Dura solo 70 minuti ed è senza dubbio uno dei film più misteriosi e complicati visti al festival del film Locarno 2015. Il regista Kamal Aljafari decide di non spiegare l’operazione compiuta dalla sua opera all’interno di essa, quindi bisogna affidarci alla parzialmente erronea descrizione che ne dà il catalogo del festival: «Questa è la storia di un sogno basato sui film di finzione israeliani e americani girati a Giaffa tra gli anni Sessanta e Novanta. Rimossi grazie al montaggio tutti i protagonisti delle riprese originali, resta un apparato scenico fatto di città deserta. Così diventa possibile ciò che sarebbe altrimenti impossibile: filmare il passato e farne, a partire da un punto di vista soggettivo, un album di immagini che ne preservino la memoria». Parzialmente erronea per due motivi: innanzitutto gli esseri umani, da un certo punto del film in poi, sono presenti; e in secondo piano è difficile fidarsi completamente della scheda del film quando c’è scritto che non vi è alcun dialogo ed è falso.
Ma andiamo per ordine. Innanzi tutto c’è Giaffa, l’ultima fra le città annesse a Israele, focolaio palestinese schiacciato a suon di carri armati prima, e di presenza massiccia sul territorio dopo averla presa. Città resistente, città che non ha mai accettato la conversione politica, figuriamoci quella religiosa. Una città gettonata, quindi, dal cinema, una città nella quale portare uomini e mezzi in maggiore dispiegamento possibile, una città da controllare, ben prima che da filmare. In questo senso, Recollection è una ben precisa critica alle politiche israeliane, dall’espansione alla repressione, protesa alla ricerca di quegli spazi e di quella libertà sfuggiti e mai più tornati. I film girati a Giaffa sono al contempo la repressione attuata sul territorio al momento delle riprese e il tentativo, a volte pietoso, di ricreare un’unità nazionale impossibile, dissimulando l’identità di una città. La riappropriazione degli spazi passa dallo scardinamento della propaganda israeliana, prendendo immagini false e ipocrite per renderle, finalmente, reali.
Il film si apre con la descrizione di un sogno del regista in cui vede se stesso fare da Cicerone ad una folla di persone mute, portandoli nel quartiere in cui è cresciuto. Appena la folla incontra la madre del regista, che comincia a parlare delle case, tutti scompaiono. Stacco. Rovine israeliane. L’occhio di Aljafari (o del regista da cui ha preso i filmati per poi privarli delle figure umane) dà attenzione alla geografia del posto con lo stesso sguardo che poteva avere l’Artur Aristakisjan di Palmi (1994) quando osservava le strade invece degli esseri umani: l’attenzione la si dà alla ricerca di una bellezza che non è nell’occhio della macchina da presa ma nella visione panoramica della rovina. È come se si cercasse una definizione spaziale che dia l’idea del vuoto stesso dello spazio. In questo senso si può dire che, oltre ad Aristakisjan, Aljafari potrebbe rifarsi anche ad alcuni lati del cinema di James Benning, autore tanto estremo nella propria concezione dello sguardo quanto controverso anche tra i più appassionati nel campo del cinema sperimentale. In comune c’è l’idea di uno sguardo attento e prolungato in un vuoto che altrimenti non riceverebbe la nostra azione nella vita reale. E, considerata la provenienza delle immagini, l’attenzione di Aljafari è in un vuoto che è stato vittima di uno svuotamento, un vuoto che era stato guardato in maniera diversa e che solo adesso è vuoto. Questo perché? L’autore palestinese si basa su di un’idea di arte in cui l’arte stessa (il suo cinema) merita di più degli esseri umani di essere legata al concetto di memoria. L’arte e la natura, che sono sempiterni, e non il corpo che viene attentamente rimosso, ma che lentamente comincia ad entrare nell’inquadratura, quasi come se stesse inseguendo l’immagine cercando di pervertirla con l’ossessione carnale di noi esseri umani che, egocentrici, ci ritroviamo ad essere creatori del cinema e loro protagonisti (e anche loro protagonisti in quanto loro creatori, forse). Qui la scelta del regista è quella giusta di inserire gli esseri umani più come una lenta conseguenza di una ricerca visiva piuttosto che come un proseguirsi documentaristico del luogo; insomma, non usa le parole degli uomini per fare film-capsula come Frederick Wiseman ma usa i volti e i corpi degli uomini per dare un contributo alla costruzione di un’inquadratura come ha fatto per esempio proprio Benning, nell’uso etereo e dilungato sopra descritto, in Faces e Twenty Cigarettes, entrambi film del 2011. Poi viene introdotto il dialogo, con un misterioso e intimo botta e risposta al telefono che sembra scavare nell’intimità inesplorata del regista e delle proprie esperienze familiari. E, dopo questo, il cinema di finzione soverchia quello documentaristico (sia quello dei corpi, sia quello privato di essi) con una serie di scene prese da film preesistenti montati come per dare una coerenza astratta al viaggio estetico che Aljafari sta compiendo e facendo fare al proprio alienato spettatore: uomini che si picchiano con pupazzi, inseguimenti per strada, una fiabesca e surreale sequenza in cui una ragazza cammina a testa in giù in una casa abbandonata in cui trova un coniglio bianco (una specie di incontro grottesco ed enigmatico tra l’Alice (1988) di Svankmajer e Lo specchio (1975) di Tarkovskij).
Ma è nella conclusione che il sublime film trova la sua raison d’être. Prima dei brevi titoli di coda vi è un’altra sequenza di scritte e didascalie nelle quali il regista semplicemente descrive proprie esperienza personali con la cadenza narrativa e poetica di una descrizione onirica, passando di palo in frasca tra deliranti riferimenti personali (“quella bambina a metà film poteva essere mia madre”), piccole frasi sconnesse e crediti riferiti agli individui presenti nell’opera. In questo senso, il labirinto d’immagini in cui Aljafari ci fa perdere è forse paragonabile alla natura di 2015 Rolling, il cortometraggio capolavoro con cui Apichatpong Weerasethakul ha dato il benvenuto nel cinema del nuovo anno: usare la parola per creare la sensazione del sogno e dell’immateriale quando è impossibile metterla in scena in immagini – ma usare lo stesso le immagini, perché sono lo specchio di ciò che ci circonda e di ciò che ci portiamo dentro, specchio della memoria che portiamo avanti e quindi veicolo perfetto con il quale aiutare l’atmosfera con il quale portare in scena i nostri sogni, le nostre visioni. Riappropriandoci dei nostri luoghi, della nostra storia, della nostra vita.
Nicola Settis, Marco Romagna