Superata Cannes, si passa a Torino: il film di chiusura della 35esima edizione del festival piemontese, The Florida Project, dopo Tangerine, è per Sean Baker un tentativo di ridipingere gli Stati Uniti, anche letteralmente, stringendo lo sguardo su nuclei familiari disfunzionali che abitano in una zona vicina a Orlando, e sulla loro vita narrata in maniera quasi aneddotica, vignettistica, seriale. Un po’ come in American Honey di Andrea Arnold, il realismo del racconto non è forse la cosa che più interessa al regista, che anzi spesso qui si dedica a piccole parentesi che hanno qualcosa che va oltre alla semplice e concreta messa in immagini della società, ma rimane molto spesso il fulcro del perché il film di per sé deve esistere. Peraltro, in questo TFF in cui Asia Argento ha tenuto una minuscola retrospettiva sul cinema sull’America, The Florida Project ironicamente sarebbe stato perfettamente in linea con l’idea di base dei film che la figlia del regista di Suspiria ha scelto: quella di Baker è un’America in cui esistono i sogni ma tutto è mangiato dalla povertà e dalla disperazione, è un’America in cui volersi bene è facile ma odiarsi per inezie lo è di più, è un’America in cui le figure paterne sono quasi estinte (resiste solo Bobby, interpretato da Willem Dafoe, nonostante col figlio, interpretato dal Caleb Landry Jones di Get Out e Twin Peaks, vi siano evidenti problemi di tensione e incomunicabilità) mentre le figure materne sono sempre più giovani, con sempre più difficoltà per quanto riguarda le responsabilità della vita adulta e le ambiguità nel rapporto coi figli. Halley, madre sexy, tatuata e disinibita che assomiglia alla cantante pop Ke$ha, e sua figlia Moonee, protagoniste assolute del film, entrambe inquiline del motel/palazzina viola attorno al quale gira la maggior parte dell’intreccio, sono fantasmi di una goliardia estrema che soffoca le loro potenzialità come famiglia americana tradizionale, ma esalta la loro joie de vivre. È un proletariato che vive la disperazione non esasperandola ma nascondendola, vergognandosene, cercando di occultarsi attraverso i colori sgargianti e accecanti delle loro abitazioni e dei sobborghi – la ridondanza del colore lilla può per esempio ricordare la recente commedia demenziale/horror spagnola Pieles, grande successo per il cinema underground su Netflix, che utilizzava probabilmente il colore violaceo/roseo ed eccessivo per nascondere la quasi completa assenza di contenuto. Sotto certi punti di vista c’è qualcosa che può rimandare ad Harmony Korine, ma non tanto alla psichedelia ultra-pop di Spring Breakers, tanto vicina nel tempo e nella memoria, bensì soprattutto alla depressione formale del suo cinema degli inizi, quello di Gummo, per esempio, che collimava addirittura col documentario. Baker rappresenta il suo mondo con un occhio simile, che non giudica mai ma si ferma alla rappresentazione e all’osservazione, al massimo ponendo dei discorsi ma mai davvero spostandosi più in là, nel reame della morale o del significato chiuso.
Si può prendere come esempio una delle sequenze più brevi e intense, che si colloca più o meno a metà film: per le strade sotto la palazzina viola, avviene un incidente violento e poco definito, a metà tra un pestaggio e una sparatoria. Sugli spalti e i terrazzini del motel, i protagonisti osservano senza interagire, filmando col telefonino gli eventi, mai inquadrati da vicino ma sempre dall’alto e in sottofondo, causando un’immedesimazione con i personaggi e il loro punto di vista distaccato. Baker, che girò Tangerine utilizzando l’iPhone, non si ritrova, dunque, a giudicare la superficialità di sguardo dei suoi personaggi, ma anzi sfrutta la scena per farsi cantore di un ideale mondo di osservatori o coro di testimoni del reale. Lo sguardo dei personaggi, filtrato attraverso la macchina fotografica del cellulare, è uno sguardo che corrisponde a una testimonianza. Poco importa l’assenza di etica nel loro sguardo, in particolare in quello di Halley, che non è una persona “cattiva” ma che sicuramente spinge alle estreme conseguenze il dilemma etico di quanto possono essere gravi le conseguenze dell’incapacità di gestire la povertà e la decadenza: quello che importa è il fatto che il piattume dell’occhio che filtra il dramma attraverso il cellulare permane come ricordo di una cosa sostanzialmente veritiera e realistica. Halley ride, dice «World Star», non percepisce il dramma perché è vittima di una cultura basata sull’individualismo e sull’utilitarismo egocentrico; la stessa cultura che l’ha portata sul lastrico, che l’ha indirizzata verso la volgarità e il culto della vendetta e dell’insurrezione. Insomma, il fascino di The Florida Project, con il suo stile un po’ barocco e grottesco da un punto di vista fotografico, consiste in un racconto composto da esseri umani che tendenzialmente la macchina da presa rappresenta come individui osservati, ma che qui in questo film diventano individui osservanti.
