15 Agosto 2017 -

TWIN PEAKS – STAGIONE 3 (Episodio 14) (2017)
di David Lynch

«I can’t answer why – I’m a blackstar
Just go with me – I’m not a filmstar
Imma take you home – I’m a blackstar
Take your passport and shoes – I’m not a popstar
And your sedatives, boo – I’m a blackstar
You’re a flash in the pan – I’m not a marvel star
I’m the Great I Am»
[Blackstar di David Bowie, dall’album omonimo (2016)]

Il quinto episodio di The Return è stato probabilmente il momento in cui è partita davvero l’idea “scomposta” della narrazione di questo prodotto seriale, staccandosi dal prologo delle precedenti 4 ore di materiale per proseguire in direzione della costruzione pezzo dopo pezzo del puzzle. Questo quattordicesimo episodio è il quintultimo, e forse è anch’esso un vero e proprio inizio, un inizio della fine. La realtà di Twin Peaks si sta sgretolando, le risposte, pur in maniera criptica, continuano a fluire sempre di più in direzione dell’imprevedibilità, e ogni piccolo tassello può comporre e scomporre sempre di più un’idea di immagine tanto frammentata quanto coerente. In questo episodio, come in molti tra i migliori di questo progetto cine-televisivo già rivoluzionario, ogni sequenza è di somma importanza; ma, allo stesso tempo, come due settimane fa con l’episodio che forse ha fatto più discutere e spazientire, il protagonista e fulcro dell’azione (e dell’assenza di azione) Dale Cooper appare a malapena, non ha una linea di dialogo, non si muove, non interagisce. È solo una specie di simulacro onirico, che appare e che scompare nelle visioni subconsce degli altri personaggi. Se, come diceva Nevins, il direttore di Showtime, Twin Peaks: The Return racconta dell’odissea di Cooper di ritorno verso la cittadina di Twin Peaks, allora l’attesa frustrante degli spettatori di un ritorno del buon Coop si fa ancor più snervante, più complessa. Ma non vederlo procedere verso la realizzazione di sé all’interno di Dougie qua non può minimamente irritare lo spettatore. In un’ora di puro cinema da incubo che davvero sembra volare, gli eventi scorrono con prepotenza e in maniera totalmente inaspettata, con colpi di scena e con una visionaria verve surrealista che colpisce immediatamente. L’episodio, trasmesso in Germania per sbaglio al posto del tredicesimo a causa di un errore di Sky, era già stato apertamente spoilerato sui forum e in particolare su Reddit, e il sottoscritto ammette di aver letto tutto a riguardo prima ancora della visione e che ciò non ha assolutamente reso problematica la visione che è stata comunque deflagrante: è un’allucinazione, è un sogno, è un perpetuo viaggio nel tempo della suddivisione cronologica, e non si può che concludere tutto nello stupore. Nonostante Lynch e Frost abbiano detto che durante la fase di scrittura e di riprese non vi sia stata alcuna idea su come queste 18 ore sarebbero potute strutturarsi attraverso ritmi televisivi, molti hanno percepito, soprattutto dopo la quadrupla premiere del 21 maggio 2017, la presenza di un tema sottostante per ogni episodio: il quinto ha come tema principale la scomposizione del racconto, il sesto la paura, il settimo il contatto umano, l’ottavo, in quanto atollo separato dal resto della narrazione, l’origine e il Male, il nono l’importanza dell’idea stessa di racconto, il decimo lo sguardo verso il vuoto, l’undicesimo la contrapposizione tra orrore ed emotività umana, il dodicesimo la pazienza, il tredicesimo il ruolo dello spettatore all’interno della narrazione e il passaggio del tempo per i personaggi. E, in questa misura, il tema forse di questa quattordicesima puntata è l’idea di “premonizione” nel ruolo stesso dell’essere personaggio di Twin Peaks, o anche l’allucinazione o meglio ancora il sogno, l’essere sognatori. Per essere un viaggio verso l’interno di un universo filmico capace di svelare qualsiasi cosa sulla natura dell’uomo e dell’arte, l’introspettivo e complesso revival della serie mai come in questo episodio riesce a viaggiare anche verso l’esterno, completando e sconnettendo i passi e i contesti in cui connettersi, divenendo cupo e reale come mai.

