24 Maggio 2025 -

LA TRAMA FENICIA (2025)
di Wes Anderson

La ricezione, sia critica che spettatoriale, dei film di Wes Anderson è ormai inesorabilmente polarizzata, tra chi non lo sopporta più e chi invece continua a seguirne il percorso autoriale; si parla di percorso autoriale in senso stretto, perché il regista texano ha sempre più radicalizzato il suo stile e la concezione stessa della sua regia cinematografica, mettendo in quadro il suo bric-à-brac di modernariato novecentesco e trasformando sempre più il mondo in un diorama totalmente asservito allo specifico filmico. Nell’opera precedente a questo suo ultimo La trama fenicia, presentato in prima mondiale all’interno della competizione ufficiale del Festival di Cannes 2025, che era una serie di quattro cortometraggi tratti dai racconti di Roald Dahl (La meravigliosa storia di Henry Sugar e altre tre storie, la prima delle quali presentata nel corso della Mostra di Venezia 2023 e vincitrice del premio Oscar per il miglior cortometraggio l’anno successivo) usciti poi solo in piattaforma su Netflix, Anderson dispiegava il racconto come fosse un libro pop-up, con scenografie bidimensionali ad apparire dal nulla per formare di volta in volta lo sfondo; ecco, il suo cinema è diventato esattamente questo (ma, in fondo, lo è sempre stato, basta guardare Le avventure acquatiche di Steve Zissou e Il treno per il Darjeeling, nonché le sue produzioni animate in stop motion, la prima delle quali, Fantastic Mr. Fox, tratta ancora una volta da Dahl). La trama fenicia è un po’ la summa di questa nuova/vecchia concezione filmica del Nostro, un film spionistico con innesti di black comedy nella sostanza, ma che non perde mai il ritmo posato e la sostanziale imperturbabilità degli attori/personaggi di fronte agli eventi, anche i più rocamboleschi, dispiegandosi in un territorio liminale tra lo straniamento brechtiano e la teatralizzazione insistita. Che ci si trovi in un biplano sul punto di precipitare o nel mezzo della jungla, in una sorta di tempio assiro o in una magione che riporta alla mente la Xanadu di Charles Foster Citizen Kane/Orson Welles, l’impressione restituita è sempre quella di una miniatura a grandezza naturale, dove dei pupazzi vengono spostati all’interno e pronunciano battute  non cambiando mai espressione, o cambiandola platealmente sullo stile recitativo dei tempi del muto. Questa volta, poi, l’ambientazione nel passato (siamo tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta) favorisce ancora di più la piena realizzazione di questo impianto, un po’ come nel caso dei precedenti Grand Budapest Hotel e The French Dispatch (ma, lo ripetiamo per l’ultima volta, è un discorso che vale per tutto il suo cinema, cos’era la New York de I Tenenbaum se non una proiezione ideale, il sogno di qualcuno che in realtà la conosceva pochissimo?), e il riferimento visivo e contenutistico appare essere tutto il cinema d’avventura di quell’epoca, in primis quello britannico, al quale  è riferito anche il nome del protagonista principale, interpretato da Benicio Del Toro. Anatole “Zsa-Zsa” Korda è un triplo omaggio al cinema anglofono prodotto subito prima e subito dopo il secondo conflitto mondiale, tra Gran Bretagna e Usa ma unito a triplo filo all’Europa, attraverso le imponenti migrazioni causate dall’avvento dei totalitarismi e che portarono alla fuga e al trasferimento forzato i più grandi artisti provenienti dall’ex impero austro-ungarico e russo: Anatole è Anatole Litvak, ucraino naturalizzato statunitense, scappato prima in Germania all’avvento del comunismo e successivamente negli Usa all’avvento del nazismo, cineasta molto attivo a Hollywood negli anni Trenta e Quaranta, con anche pregevoli produzioni di stampo spionistico all’attivo come Confessioni di una spia nazista (1939); Zsa-Zsa è Zsa Zsa Gabor, attrice ungherese naturalizzata statunitense, L’infernale Quinlan (1958), anche se nel piccolo ruolo della proprietaria dello strip-club, tra i grandi film all’attivo; il cognome Korda è invece riferito ai fratelli Alexander, Zoltan e Vincent, emigrati ungheresi all’anagrafe Kellner, produttori e, nel caso di Alexander, anche regista di grandi classici come Le quattro piume (1939) e Il ladro di Baghdad (1940).