Le situazioni “al limite” che il film rappresenta, tutti grandi momenti di cinema “indie”, sono molteplici, passano per incendi e amicizie storiche che si rovinano tragicamente, traslochi e punizioni, urla giocose e selfie in costume da bagno messi su siti di prostituzione, show di pseudo-Muppets che si trovano nella Loggia Nera di Twin Peaks e vecchiette con le tette di fuori, furbi furti e prese per i fondelli dei turisti brasiliani, automobili ricoperte di sputi e probabili pedofili che vengono scacciati dai cortili del motel, con Willem Dafoe che diventa patetica ma giustiziera metamorfosi dell’eroe ‘action’ e i bambini che osservano la scena con intensità, senza comprendere il fatto ma comprendendo, forse, il dramma, la propria condizione di vittime dello sguardo altrui. Sul finale, però, la situazione estrema smette di essere legata a ciò che viene compiuto e diventa ciò che viene subìto dai personaggi: l’arrivo dei servizi sociali, che invade nel privato il monolocale di Halley con la decisione di privarla del diritto di convivere con la figlia, porta a un montaggio alternato tesissimo, colmo di grida e punti di vista differenti. Si passa da Halley che litiga e urla disperata (l’ultima inquadratura con lei protagonista è un primissimo piano/dettaglio della sua bocca che esclama «fuck you») a Moonee che, compresa la situazione, scappa e infine a Bobby, che osserva il vuoto e attraverso ciò percepisce quant’è sbagliata l’apatia del distacco che ha caratterizzato il suo personaggio per tutto il film. In un modo o nell’altro, attraverso la solitudine il suo sguardo è come se giungesse a un successivo livello di consapevolezza interiore, immedesimandosi di più, diventando anch’egli parte del disagio proletario – niente di ciò, sia chiaro, è esplicito, ma è interessante come anche Bobby per tutto il film sia a suo modo testimone o osservatore di una realtà, e l’ultimo contesto in cui appare è, invece, una situazione in cui non c’è niente da vedere se non uno spazio spoglio, che spesso, in cinema come in fotografia o in letteratura, è causa e/o conseguenza di uno sguardo non tanto verso l’esterno del reale quanto verso la desolazione interiore.
Il finale vero e proprio contiene in sé una dichiarazione d’intenti intuitiva che si separa dalla rappresentazione del reale per andare nel reame del sogno e della speranza, del finale impossibile sulla scia di L’ultima risata, Love Exposure o It’s such a beautiful day (e, se vogliamo, in maniera più inventiva e nel contempo didascalica e fuori dal mondo, La La Land). In buona sostanza, lo stile di ripresa cambia completamente, si passa da una fluidità formale movimentata ma posata alla macchina a mano, che segue una corsa di Moonee, scappata dai servizi sociali, e della sua migliore amica Jancey che decide di salvarla. È introdotta, per la seconda volta nel film oltre ai titoli di testa, una musica extradiegetica: se difatti il prologo del film riportava come sottofondo Celebration di Kool & The Gang, il finale è ritmato da un brano orchestrale sintetico che incrocia varie melodie tra le quali proprio quella riconoscibilissima di Celebration. In questo mondo dunque sempre meno reale, il barlume di speranza che si dipana all’orizzonte, e verso il quale le due bambine letteralmente scompaiono, è Disney World, baluardo del turismo a Orlando e in Florida in generale. Per nascondersi e per scappare, Baker ci dice che l’ideale è tornare a una condizione d’infanzia, di innocenza. Però non c’è via di fuga rispetto al fatto che la formazione dell’individuo, nelle situazioni di decadenza rarefatta che il film mette in scena, si basa sostanzialmente sul rifarsi ai simboli: Disney World è un’ideale di infanzia, non è l’infanzia, come il video del cellulare che filma la violenza urbana è un’ideale di violenza e non la violenza stessa. Se, insomma, Spring Breakers e American Honey sono stati film importanti e necessari per la formazione del cinema americano “indipendente” poiché, in direzioni formalmente diverse, hanno posto per la scena cinematografica contemporanea degli standard di realismo e dei limiti stilistici nella messinscena del reale da un punto di vista nel contempo poetico e ultra-pop, The Florida Project è importante perché potrebbe essere uno dei primi frutti espressivi di ciò che hanno messo in campo separatamente Korine e la Arnold. Spring Breakers trova l’infanzia nell’interiorità dei suoi ingenui protagonisti, American Honey invece la trova nel senso materno che spinge la sua protagonista verso la riscoperta di se stessa (o la propria scomparsa), mentre The Florida Project mostra l’infanzia nella sua semplicità, evita di deturparla attraverso il male dell’uomo e la spinge verso le estreme conseguenze della crudeltà del destino. Ma rimangono i simboli incredibili della società capitalista, rimane la cupa speranza di un qualcosa di certo e di onnipresente, rimane la dolcezza della compartecipazione su questo dannato pianeta – che, però, sa essere così pieno di bellezza e onestà.
Nicola Settis