L’episodio si apre rivelando la risposta a una domanda che molti fan della serie si chiedevano da quando è stato annunciato il cast ormai più di un anno fa: chi mai potrà essere interpretato da Monica Bellucci? La risposta è talmente banale da sorprendere, e ci ritroviamo a vedere l’attrice protagonista di Malèna (2000) e Irréversible (2002) nel ruolo di nientepopodimeno che se stessa. Il personaggio interpretato dal regista, quel vicedirettore dell’FBI il cui nome Gordon Cole è un riferimento esplicito a un personaggio secondario del film Viale del Tramonto (1950) di Billy Wilder, racconta un suo “Monica Bellucci dream” che si svolge a Parigi, in un lucido e melanconico bianco e nero. Attraverso l’osmosi tra ruolo e volto, Lynch ci ricorda l’importanza del valore simbolico extra-significativo che può essere riscontrabile in ogni minimo dettaglio, e se la Bellucci è la Bellucci allora in un certo senso Gordon Cole è David Lynch, il suo essere tra i principali protagonisti del revival della serie equivale al mettere più in primo piano l’autore e l’essere un regista d’autore all’interno dell’intero progetto, vera e propria riscrittura dell’idea di serialità e di serie TV personalistica. Una lacrima riga il volto dell’attrice italiana mentre recita la seguente frase (tradotta): «Siamo come il sognatore che sogna e poi vive dentro il sogno, ma chi è il sognatore?», frase che riecheggia la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, una delle 14 Upaniṣad vediche, che veniva recitata dal regista prima di alcune proiezioni di INLAND EMPIRE (2006) – «siamo come il ragno, etc.». Anche i personaggi di Eraserhead (1977), Strade Perdute (1997), Mulholland Drive (2001) e appunto INLAND EMPIRE sono come il sognatore, e vivono dentro ai sogni dei protagonisti effettivi di questi film, ovvero rispettivamente nei sogni di Henry Spencer, Fred Madison, Diane Selwyn, la Lost Girl interpretata da Karolina Gruszka. E in Fuoco cammina con me (1992) Philip Jeffries diceva «era un sogno, viviamo dentro un sogno» riferendosi a un incontro avuto con degli ipotetici “loro” che naturalmente tendiamo a identificare con quella serie inclassificabile di demoni della Loggia Nera che in continuazione ci ritroviamo a riscrivere e rielencare con sempre maggiore complessità. Ma chi è il sognatore? A chi ci dobbiamo riferire per comprendere cosa è Twin Peaks, in che reame si sposta, quanto di ciò che vediamo è riferibile a un’ipotetica realtà fittizia dell’universo condiviso del regista e quanto invece è solamente onirico? Forse il sognatore è Gordon Cole, e dunque forse è Lynch stesso, e stiamo assistendo alla macroscopica idealizzazione di uno spazio altro, il più ampio possibile, attraverso il quale esorcizzare l’idea di costrizione e schiavitù dell’immaginazione che giunge attraverso l’età adulta. Albert, spiegando a Tammy le origini dei casi Rosa Blu, racconta come tutto parta da un doppio: una donna che muore scomparendo nel nulla dicendo appunto di essere «come una rosa blu» (un oggetto irrazionale, inesistente in natura, un “tulpa” come dice lei, ovvero un’entità astrale che nasce da uno stato meditativo dopo una forte emozione anche inconsapevole vivendo in quanto estensioni del sé che li ha generati) e un’altra donna, la stessa donna, in un angolo, che urla, e poi si suicida. I due agenti che hanno osservato questo fenomeno erano due David, due artisti, uno vivo e uno morto: David Lynch e David Bowie, Gordon Cole e Philip Jeffries. Ricordando che forse il presupposto dal quale dobbiamo partire da ora in poi è che il vero mistero di Twin Peaks ormai non è più chi ha ucciso Laura Palmer ma, appunto, di chi è il sogno nel quale viviamo (sia noi spettatori che i personaggi, probabilmente), la grandezza di questa sequenza può anche essere considerata come parte di una serie di riferimenti-tributi post mortem a Bowie, che finalmente appare, purtroppo non in nuovo materiale video bensì