8 Agosto 2017 -

TWIN PEAKS – STAGIONE 3 (Episodio 13) (2017)
di David Lynch

La grandezza di Twin Peaks: The Return è molteplice e l’abbiamo più volte discussa in occasione dei 12 episodi precedenti, ritrovandoci spesso a ridire sempre le stesse cose: che è un film di 18 ore suddiviso in parti per risaltare le potenzialità del mezzo seriale televisivo, che è un riassunto dell’opera omnia di Lynch e di una buona fetta di cinema contemporaneo e antecedente, che è un lavoro semi-simbolico sulla nostalgia e sul passaggio del tempo e che è una ricerca di immagini in continuo contrasto che continua a riscrivere con ardita perseveranza le regole del campo-controcampo, come mille altri film del regista a partire da INLAND EMPIRE (2006). Dopo un’ultima puntata che aveva deluso molti a causa della propria discontinuità apparentemente priva di un filo logico o narrativo, nonostante forse questa sua unicità che apparentemente gira a vuoto in realtà è chiave per la comprensione di un ruolo importante dell’episodio all’interno del tutto, questa tredicesima parte torna a mettere in discussione e a mettersi in discussione, ripescando fantasmi passati e viaggiando avanti e indietro attraverso il comparto scenografico e artistico della serie. Del resto, Twin Peaks è sempre stato un po’ un viaggio verso l’interno, un decentramento dell’orrore in favore di una ricerca, quando interiore e spirituale e quando paranormale, del mondo-cinema e della comprensibilità dell’atto umano. E questo decentramento sembra sempre di più in realtà trovare una propria focalizzazione all’interno del meccanismo cittadino, e lo dimostra uno zoom su Google Maps fatto da Diane sul proprio cellulare nell’episodio precedente: si ritorna sempre lì, a quell’etica e a quei concetti, ma il mondo è cambiato. E questo cambiamento ha svariati punti di vista e svariati scambi, tra momenti in cui pare non sia cambiato niente ad altri in cui invece sembra che il mondo abbia completamente distolto lo sguardo dalla medesima rotta o dalla medesima direzione. 25 anni, comunque, sono tanti, sono una fetta di vita e una fetta di mondo capace anche di risucchiare le vite altrui, a partire da quella degli attori della serie che ci hanno abbandonato nel frattempo, su tutti Frank Silva (BOB), Don S. Davis (il maggiore Garland Briggs) e David Bowie, che interpretava Philip Jeffries, riecheggiato in quasi tutti gli episodi legati al doppelgänger del protagonista Dale Cooper. Philip Jeffries è un fantasma necrofago, un nome che cerca uno spazio e una corporeità in un’organizzazione di racconto figurativo che non fa altro che rivelare sorprese nella propria struttura semi-sperimentale: ha una voce diversa, non può avere lo stesso volto (a meno che non ci sia un gioco o un colpo di scena per gli spettatori), e potrebbe essere una scatola nera che si illumina, come sembra mostrarci l’episodio 5. «Dov’è Philip Jeffries?» chiede il Cooper malvagio, e la risposta è un enigma, un’ennesimo cassetto di cui ci deve essere fornita la chiave di comprensione, e non necessariamente finirà per giungere. Quindi continua il massacro cerebrale istigato dalla pazienza e dalla richiesta di essa, continua il perpetuo cambio di registro, continua il delirio composto da quello che è già, probabilmente, l’opera cinematografica più ambiziosa e mastodontica di questo 2017 – al punto da portarci a mettere in pausa parzialmente le proiezioni del Festival di Locarno, che è forse il nostro festival del cinema preferito al mondo; e difatti siamo quasi tutti presenti in questo istante nella città svizzera, col corpo e col cuore, ma Twin Peaks non riusciamo proprio ad abbandonarlo.

