrontarle e metterle a fuoco, e di fatto privo – pur nei suoi numerosi finali che si avvicendano fra lotte immaginarie, uscite dal carcere, case vuote a cui non poter chiedere scusa e l’odio che pigia sul clacson – di una reale conclusione. Certo, basterebbe probabilmente l’inquadratura sul filo di fumo che sale dalla sigaretta quasi a coprire pudico il dolore della malattia per mettere in luce l’eleganza della messa in scena dell’autore giapponese, così come basterebbero gli sguardi di complicità scambiati fra l’infermiera e l’anziana paziente quando il Bolero di Ravel tenta di farle dimenticare il suo dolore per percepire, chiara e sincera, l’emergere dell’umanità più straziata e il senso più intimo di una famiglia (allargata), basterebbe l’affascinante e doloroso incontro della protagonista con una nemesi destinata a rivelarsi fantasma e allucinazione del crollo nervoso, o ancora basterebbe quella vernice rossa come sangue sulle mani di Ichiko a dimostrare come, anche nella buona fede, anche nella completa assenza di morbosità, anche nel semplice aver creduto a una bugia – del nipote pronto a fingersi in viaggio per Hokkaido – senza essersi accorti del pericolo e del suo piano ossessionato e criminale, nessuno possa definirsi fino in fondo innocente. Ma, nella girandola di fiducia, amicizia, affetto, amore, silenzi e sensi di colpa messi in scena da Fukada, troppe volte il meccanismo del film finisce per incepparsi nelle sue sovrastrutture, allargando le maglie degli spunti di interesse fino a scoprire il fianco a troppe irrazionalità, a troppe forzature, a troppe sterilità, a troppi simboli (in testa il sogno già sessuale della donna-fiera sbranatrice di uomini) che finiscono più per far stridere che per puntellare la narrazione.
A partire da come il sostanziale due di picche della promessa sposa Ichiko nei confronti della giovane Motoko, sorella maggiore della vittima che le sta nemmeno troppo velatamente confessando la sua bisessualità e il suo amore fino a proporle di vivere insieme, sarà destinato a diventare il secondo (quanto banale e non particolarmente verosimile) innesco della tragedia, con la decisione dell’innamorata respinta di dare in pasto alla stampa il piccolo segreto confidatole dall’infermiera di aver fatto piangere il nipote ancora bambino – quale migliore occasione per i fagocitanti media per raccontare il trauma che «ha creato un mostro»? – guardandogli con curiosità medica e non certo con malizia la primissima erezione, A girl missing perde progressivamente la sua efficacia di film sul prezzo del non detto, fino all’inutile controvendetta di Ichiko, narrata in una scansione disordinata del tempo che in un film per il resto cronologico decide di spezzare e anticipare quello che dovrebbe essere l’episodio mediano trasformandolo in un confusionario montaggio alternato con il filone principale, che culminerà con la sua foto nuda post-amplesso mandata alla ragazza dal cellulare del parrucchiere che credeva essere il suo compagno, salvo scoprire che si erano già lasciati. Per poi reincontrarla ancora una volta, essere tentata di premere l’acceleratore e metterla sotto proprio accanto a quel nipote ormai pentito, cambiato e per sempre segnato dal carcere, ma poi scegliere di spingere sul clacson dell’ennesimo nulla di fatto, della definitiva sconfitta. O forse dell’ultimo barlume di quell’umanità raffreddata a secchiate di veleno, ma ancora presente nel fondo del cuore come la vita di quei Girasoli sofferenti di Van Gogh. «Chi ha distrutto una famiglia merita un futuro felice?», chiede Motoko in televisione trasformando in pura aggressività la sua delusione, e distruggendo a sua volta – e per davvero – la vita, la famiglia, la carriera, i sentimenti e la salute mentale di Ichiko, non più zia del rapitore e nemmeno più traditrice della fiducia familiare, ma ormai semplice (o forse sarebbe meglio dire “facile”) amata che non ricambia. Dopo aver perso la paziente, la famiglia, l’affetto, la fiducia e l’unico rapporto che continua nonostante tutto, l’infermiera perde così anche la faccia, il lavoro, il promesso sposo, l’amatissimo di lui figlio, il futuro. Costretta a rimanere ferma e impotente come una macchina nell’autolavaggio mentre il mondo intorno a lei si muove, mentre la sorella muore e si ritrova unica parente di quel nipote che con il suo errore di vita è stato l’inizio della fine, mentre la stampa dopo averla massacrata e vampirizzata si dimenticherà di lei, e nemmeno i fondi e le associazioni per le vittime avranno orecchie per la sua buona fede. Ma è proprio nella ripicca amorosa a mezzo stampa che sta quello scarto dai binari di un film sulla fiducia che, proprio come il “profilo laterale” della protagonista che emerge traducendo letteralmente il titolo originale Yokogao, apre al “profilo laterale” che oscura in parte i pure indubbi meriti di di A girl missing. Con la sua necessità di un gioco tutto sommato pretestuoso di vendette e (non) controvendette amorose per far precipitare una situazione ormai stagnante e con il suo nugolo di vacue sottotrame fra futuri (non) mariti e sorelle al telefono, a costituire un netto e inaspettato passo indietro per un autore che, molto semplicemente, aveva abituato a maggiori ispirazioni.
Marco Romagna