9 Dicembre 2018 -

DER FUNKTIONÄR / THE COMMUNIST (2018)
di Andreas Goldstein

Il rapporto tra un figlio (autore) e un padre (politico e inconsapevole attore) può raccontare derive poco conosciute della Storia, unendo i puntini rimasti nell’ombra fino a inondarli di nuova luce. A partire dall’esperienza familiare di Andreas Goldstein già autore del sorprendente Adam und Evelyne, questo Der Funktionär \ The Communist, presentato a Milano al Filmmaker poco dopo il primissimo passaggio al DokLeipzig, si pone come un gioiellino che traccia un percorso estremamente affascinante e complesso nel corpo funzionale della DDR, dagli anni di maggior fulgore fino allo scioglimento. Lo fa seguendo Klaus Gysi (1912-1999), padre del regista, attraverso archivi e riflessioni che coinvolgono in maniera assai definita gli strumenti di identificazione e di comunicazione culturali che furono fondamentali – soprattutto a metà anni Sessanta – per la propaganda educativa della Repubblica Democratica Tedesca, e con lui anche i rapporti familiari che il regista racconta ad anni di distanza. Nato a Neukölln, Gysi, già da giovanissimo si unì alla Sozialistischer Schülerbund, prima di fuggire a Londra e Parigi ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, durante la quale, anche da lontano, partecipava attivamente ad attività politiche clandestine contro il Terzo Reich. Dopo la guerra si unì al SED, diventando caporedattore del mensile Aufbau: Kulturpolitische Monatsschrift, fino a diventare membro dell’Associazione culturale della RDT e parlamentare della DDR. Il ritratto di Goldstein, tranne due excursus precedenti, parte proprio da quei giorni.

La prima parentesi è legata all’infanzia del padre, quando, a quindici anni, vide dalla finestra una protesta operaia; fu colpito dal corpo rimasto a terra di un manifestante, ucciso dalla polizia mentre i gendarmi continuavano a caricare e gli altri compagni cercavano di salvarlo. Quel momento, primo atto di ribellione del giovane Gysi, fu la sua rivelazione che lo fece entrare nel Partito Comunista, seguendo un ideale che porterà avanti quasi come una fede per tutta la sua esistenza. Il secondo momento di retroproiezione è la sua parentesi esterna alla Germania nazista, negli anni di Parigi che molto sospetto destavano tra gli altri compagni della DDR; saranno solo i documenti d’epoca a ripristinare la sua dignità, e le sue azioni in copertura durante la guerra a permettergli di essere riabilitato per poter accedere a incarichi più alti. Nel ’63 Gysi divenne membro della Commissione occidentale del Politburo del Comitato centrale del SED, dal ’66 al ’73 è stato ministro della Cultura, dal ’73 al ’78 fu ambasciatore in Italia. Questa storia viene racconta anni dopo in un programma televisivo, e proprio da lì è stata ripresa da Goldstein per strutturare la sua storia parallela che si muove continuamente tra personale e universale, lontananze e rappacificazioni, mentre il mondo stava vorticosamente cambiando e di quell’esperienza non rimane che l’ombra sempre più sbiadita.

In questo apparato tra l’archivio e la ridiscussione (anche di esso) nell’oggi, Goldstein osserva – in una specie di continuo fuori-campo temporale – il proprio padre e rimette il discussione il suo rapporto con lui. Parte da una prospettiva investigativa per poi svilupparsi in una struttura di rivisitazione, quasi psicanalitica, della mancanza di una figura così fondamentale e forse mai davvero conosciuta. Una figura così esposta pubblicamente, ma allo stesso tempo così assente nel privato, in una dialettica continua fra spirito e potere, come l’autore stesso afferma, spesso senza punti di fuga. Ma come ogni retrovisione, soprattutto se applicata a una o all’altra Germania post regime, implica in sé anche molto altro. Nella riflessione di Goldstein entra prepotentemente il nazismo, ciò che costrinse molti (tra cui il padre) a fuggire e a combattere oltre confine. Poi il dopoguerra, quegli anni zero in cui la divisione fu un’altra pagina di frattura che nemmeno un Muro riuscì a sintetizzare. Infine il crollo della cortina di ferro, l’Ottantanove che chiude il Novecento tutto – o almeno lo lascia sospeso fino al Duemilauno – con una riunificazione assai problematica. Ed ecco che le ultime parole di Klaus Gysi tornano irrimediabilmente lì, a quell’impossibilità di un mondo socialista e Comunista, a quell’ideale assoluto a cui ha sacrificato una vita, senza nemmeno rendersi conto dei possibili rimpianti. Forse era proprio quell’epoca a chiedere uno sforzo così immane per l’utopia di un futuro diverso dal mostro capitalista che avrebbe inglobato tutto. Una missione con cui oggi interrogare la Storia con modalità assolutamente originali e suggestive; nell’oscurità di giorni che, nella loro distanza apparentemente irraggiungibile, segnano ancora oggi il presente.

Erik Negro

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