L’episodio è scisso ben distintamente in due sezioni, una dedicata ai due Cooper e una alla cittadina di Twin Peaks, escludendo, per la prima volta da quello spartiacque epocale che fu l’ottava puntata, le indagini dell’FBI dalla narrazione. La prima parte sottolinea, in maniera forse mai così evidente e in linea con l’idea di registro in continua metamorfosi, la dualità dei protagonisti interpretati da Kyle MacLachlan: da una parte Dougie, sempre catatonico e sempre distante dal risveglio tanto atteso dai fan nonostante vari momenti di lucidità più o meno istintuale, e dall’altra il doppelgänger di Cooper, personificazione del Male e della sua evoluzione, della sua onnipotenza. Il doppelgänger (o BOB, o come lo si voglia chiamare) non appariva dalla nona puntata, e lo ritroviamo nel Montana dell’Ovest, in una lotta contro il tempo e contro gli altrui corpi, e dunque gli uomini, a ritmo di braccio di ferro: e un braccio si spacca, una faccia rimane tumefatta, un proiettile viene sparato, come in una competizione sulla virilità che mette in risalto l’incapacità di uscire dal proprio corpo e la gravezza crudele della misoginia nel mondo che la serie racconta. In una macrosequenza di 16 minuti che si sposta attraverso varie stanze all’interno di un edificio che ospita un’organizzazione criminale, con lampi di Loggia Nera, sangue che scorre e tinte cromatiche sul grigio, Lynch crea tensione con il caos e il movimento, penetrando nella gara a braccio di ferro mostrandone l’imprevedibilità e riempendo l’inquadratura di volti urlanti e voci, effetti sonori, finché non avviene un’esplosione cruenta. Come già in passato era stato dimostrato, soprattutto probabilmente da Cuore Selvaggio (1990) e da INLAND EMPIRE (2006), la violenza per Lynch è una specie di sonda visuale per la comprensione dei ritmi del mondo e dell’America: uno scontro tra due individui può mettere in risalto una forma o scala gerarchica del Male, morire dopo aver detto «non so se è un posto reale» può portare a morire in un posto altro che in effetti è irreale, e il sangue scorre come forza vitale. In direzione opposta, vediamo Dougie passare attraverso due immagini di gioia pura: una specie di conga dal ritmo delirante attraverso gli uffici del suo posto di lavoro con i fratelli Mitchum accompagnati dalle loro domestiche sexy contrapposto a uno sguardo verso il figlio Sonny Jim, in un’immagine dolce e infantile accompagnata da Tchaikovsky e da una luce che segue il bambino. È come un innamoramento tanto umoristico quanto tenero verso le immagini, ed è attraverso questo innamoramento e questa dolcezza che il rivale in lavoro di Dougie confessa, cerca il Bene, cerca la redenzione. Questo confronto continuo tra i due mondi e tra i risvolti narrativi che i due Cooper subiscono e/o creano all’interno del racconto esplicita la visione “a due” del mondo come visto da Lynch, forse qui come mai prima nella stagione, con genesi di nuove e personali aperture plastiche verso un mondo che si riscrive in egual misura attraverso il puro terrore e il divertimento spensierato. La cupezza che presuppone un probabile futuro confronto tra i due Mali (il Male eterno, ovvero BOB, contro il Male contemporaneo, personificato dall’orrido Richard) rimane nella retina con la stessa prepotenza visionaria di quelle immagini così semplici e pure, di quella bontà che “il buon Cooper” sembra sempre portare in avanti, anche quando è spersonalizzato e bloccato in questa nuova identità.

La seconda parte invece è concentrata, giustamente, in Twin Peaks. Regna il senso della non appartenenza, del passato che decade e non si vede: le cose che cambiano sembrano sempre più evidenti. Le coppie storiche che rendevano di culto determinate parti più “soap” e “cult” della serie originale si sono distrutte e separate, altre coppie che sembravano inauspicabili negli anni ’90 stanno trovando un loro compimento, un incontro, un riconoscimento in cui comunque regna il riferimento al passato, a un fantasma che permane. Audrey spiega perfettamente questa sensazione: non capisce la “storia”, non capisce il piano, non sa se andarsene o restare ovvero se rimanere fedele o meno al progetto che la circonda, non si sente più se stessa. È stata trasportata in un contesto separato di 25 anni, che forse è irriconoscibile, perché la forma del mondo cambia, la forma della serie (o film che esso sia) pure, in uno scambio di sguardi costante. Audrey e suo marito, Big Ed e Norma alla fine del loro amore, come pure Bobby e Shelly nell’undicesima puntata. E a questo punto è forse importante e necessaria la scena al Road House, prima sequenza in cui sul palco non si trovano musicisti importanti e reali (come in passato i Nine Inch Nails, i Chromatics, le Au Revoir Simone e Rebekah Del Rio con Moby) ma un personaggio della serie, James, che non si vedeva dalla puntata 2 in cui era apparso per pochissimo tempo, che intona una canzone rimasta un classico per i fan della serie, Just You (And I). Una canzone forse noiosa, per molti insignificante, leccata, eccessivamente sentimentale. Ma era una canzone d’amore, dedicata da James a Donna, che in questa serie non c’è più, e cantata da loro due insieme a Maddy, la cugina-sosia di Laura. Insomma, un brano che riecheggia entrambi i lati del discorso e del personaggio di James, parodia dal cuore d’oro dell’eroe à la Marlon Brando; l’ambiguità dell’amore e del suo mistero, tema onnipresente in Lynch, che si univa alla tragedia dell’orrore che seguiva immediatamente. Qua, però, il contesto pare completamente differente, perché le donne che cantano con James sono perfettamente sconosciute a noi spettatori e ugualmente lo è la donna a cui James dedica la canzone, che scoppia a piangere nella commozione, un po’ come nella scena di I’m Easy di Nashville (1975). Si può dire che i volti e i nomi sono cambiati, ma le sensazioni no: il mondo di Twin Peaks è sempre legato allo stesso tentativo e allo stesso scopo, ma si è modificato il modus operandi, e anche questa canzone può cambiare irrimediabilmente, pur con gli stessi ritmi e le stesse note, non più rivelando demoni che si nascondono dietro i divani ma ampliando il discorso, ampliando l’origine e la spazialità che questi demoni possono mettere in scena o in luce. Non è più BOB a giungere definitivamente nell’inconscio rovinando l’intimo, è uno sguardo a mettere in risalto la costante presenza del Male in agguato: gli occhi di Big Ed si posano sulle pompe della benzina, e nella sua mente arriva il fuoco, che viene creato e che si deve spegnere. Il fuoco continua a camminare con noi. Continua a minacciarci, ad apparire nel più insignificante e malvagio dei dettagli e a ricordare che nulla è sicuro e nulla è percettibile nella propria completezza all’interno del macrocosmo condiviso del cinema di Lynch. La serialità, ormai, non è più una serialità narrativa ma contenutistica, visuale, grafica: e sta tutto sempre lì, nel campo-controcampo.