in filmati vecchi presi dalle sequenze di Fuoco cammina con me e dalle sue scene eliminate. Appare in bianco e nero, ma il suo fantasma è densissimo, specchio riflesso e monumento drammaturgico per una ‘Blackstar’ che è più viva del resto dei morti. È affidato a lui l’inizio di tutto, è affidato a lui l’inizio della comprensione della natura onirica di tutto, è affidato a lui il compito di ricordare a Cole che la consapevolezza dell’esistenza del doppio è un qualcosa di pregresso e ormai lontano anche nel passato. Philip Jeffries vive, forse non attraverso il maturare del tempo delle immagini ma vive, e con lui il suo attore, l’uomo delle stelle di cui tutti prima o poi si sono innamorati, in memoria del qual è l’episodio è firmato. Forse poco importa, all’interno dell’organismo registico del tutto, la rivelazione che Janey-E, interpretata dalla Naomi Watts che fu Diane in Mulholland Drive, sia la sorellastra della Diane “altra” che stiamo imparando sempre di più a conoscere in The Return. Importa molto narrativamente, di sicuro, ma ogni cosa, ogni azione, ogni emozione, sembra risucchiata da questo lutto, reso in maniera più che mai sulfurea dal meccanismo onirico ormai sempre più esplicito ed evidente: David Bowie vive, e in Lynch vive più che mai.

All’interno di una struttura che nonostante una relativa regolarità che ricorda la tradizionalità dello schema “un episodio = una giornata all’interno della narrazione” della serie originale, il tempo è sempre frammentato e sconnesso, e forse sotto certi punti di vista pure lo spazio. Ci troviamo difatti catapultati improvvisamente nel 2 ottobre, il primo dei due giorni (l’altro è il giorno immediatamente successivo, quindi presumibilmente o il prossimo episodio o quello dopo) durante i quali i quattro principali poliziotti di Twin Peaks, ovvero Bobby, Frank Truman, Hawk e Andy, si devono recare nel bosco al “Jack Rabbit’s Palace”, che ricordiamo essere stato definito il (non-)luogo in cui, quand’era piccolo, Bobby, che dei personaggi della serie originale è quello che maggiormente incarna lo spirito nostalgico e tragico della serie, andava col padre a tessere storie fantastiche e a inventarsi mondi. O meglio, il punto d’incontro segnato dal maggior Briggs segna una collocazione più precisa, a quasi un quarto di chilometro di distanza. Il “Jackrabbit”, che è una tipologia di lepre, è riecheggiato da un elemento naturalistico messo in scena attraverso un richiamo evocativo: due pezzi di corteccia in cima a una struttura lignea che sembrano ricordare le orecchie del mammifero che tendenzialmente ricolleghiamo ad Alice nel paese delle meraviglie, o forse antenne (di)storte del simbolo nero dello pseudo-gufo stilizzato visto decine di volte attraverso la serie tra anelli e mazzi di carte. Bobby raggiunge il posto, col Sole che lancia un raggio accecante attraverso le frasche di questi boschi che siamo abituati a vedere immersi nella più angosciante e cupa delle oscurità; e si guarda attorno spaesato, commosso, come se stesse per ripetere la sua frase topica «brings back some memories» che lo portò alle lacrime durante l’incredibile e geniale campo-controcampo con la foto di Laura Palmer nell’episodio 4. Appare il fumo, accanto a un ennesimo corpo di donna che arricchisce l’ambiente circostante come il cadavere decapitato di Ruth Davenport nella puntata 11. Un portale circolare della Loggia, similare a quello di Glastonbury Grove, e per terra sotto gli occhi di tutti, e si apre un (nuovo, già visto) vortice: il vortice risucchia Andy, il più sempliciotto e ingenuo tra i protagonisti della vicenda, che è l’unico ad aver avuto un contatto umano e fisico stretto con la donna immediatamente prima. Se ciò sembra dimostrarci per l’ennesima volta che il contatto umano è la risposta a molteplici problemi e a molteplici misteri all’interno di questo universo narrativo che troppo spesso sembra gelido nei confronti delle proprie