27 Luglio 2015 -

SATANTANGO (1994)
di Béla Tarr

Avvicinarsi ad un monumento grigio e colossale come Sátántangó (1994) è qualcosa di arduo, soprattutto se il film di Béla Tarr, tratto dal romanzo omonimo di László Krasznahorkai, è, come ha detto Enrico Ghezzi prima della proiezione a Milano il 13 luglio, “uno dei tre o quattro film più definitivi della storia del cinema”. Ma proverò lo stesso a carpire a parole l’importanza del film che ha fermato il tempo nella sala dello Spazio Oberdan, mettendo in stasi emotiva spettatori di tutte le età per le sue maestose sette ore di durata.

La cosa che salta più superficialmente all’occhio in Sátántangó è probabilmente la struttura narrativa: con un incastrarsi ipnotico di analessi e prolessi (la parte centrale è dedicata tutta ad un’unica serata attraverso tre punti di vista diversi), Tarr dilata i tempi con i suoi lunghi e notissimi piani sequenza così creando una dimensione senza tempo, facendo piombare i suoi personaggi in una marmorea stasi. L’opera si suddivide in 12 capitoli che seguono la struttura di un tango (6 passi avanti, 6 passi indietro). Il primo, La notizia che stanno arrivando, è una carrellata di 8 minuti che serve come regolazione iniziale dell’ambiente spaziale del film, dando già la posizione di svolgimento dell’intera azione da un punto di vista geografico. In sottofondo si sente Bell I, uno dei sette brani composti per l’occasione da Mihály Víg (che nel film interpreta Irimias), alienante ronzio di campane eteree e fuori dal mondo che trascina ancora di più lo spettatore dentro l’inquietante ragnatela dell’universo rurale del cinema di Tarr.

Una ragnatela stratificata di relazioni familiari corrotte, proletariato osceno disgregato e mesmerizzato dal fantasma del comunismo sovietico, infedeltà coniugale e ubriacature stranianti (moltissime le scene improvvisate) è protagonista dell’opera, che nella sua temporalità sconnessa e impenetrabile è in realtà perfettamente assimilabile come un lento e inesorabile apologo del debole di fronte ad una sorta di apocalisse mai esplicitata. Ma questa paura dell’apocalisse non è concretamente pregna di esistenzialismo come può essere quella della Charlotte Gainsbourg di Melancholia (2011) di Lars Von Trier, anzi si manifesta piuttosto come un’attesa passiva e sacrale. Tra i protagonisti, il primo ad essere nominato e ad avere un ruolo è lo storpio Futaki, un debole inetto che si attacca prima all’amplesso carnale con la signora Schmidt (definita, più tardi nel film, come “l’emblema dell’infedeltà coniugale”) per poi dimostrarsi il più spaventato da un’eventuale apocalisse economica. Attaccandosi con paura alla materialità del denaro, si dimostra il più conscio della fine in tutto il complesso rurale in cui si ambienta il film. Poi c’è Irimias, figura cristologica, magnetico Messia dai desideri distruttivi con la capacità di prendere sotto la propria ala l’intera comunità, convincendola con poche parole, e la loro potenza nobile, ad obbedirgli. Come il Principe slavo de Le armonie di Werckmeister (2000), il film antitotalitarista e poetico che Tarr avrebbe diretto pochi anni dopo in uno sforzo ancora più politico e pittorico.