E il campo-controcampo, con il suo automatico gioco di sguardi e rapporti, si risolve in un battito di cuori attraverso una perpetua considerazione riguardante il ruolo vero e proprio dello spettatore. Twin Peaks, colosso e simbolo, porta in sé ormai le stesse domande che il cinema pone su se stesso: cosa È quest’oggetto cinematografico, e cosa PUÒ nel descrivere il mondo e rinnovarlo. E gli spettatori come possono reagire? C’è chi si annoia e si intossica con sigarette o alcol (o sostanze stupefacendo, presumibilmente, rivedendo il “nuovo” Jerry Horne e la sua passione per la marijuana), e c’è chi semplicemente osserva, si spaventa, cerca una distanza o un riconoscimento. Gli schermi non sono mai stati così minacciosi, e tra la snervante scena in cui Sarah Palmer osserva, bevendo e fumando, 9 reiterazioni dello stesso incontro di pugilato, uscendo a volte fuori campo e mettendo per l’ennesima volta in risalto la tensione ricavabile dall’ossessione per lo stesso suono, e poi gli omicidi compiuti dal Cooper cattivo e visti attraverso le telecamere di sicurezza, pare davvero che anche nelle parentesi più dolci e infantili della serie ci sia lo spazio per uno sguardo verso l’umanità, circondata dal Male e incapace di comprenderne i limiti e la stratificazione. Stiamo assistendo a una storia che è una non-storia, a un magnum opus che può riscrivere i nostri immaginari personali (e l’immaginario collettivo del cinema, della televisione e della cultura pop), svelando tutto e l’assenza del tutto, mostrificando il minimo dei particolari con lo scopo di renderlo il più possibile coerente con un’idea di sottofondo, sia essa romantica e seducente o terrificante. La violenza scorre, e forse sarà più difficile del previsto fermarla. Prima o poi giungerà una risoluzione, un incontro – forse, proprio un riconoscimento, o un qualcosa di vagamente paragonabile a una definibile o definitiva ricostruzione del termine scomposto di base. È un gioco al massacro, sì, che diverte e annienta nella stessa misura in cui si può rimanere annientati dalle costruzioni della vita e di ciò che la vita può implicare (o restituire). È già uscita, in Germania, a causa di un errore di Sky, la quattordicesima puntata, e pare comunque irreperibile comunque su qualsiasi piattaforma: si stanno facendo varie indiscrezioni, principalmente su cose prevedibili, come un riferimento esplicito a Philip Jeffries con riprese di repertorio di David Bowie (e dedica finale a lui) o come l’apparizione del misterioso personaggio (Judy?) che dovrebbe essere interpretato da Monica Bellucci. Ma nulla si può dire. L’attesa diventa sempre più complessa, ma i fili si congiungeranno, e Twin Peaks: The Return sarà sempre più vicino a essere una fenice che risorge dalle ceneri.

Nicola Settis

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