marionette, forse la cosa più importante di questo frammento di sequenza è l’identità stessa della donna, che avevamo già visto nella terza puntata, ovvero l’essere metafisico dalle fattezze nipponiche di nome Naido (parola che in giapponese può voler dire «Senza» – e lei è ‘senza’ occhi –, o «ortodossia», o «insegnamenti interiori» o «(colui/colei che è) attraverso il percorso»; e che nell’estinta lingua Tambora significa «Nero»), che era scomparsa all’interno dello spazio dopo aver forse inutilmente tentato di aiutare Cooper a fuggire dalla madre dei demoni, una specie di Babalon à la Aleister Crowley. Attraverso il vortice, Andy si ritrova nella Loggia Bianca faccia a faccia con il Gigante, la cui identità, sinora nota come 7 punti interrogativi, è resa chiara: i 7 punti interrogativi sono 7 lettere, “Fireman”, che non significa tanto “Uomo del fuoco” o “Fuochista” checché ne dicano gli erronei sottotitolatori di Sky, quanto “Pompiere”, ovvero ovviamente individuo che deve spegnere il fuoco. Una sorta di Dio, di manifestazione del Bene, come già potevamo intuire dall’episodio 8.

Dalle mani di Andy spunta un fiore di legno che è un altro oggetto naturalistico irrazionale come il palazzo della lepre o come la rosa blu, e da questo ennesimo MacGuffin astratto, altra “scatola blu” dei sogni sulla scia di Mulholland Drive ma se possibile ancora più irreale, fuoriesce un altro fumo, un’altra coltre inumana, che crea immagini che si proiettano su di uno schermo che ha la forma e l’apparenza di un cerchio, in una finestra sul soffitto. Laura Palmer circondata dagli angeli allucinatori che, come sappiamo da Fuoco cammina con me, non la potranno mai aiutare; i due Cooper, messi grazie a una dissolvenza uno accanto all’altro così da mettere in evidenza come mai prima d’ora la loro scissione e le loro differenze fisiche; c’è un urlo di dolore di una compagna di scuola di Laura preso direttamente dall’episodio pilota è già rivisto ancora prima della prima sigla del primo episodio del revaival, come ad accentuare l’importanza reazione al dolore ancora più del dolore stesso (o forse conferendo a quella singola inquadratura una nuova importanza che non possiamo ancora sospettare); c’è il boscaiolo di «gotta light?», ci sono gli stessi Andy e Lucy che si spostano in maniera epilettica, forse in una situazione futura, c’è il convenience store, ci sono dei fili elettrici, e c’è la ripetizione ossessiva di tre inquadrature quasi uguali di un palo della luce che reca su di sé un 6 – una manifestazione satanica o satanista, un ritorno di Crowley (e, forse, di Kenneth Anger). Lynch crea un nuovo epillio mitologico, che invece di spiegarsi attraverso uno scorrere di eventi inedito funziona solo attraverso una libera e potentissima concatenazione di immagini e di idee; e tutto ciò scorre su uno schermo cinematografico nuovo che punta all’assoluto, al cielo, all’alto e all’altro. Se il cinema è sogno, e INLAND EMPIRE e Mulholland Drive esistono anche per ricordarci che il cinema soprattutto può essere incubo, allora il «noi viviamo dentro a un sogno» pronunciato da Monica Bellucci sembra essere quasi immediatamente negato o forse rinnovato da un «noi viviamo sotto il sogno, succubi del sogno», con il sogno che modella e modula la propria realtà attraverso noi o attraverso i nostri intensi sguardi. Bisogna fare attenzione, entrare nel dettaglio, asservirsi al gioco per superare le nostre ingenuità e diventare entità salvifiche. Così fa Andy, che salva Naido mentre gli altri sono in preda all’amnesia, e la mette al riparo all’interno di una cella nella quale il poliziotto corrotto Chad rimane ossessionato e spaventato dalla ripetizione tormentosa dei suoni che lei emana, replicati da un ubriacone sanguinante. La ripetitività assillante e martellante dei suoni va ascoltata finché non ci tortura, in essa sta la chiave, forse, per capire che tutto, nuovamente, non è quello che sembra.

