7 Dicembre 2019 - e

PADRONE DOVE SEI (2019)
di Carlo Michele Schirinzi

C’è tutto Georges Bataille e c’è l’occhio (come se non potessero essere scissi), c’è la perversione dell’abbandono (autoflagellante, oltre ogni possibile ossessione) e c’è la mancanza dell’atto/azione (che ne produce infiniti altri, indivisibili e già scissi), e poi ci sono Jacques Derrida e Carmelo Bene. C’è la volgarità dell’espressione scurrile e c’è il neoclassicismo di un’arte che trasforma il desiderio in materia e la visione in tatto, c’è la lente di ingrandimento come un avvicinarsi al feticcio fino a renderlo indistinguibile nella sua impossibilità di essere realmente afferrato e posseduto, e c’è la mancanza di una madre che si somma al desiderio represso. Ci sono le immagini “rubate” da Google, le frasi “rubate” dai Joy Division o da Piero Ciampi e i video “rubati” da YouTube per diventare altro sguardo sul passato, sull’arte e sul classico, c’è lo stesso malessere della New Wave ripresa rigorosamente senza diritti e troncata a piacimento nello straordinario lavoro di sound design, e ci sono persino foto e disegni a china e matita di un’intera vita masturbatoria, immagine che sostituisce la carne e rende il sogno manualità ed espressione. Carlo Michele Schirinzi, più autarchico, sincero e personale che mai, guarda il desiderio come forse non l’abbiamo (quasi) mai visto; e noi con lui, partecipi (o forse colpevoli?) di un filtro sulla carne altrui tanto da esserne esausti alla fine – sempre ci possa essere realmente una fine – di questa visione. Padrone dove sei, in prima mondiale fra le Onde del Torino Film Festival e pochi giorni dopo ripresentato in concorso ad Avellino al 44mo Laceno d’Oro, è un passo nell’ignoto di uno degli autori più peculiari e particolari di una panorama cinematografico drammaticamente astenico e vuoto come il nostro. «L’ennesimo naufragio», come lo stesso autore definisce la sua opera, in cui Schirinzi continua, da storico dell’arte e artista ben oltre il cinema, a soffermarsi sulle possibilità di dialettica fra sguardo e composizione. Non più quella storica e astratta di Bisanzio, ma una scheggia di discorso ben più tangente a noi, profonda come la sessualità, che accende colori e suoni rendendoci partecipi di un’intimità legata che continuamente si slabbra e si dissolve fino a mescolare e ribaltare ogni piano e ogni rapporto, ogni corpo e ogni suono, ogni vita e ogni morte, ogni servo e ogni padrone. Carlo Michele Schirinzi, rigorosamente da solo nell’ideazione, nella produzione, nella scrittura, nelle riprese, nella fotografia, nel montaggio, nei filtri ottici, nei disegni, negli amici (e mai attori) coinvolti e nel flicker finale che è ormai suo marchio di fabbrica autoriale, sospira all’atmosfera mortifera del (tragicamente) ultimo Bowie di Blackstar, veste uno dei suoi protagonisti con un panno che tanto ricorda il tenebroso Brando di Ultimo tango a Parigi, guarda con occhio voglioso alla sensualità materica del marmo di Bernini e nel frattempo mette sullo schermo i suoi desideri e i suoi feticismi, il suo sguardo e le sue pulsioni, il suo inconscio e la sua continua e ossessiva ricerca nell’infinita spirale dell’impossibilità di soddisfarsi.

Padrone dove sei diventa così un film tattile di oggetti e feticismi, di suoni e di disperate frasi sconce, di sguardi dentro se stessi alla ricerca dell’inconfessabile e di pura materia da continuare a sfiorare ma rigorosamente da lontano, finendo per porsi in aperto dialogo, a livelli differenti, con il Luca Ferri di Dulcinea, con il Julio Bressane di Sedução da carne, con l’Albert Serra di Liberté, e in qualche modo pure con il magnifico No.7 Cherry Lane di Yonfan, con la Celine Sciamma di Portrait de la jeune fille en feu e persino con l’Abdellatif Kechiche dei Mektoub my love. Quasi nessuna immagine, nella sua assoluta corporeità, si rivela per ciò che è, ma ogni quadro è nascosto e sgranato, impallato, pixelato, fuori fuoco, filtrato all’infinito con lenti di ingrandimento, bicchieri e distorsioni ottiche artigianali. Ogni disegno è un abbozzo, ogni forma è informe, e poi ci sono lui, lui, lui, lei, una biblioteca, lo schermo di un cellulare e un letto d’ospedale. Potrebbe essere un pelo pubico oppure l’occhio di un bovino, potrebbe essere un capezzolo oppure un paesaggio notturno e nebuloso fra Torino e Leuca, potrebbe essere una scarpetta da danza oppure un libro di storia dell’arte. Potrebbe essere acqua sul vetro oppure la metafora sessuale di un ascensore in costante movimento, potrebbero essere i tagli ai lati del perineo oppure i punti su un naso rotto e appena operato. Potrebbe essere «pietra che diventa carne che diventa pietra (che diventa lacrima che diventa sperma)» e potrebbe essere una masturbazione (fisica oppure semplicemente mentale) pensando alle labbra di Santa Teresa. Di certo la condanna è quella di essere costretti a guardare una copia (fotografica, su carta, su schermo, su packaging di un disco) senza potere (mai/più) toccare, sentire, «lavarsi gli occhi» con l’originale. Schirinzi lavora ai margini della propria consapevolezza di essere autore (e mancante) nell’estromissione di un rapporto, e in quella cecità apparente che è l’espressione stessa di un erotismo. Tutto diviene parte di una struttura respingente e impenetrabile nella mancanza di un contatto, tra il desiderio e l’oggetto come tra lo schermo e l’osservatore. Ed ecco che tutto l’apparato di citazioni (o meglio di re-visioni) in cui Schirinzi ci coinvolge mostra la possibilità di ampliare le traiettorie, di disperdere i desideri, di incapsulare una perdizione. Di trovare l’estasi sessuale in quella mistica, e forse l’unico (non più reale) appiglio in un sentimento che rimarrà anche dopo l’addio, fra l’amore filiale e la mancanza. La pulsione/pulsazione è qualcosa di disperato, ossessivo, al contempo lacrimato e lascivo, che però può ancora definire una speranza, quella della proiezione nell’occhio dell’altro, dove nemmeno la mancanza più profonda può arrivare. Un occhio che sappia ancora essere vivo in un mondo di morte e di morti, di desideri repressi e di solitudine, di attrazioni e di (non) sfioramenti, di istinti e di sublimazioni nell’arte. La propria, ma anche e forse soprattutto quella altrui. Forse l’unica via di fuga, forse una sospensione (anti)catartica. Di sicuro un qualcosa di (in)controllabile, intimo, vero, puro. Morbosamente necessario. Come un film respingente, faticoso, sconcio, disinibito, e proprio per questo importantissimo.

Marco Romagna, Erik Negro

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