Korda è un tycoon multimilionario con interessi in ogni ambito, specie quello petrolifero, e con in canna un progetto visionario che riguarda la Fenicia, nel film terra immaginaria a grandi linee corrispondente all’attuale Libano (la compagna di vita di Anderson, Juman Malouf, è una scrittrice, costumista e doppiatrice libanese, e la loro figlia, Freya, porta dichiaratamente il nome di un personaggio di Bufera mortale di Frank Borzage del 1940): ancora una volta, dunque, anche in un film così apparentemente posizionato in una terra e in un tempo “altro”, si riconfigura l’inestricabile legame tra il cinema andersoniano e la sua biografia. La narrazione, mai come questa volta scalettata e rigidamente divisa in capitoletti, è imperniata su accordi da trovare con i soci di Korda, sulla ridefinizione di percentuali, sul mollare o far mollare qualcosa nella spartizione degli utili. Ci possono essere questioni più aride e concettualmente lontane dal film d’avventura classico? No, e allora ogni incontro/capitolo è configurato come fosse un diverso genere, dal locale stile “Rick’s Bar” di Casablanca (quante volte ritornano riferimenti al cinema degli anni Quaranta dentro e fuori il film, vero? Piaccia o non piaccia, la cura nella stesura del soggetto di Wes e Roman Coppola, primo figlio di Francis e produttore/regista anch’esso, è maniacale) dove s’incontra un Mathieu Amalric con baffetto d’ordinanza, alla folle resa dei conti finale dove sopraggiunge il rasputiniano zio Nubar di Benedict Cumberbatch. Anderson dispone anche degli a-parte dalla sua sarabanda di tinte pastello e perfetta simmetria della composizione, con dei segmenti in bianco e nero durante gli onirici viaggi nell’aldilà del suo protagonista, al cospetto di ogni religione e divinità e di alcuni cameo di habitué del suo cinema (Willem Dafoe, Bill Murray). Un bambino che gioca con il tristanzuolo mondo degli adulti: questo è Zsa-Zsa Korda e questo è Anderson, e prova ulteriore ne è il riferimento letterario più stringente riferito a quest’ultima fatica, l’opera di Frances Hodgson Burnett. Autrice de Il piccolo lord, più volte adattato al cinema e direttamente nominato nel film, de La piccola principessa, stessa cosa, ma anche del meno conosciuto The Lost Prince, la cui trama recita più o meno così: una famiglia reale del centro Europa viene deposta, e il principe ereditario deve mettersi in fuga e vivere in povertà con suo padre, scappando di paese in paese e mantenendo segreta l’identità per non farsi trovare dai sicari che lo cercano. Ecco, probabilmente, venire alla luce il riferimento letterario più adeguato per la (suor) Liesl interpretata da Mia Threapleton, figlia di Kate Winslet, nominata erede da Zsa-Zsa in barba a tutti gli altri maschi, e che si trova al seguito delle disavventure del padre più per costrizione che per reale volontà, almeno inizialmente.
Come intuibile, sarebbe perfettamente inutile ricostruire la complicata, e a tratti pretestuosa, trama fenicia. Più interessante forse capire i gusti e gl’interessi che le donano mosse e natali. Nei titoli di coda, forse uno dei momenti più genuinamente interessanti di tutta l’opera, è presente un vero e proprio elenco/catalogo, che ci trasporta quasi dalle parti dell’ultimo Peter Greenaway e della sfortunata trilogia di Tulse Luper: dipinti, brani di musica classica, cenni botanici, una vera e propria guida alla comprensione di quanto appena visto. Ed ecco che il cineasta si assume una funzione che pochi gli riconoscono, quella di tesoriere e conservatore della cultura del Novecento, dei suoi vezzi e vizi, visti con gli occhi della classe che quel secolo ha contribuito a formare e rendere centrale, la borghesia, specie se alta o altissima. Anderson ha l’onestà intellettuale di parlare di quel che conosce, di approfondirlo ogni volta di più, di non cedere a derive pauperistiche che risuonerebbero insincere e finte ancor più dei mondi che si trova a ricreare. È indubbiamente vero che il suo cinema non ci sorprende più, almeno di primo acchito, lasciandoci con uno stato emotivo immutato dall’inizio alla fine, piatto e senza scossoni come il suo andamento. Ma è parimenti vero che è quello che continua a parlare al cervello nei giorni successivi, quando balzano improvvisamente alla mente interi momenti, sequenze, ricostruzioni. Come a dire che vedere un “nuovo” film di Wes Anderson oggi vuole dire sapere già perfettamente che cosa capiterà davanti agli occhi, ed è pienamente legittimo che abbia stufato. Ma la verità, molto più in profondità del ‘piacere’ e ‘non piacere’, è che nei decenni a venire il cinema di Wes Anderson non potrà che essere alla base degli studi sul post-postmodernismo.

Donato D’Elia

“The Phoenician Scheme” (2025)
101 min | Action, Comedy, Crime | United States / Germany
Regista Wes Anderson
Sceneggiatori Wes Anderson, Roman Coppola
Attori principali Benicio Del Toro, Mia Threapleton, Michael Cera
IMDb Rating N/A

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