Sì, tutto può non essere come sembra, ma i singoli personaggi che si ritrovano involontariamente a salvare la situazione sono esattamente quello che sembrano, ovvero loro stessi. Da una parte c’è appunto Andy, che supera per caso il proprio essere naïf e porta avanti la trama con l’enigma più grande di tutti. Dall’altra ci sono James e Sarah Palmer. James diventa amico e collega di Freddie Sykes, interpretato da una star di YouTube britannica che fu contattata praticamente per caso da Lynch stesso su Skype a causa della versatilità dei suoi accenti in lingua inglese, e che pare essere stato prescelto dal Fireman per scoprire il proprio destino proprio a Twin Peaks, città nella quale si è sempre più concentrati (a parte il sogno parigino e i primi minuti dell’episodio con l’FBI, questa ora di cinema/TV è ambientata interamente nella cittadina fittizia dello stato di Washington), e ciò viene spiegato attraverso un monologo che è come un’installazione sull’importanza del racconto oltre che una spiegazione dell’idea di essere prescelti all’interno dell’organismo della narrazione, probabilmente ricordandoci in maniera definitiva che nulla è per caso nonostante le sembianze e che ogni volto vecchio nuovo che abbiamo visto ha un ruolo, uno scopo. Anche nel digitale, con il riferimento esterno a YouTube, come l’attrice presa da Vine da Paul Schrader in Cane mangia cane (2016), autore che ci ritroviamo sempre a paragonare a Lynch più per intenti storici e filologici che per stile e contenuto, con internet che ci possiede e che ci ricorda come lo sguardo in macchina abbia progressivamente perso significato e portata nell’ordine delle cose. E anche James, che per ora è sembrato semplicemente un pretesto nostalgico (o meglio un motivo per un discorso su questa nostalgia, su questo confronto tra presente, passato e futuro) all’interno della storia sembra trovare una collocazione, nel momento in cui presumibilmente trova l’origine del suono inquietante che assilla Ben e la sua segretaria sin dalla settima puntata. Ma ancora non ci può essere svelato, continuando il gioco di pazienza. Sarah Palmer invece nasconde un segreto ben più grande, dietro il suo volto inquietante e arcigno, proprio come la figlia all’interno della Loggia Nera nell’episodio 2, o meglio l’esatto opposto. Laura, che cercava di fuggire dal giudizio del mezzo televisivo in Fuoco cammina con me vivendo in maniera liberale e anarchica i vizi e le pulsioni sessuali, ha dietro il proprio volto una maschera di luce, identificandosi con il bene; sua madre, che è madre (“mother”) come la meretrice di Babilonia ovvero l’origine della Babalon nominata poc’anzi, invece nasconde il buio e la morte, l’omicidio e l’orrore sottocutaneo. La sua faccia è come un uovo che si schiude, e ci può ovviamente venire in mente la rana-falena dell’episodio 8, ma quello che svela è un nebbioso e vagamente accennato non-viso, una non-espressione facciale che pare appunto quella di Experiment, o Mother, o Babalon che dir si voglia. Se approfondiamo il nostro punto di vista attraverso teorie interpretative del sogno surreale del quale siamo ormai immersi nel profondo, possiamo immaginare che quando Experiment è uscita/o dalla scatola di vetro nei primi due episodi probabilmente, scappando nella realtà, è giunto/a a Twin Peaks per possedere il corpo di Sarah attraverso l’elettricità, ovvero attraverso le immagini violente del suo televisore che difatti adesso sembra non funzionare correttamente, come corrotto da una forza maligna, dai glitch ossessivi. Il ritorno di James e Sarah indica un ideale rivolgimento verso un finale che possa avere come protagonisti, o meglio come figure di spicco, corpi che altrimenti sembravano abbandonati a se stessi nel prologo o nel passato. Che sia un suono inquietante che sta per essere svelato o che sia la manifestazione di un ipotetico doppelgänger di un simbolo cinematografico che sembra cercare l’immortalità attraverso l’immagine, l’oggetto irrazionale del MacGuffin lynchano è sempre indefinito e in tal senso definitivo, mostruoso, epocale, terrorizzante.

