Forse, per parlare di un film leggendario come Qualcuno volò sul nido del cuculo, non si può che partire dalla leggenda. E non può essere un caso che la leggenda di quello che nel ’75 sarà il secondo film americano di Miloš Forman – terzo se si vuole considerare anche l’episodio The Decathlon nell’opera collettiva Ciò che l’occhio non vede (1973) – e la sua definitiva e immediata consacrazione con cinque premi Oscar fra i quali miglior film, affondi simbolicamente le sue radici, ancora una volta, in quegli anni Sessanta boemi che ispirarono la Nová Vlna e il primo cinema dell’autore. Un cinema che cercava la libertà dalle oppressioni, un cinema di giovani emarginati pronti a combattere con la loro freschezza e l’ironia più pungente contro un potere incapace e cinico sempre pronto a reprimere, umiliare, schiacciare, proprio mentre l’altro cinema, quello americano, in quegli anni andava alla ricerca di soggetti ben più frivoli e mandava Kirk Douglas dall’altra parte della Cortina di Ferro, in Cecoslovacchia, come ambasciatore di pace e di accoglienza. Poco prima, il grande attore aveva recentemente acquisito i diritti del romanzo di Ken Kesey Qualcuno volò sul nido del cuculo, caso letterario negli States basato sull’esperienza personale dell’autore come volontario in un ospedale psichiatrico e libro pronto a mettere in luce i trattamenti inumani somministrati ai pazienti per il “bene comune”, e forse proprio perché conscio di come i produttori statunitensi non fossero pronti a rischiare il flop economico raccontando un manicomio, nel corso di un incontro casuale a Praga con Forman fu quasi naturale per Douglas promettere al giovane regista ceco una copia del romanzo proponendo anche a lui la storia. Il libro tuttavia, per quanto effettivamente spedito, venne probabilmente sequestrato dalla dogana e non fu mai recapitato a Forman, mentre il suo titolo e il suo autore, allora completamente e comprensibilmente sconosciuti a chi viveva sotto la censura del Blocco Sovietico, furono ben presto dimenticati dal regista.
Le leggende, tuttavia, se non seguissero percorsi tortuosi probabilmente non diventerebbero leggende, e non poteva quindi che essere un altro luogo leggendario, quello stesso Chelsea Hotel di New York nel quale Leonard Cohen passò la celebre notte di fuoco con Janis Joplin per la prontezza di essersi finto Kris Kristofferson e nel quale trovarono rifugio (e non di rado lacci emostatici) i più eminenti artisti e pensatori del periodo da Andy Warhol a Syd Vicious, da Patti Smith a Bob Dylan, da William Burroughs a Jack Kerouac, passando per Jonas Mekas, Arthur C. Clarke, Allen Ginsberg, Jean-Paul Sartre e perfino Stanley Kubrick, a far ripartire quella di One Flew over The Cuckoo’s Nest. Erano passati più di dieci anni da quell’incontro boemo fra Miloš Forman e Kirk Douglas, nel frattempo il soggetto era stato rifiutato da tutti i possibili finanziatori e Kirk, stufo, aveva finito per regalare i diritti del romanzo al figlio Micheal, ancora lontano dalla consacrazione come attore che arriverà solo diversi anni più tardi e intenzionato a lanciarsi nella prima esperienza come produttore in società con l’altro giovane esordiente Saul Zaentz. La copia del romanzo di Kesey che non era mai arrivata nelle mani di Forman 10 anni prima a Praga, arriva ora al Chelsea Hotel di Manhattan, letta tutta d’un fiato in quella storica culla d’artisti, e da qui la leggenda prosegue con l’incontro fra i giovani produttori e quello che si rivelerà esattamente il regista ambizioso e con poche pretese economiche che cercavano, prosegue con la sfida di produrre il film, in una Hollywood che al tempo aveva un costo medio di 6 milioni di dollari a lungometraggio, con meno di due milioni usando attori “sconosciuti” e che diventeranno Jack Nicholson, Christopher Lloyd e, una volta persi i capelli, Danny DeVito, prosegue con la decisione di assumere un punto di vista oggettivo e non quello in prima persona di “Big Chief” Bromden nel quale è scritto il romanzo, fino al nuovo incontro di Miloš Forman con Kirk Douglas dopo essersi ritenuti, reciprocamente e per tanti anni, estremamente maleducati per quel mancato carteggio reso impossibile dalla polizia postale di Praga. Quella Praga dove è iniziata la leggenda di Qualcuno volò sul nido del cuculo e dove in un certo senso il film ritornerà pur non spostandosi dagli Stati Uniti. Tornerà a Praga nella messa in scena di un gruppo di emarginati, rinchiusi, inebetiti dalle medicine e sedati a botte di umiliazioni e di elettroshock, schiacciati da un potere (di un’infermiera, che poi è “la difesa” legittimata della società “sana” dai “pazzi” e, per estensione, l’incarnazione di ogni repressione) fatto di crudeltà anche gratuite e di trattamenti disumani; tornerà a Praga nel “nemico” costituito proprio da questo potere troppo più forte, che annichilisce il popolo ed è pronto a lobotomizzare chi osa rimanere un essere umano, chi osa essere sfrontatamente anticonformista e non si allinea, chi osa essere insofferente e si ribella a un sistema che annulla diritti e personalità, reclude e reprime, umilia e tortura operando nella piena “ragione” e nella piena legalità; tornerà a Praga nel terreno della commedia che il film con i suoi “picchiatelli” attraverserà nella sua prima parte, per poi virare nella seconda a gonfiare il letto della tragedia umana e poetica, forzandone gli argini emotivi fino all’Olimpo cinematografico.