Ma in Sátántangó c’è una depressione più profonda, disperata e costante che non è fatta solo dei simbolismi appena enunciati, ma anche di perdita di speranza di fronte al degrado dell’essere umano stesso, e per mostrare quella non c’è bisogno di darsi all’allegoria, ma basta mostrare la tragedia umana nella sua pura cupezza drammatica. Il dramma di Estike è la parte cruciale su questo tema: non solo viene mostrato come lei, nella sua travolgente vulnerabilità, sia talmente vittima dell’ambiente circostante (o meglio: della fauna umana che è costretta a subire) da preferire il suicidio ad una vita talmente succube, ma soprattutto viene mostrata la prepotenza e la violenza eccessive con cui cerca di imporsi sul mondo, sulla natura, esplodendo in atti di umanissima crudeltà nell’avvelenare un gatto, unica creatura che riesce a sopraffare. Ed Estike diventa ancora più vittima dell’uomo quando, nella follia dell’ubriacatura aliena “degli adulti”, viene limitata ad un agghiacciante controcampo fuori tempo. Lo spettatore ha già esperito il suo dramma e la sua fine, ma deve rivedere il suo sguardo un’ultima volta, mentre osserva la noncuranza di una classe sociale che ingurgita liquido per dimenticare il proprio dramma, e balla senza coerenza dimenticandosi di se stessa. La scena del tango è tra le più clamorose proprio per come è ironicamente sospesa nel proprio limbo di pseudo-romanticismo grottesco e di delirio ripetitivo, un delirio mosso da paura, una paura mossa da un legame terrestre profondamente umano.

Tuttavia, la figura più importante e drammatica potrebbe non essere Estike, bensì il dottore. In un film ambientato in un mondo talmente catastrofico e intenso, deve penetrare sinuosamente anche la perversione del meta cinema, e questa è incarnata dal personaggio pigro, inetto, malato, ubriaco, estraneo del dottore, uno spettatore cinematografico che analizza dall’alto verso il basso i personaggi del film guardandoli sonnecchiando attraverso una finestra appanata, creando profili psicologici voyeuristici. L’apocalisse non è giunta prima dell’inizio del film con la morte di Irimias, non giunge quando Irimias ritorna – la sua camminata con Petrina attraverso l’annichilente vento divino, poi ripreso dal regista ne Il cavallo di Torino (2011), finisce per distanziarlo da una figura celeste avvicinandolo più ad un riassunto dei quattro cavalieri dell’Apocalisse –, non giunge quando muore Estike, né quando Irimias trasporta i contadini dalla loro casa ad un altro complesso rurale, e neppure quando decide di ucciderli tutti. L’apocalisse arriva quando il dottore torna a casa, non trova i suoi personaggi, e si ritrova piombato in un mondo ancora più alieno di quello in cui il film è stato sospeso per le precedenti sette ore, un mondo senza tempo in cui risuonano isteriche le campane di edifici in rovina e le urla di un vecchio pazzo. L’unica vera risposta, la più mortifera possibile, è chiudersi dentro, bloccare la finestra e abbandonare il ciclo del film stesso, perché lo spettatore non può vedere la morte nemmeno appannata e non può interessarsi ad un dramma quando è così concisamente concluso. L’apocalisse vera è il rifiuto dello spettatore di fronte all’esperire la luce che è la realtà rispetto alla luce che era la realtà del film, rinchiudendosi perché l’uomo è una figura troppo tragica per essere osservata durante tutto il proprio processo.

Sátántangó è un film di 151 inquadrature, in cui ogni movimento di macchina significa qualcosa, ogni immagine implica qualcos’altro. È un dramma epico in sordina, un monumento alla memoria dei dimenticati (come vent’anni dopo Les tourmentes (2014) di Pierre-Yves Vandeweerd), un’epopea partigiana e fatalista che preleva il passato per descrivere il tempo tutto, partendo da una concezione post-grecista della società della vergogna per portare in tutt’un altro mondo di ossessioni carnali e microcosmi fangosi. Enrico Ghezzi, nel cappello iniziale, ha anche detto che Sàtàntangò si può vedere ad occhi chiusi: l’importante è riaprirli e venire inondati dalla luce. E lucido è il pessimista sguardo dell’autore ungherese, che osserva tutti con la mediana precisione di chi riesce a collocarsi perfettamente a metà, tra l’angosciante vento silenzioso del padreterno e il perverso occhio malato del dottore.

Nicola Settis

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Satantango

“Satantango” (1994)
450 min | Comedy, Drama | Hungary / Germany / Switzerland
Regista Béla Tarr
Sceneggiatori László Krasznahorkai (novel), Mihály Vig (story), Péter Dobai (story), Barna Mihók (story), László Krasznahorkai (screenplay), Béla Tarr (screenplay)
Attori principali Mihály Vig, Putyi Horváth, László feLugossy, Éva Almássy Albert
IMDb Rating 8.6

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