E poi c’è l’apparizione nella realtà del non detto e del non visto, che apparentemente era soltanto parte di un sogno di Audrey (v. episodio 12), quel misterioso amante di nome Billy che pare scomparso da ore e ore di trama (v. episodio 7) e che fuori campo si è trovato a vomitare sangue probabilmente a causa di Richard: come se le azioni più violente e metafisiche di questo figlioccio bastardo e malefico, tanto sadico e immorale quanto codardo e immaturo, fossero visibili a noi spettatori solo quando sono viste da un personaggio che diventa esso stesso spettatore, un personaggio magari che noi conosciamo come Carl Rodd, interpretato dal grande Harry Dean Stanton, che vede la sofferenza di un bambino molto per sbaglio volare verso i fili dell’elettricità nell’episodio 6. Ciò per delineare le apparentemente inutili conversazioni al Roadhouse di fine episodio (viste qui, con due donne delle quali una interpretata dalla giovane moglie del regista Mary Stofle, precedentemente apparsa come faccia e corpo del cadavere di Ruth Davenport ma anche come prostituta in INLAND EMPIRE; ma questi dialoghi v’erano anche prima dei titoli di coda nella 5, nella 9 e nella 12) come un qualcosa che in realtà possa o, meglio, debba svelare le vere intenzioni e la vera natura del sottobosco urbano e crudele della gioventù nella realtà malata e febbrile di Twin Peaks. A questo punto subentra Lissie, cantautrice country che chiude la puntata cantando una canzone intitolata “Wild Wild West”, riecheggiando i simboli del cinema classico americano, quello di John Ford, Howard Hawks, Anthony Mann e volendo anche il Fritz Lang di Rancho Notorious (1952), i cowboy già demistificati in Mulholland Drive, riportando a una realtà cinematografica stilisticamente e visivamente distante probabilmente a causa del digitale ma eticamente permanente nella visione del cinema del Lynch narratore, tessitore di storie, romantico che crede negli eroi. Il campo e il controcampo continuano a rivoluzionarsi, tra quello tradizionale nel Roadhouse tra le due donne e quello anticonvenzionale prima nel pub tra Sarah Palmer e il camionista rozzo che la vuole violentare, tra l’emisfero destro e quello sinistro del cervello che si identificano con il braccio destro (il braccio “che agisce”, il guanto verde di Freddie, il braccio alzato del Fireman) e il braccio sinistro (quello “mancante” dell’uomo senza un braccio, quello sanguinante nel corpo di Sky Ferreira a causa del rash e dell’eroina) o con il Cooper a destra (quello originale, non verbale, analogico, atemporale, non razionale, istintuale, olistico) e il Cooper a destra (quello crudele, analitico, simbolico, astratto, razionale, digitale, logico). Magari non è la puntata più bella della stagione sinora, e comunque non ne siamo sicuri, ma l’episodio 14 è forse quello con più riferimenti pregressi, con più genialità condivise, con più profondità emotiva, con più sconquassante visione in divenire della deflagrazione del reale. Ed è anche tra i più intensi e geniali tributi a David Bowie immaginabili, e in quanto tale dipana alla perfezione un discorso artistico sulla morte che pare essere un proseguimento dell’ultimo capolavoro decisivo del cantautore britannico, Blackstar (2016). Un disco sulla fine di tutto, un episodio sulla fine di un qualcosa e l’inizio di un qualcos’altro: «for the last time», direbbero i Chromatics, in un’implosione stilistica che ha del miracoloso. Per sempre.

Nicola Settis

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