Questo è Qualcuno volò sul nido del cuculo: è la tensione alla libertà, è il bisogno di tornare umani e di sconfiggere le ingiustizie, è il sacrosanto diritto di mettersi contro a un potere grottesco, lo stesso che schiacciava da Mosca i giovani cechi della Nová Vlna, lo stesso che annichilisce nel ’75 americano Jack Nicholson/Randle McMurphy per aver osato dare speranza a un gruppo di uomini ai quali invece lo Stato preferisce calpestare ogni diritto al fine di renderli innocui, lo stesso che quattro anni più tardi in Hair spedirà a morire in Vietnam per un capriccio del destino l’hippie al posto del soldato addestrato, e se vogliamo anche lo stesso che censurerà il magnate del porno Larry Flint (1997) e contro il quale si scagliò, mettendolo grottescamente in luce, pure Andy Kaufman, che Forman riporterà in vita nel ’99 nelle membra di Jim Carrey in Man on the Moon. Questo è Qualcuno volò sul nido del cuculo: il suo finale straziato, l’umanità che esplode nell’ultimo, per non dire unico, estremo atto di pietà di Big Chief che stringe il cuscino sul volto di un McMurphy che ormai giace in stato vegetativo, con i collegamenti cerebrali staccati chirurgicamente dopo la sua aggressione alla gola della perfida infermiera Ratched, liberandolo dall’agonia di una non-vita. Questo è Qualcuno volò sul nido del cuculo: una giornata a pesca, prima sullo scuolabus rubato e poi in barca, l’evasione dalla routine e dagli schemi imposti con tanto di puttana a bordo, oppure una partita a basket, una telecronaca immaginata e gridata per protesta davanti alla televisione spenta, o ancora la festa d’addio nella notte della fuga, gli alcoolici proibiti, il dono di una donna al tenero e balbuziente Billy Bibit, che non aveva bisogno di medicine ma esclusivamente di sfogare quelle repressioni sessuali con le quali invece l’infermiera lo teneva in pugno, sfruttando la di lui soggezione per la madre e la di lui fragilità. E con le quali, spingendosi troppo oltre con il suo gelido cinismo e la sua mania del controllo, ancora una volta la mattina dopo scientemente lo distrugge, come una sorta di fallo di reazione contro chi era stato guarito dai pazzi e non dalla medicina, provocando il suicidio del ragazzo che sarà per McMurphy la colpa finale della donna, l’ultima provocazione, la scintilla per la reazione rabbiosa e violenta, unico lampo di giustizia laddove a governare è solo la legge.
Perché Qualcuno volò sul nido del cuculo, ritirato a lucido e riportato sul grande schermo fra i capolavori restaurati di Cannes Classics edizione 2025 in attesa, verosimilmente, di una nuova distribuzione, è anche e forse soprattutto le imposizioni, le amarezze, le ingiustizie che i “pazzi” rinchiusi (alcuni volontariamente) nel «nido del cuculo» devono subire. Dal diritto «che avevo anche in carcere» e che qui viene negato di guardare le partite di baseball all’elettroshock somministrato per «calmare» chi è già calmissimo e attende seduto il suo turno. Dalle chiusure tattiche delle sedute per poter bocciare le richieste dei degenti al razionamento delle sigarette che porta a crisi i fumatori. Dal rifiuto delle istituzioni persino di abbassare la musica su gentile richiesta ai ricoveri coatti che prolungano a data da (probabilmente mai più) destinarsi quella che per la legge sarebbe dovuta essere per McMurphy la fine della pena detentiva. Un intero mondo che Forman mette in scena straniante e straziante; un mondo nel quale forse l’unico sistema per sopravvivere è quello di ingannare tutti, di fingersi sordomuti come il gigantesco Big Chief, di chiudersi in se stessi. Eppure, quando in questo mondo verrà risucchiato McMurphy, che di malattia mentale non aveva nemmeno il minimo cenno ma che era stato mandato a periziare per la sua insofferenza verso le istituzioni e per il suo rifiuto – a costo di farsi passare per matto – dei lavori forzati, e su richiesta esplicita dell’infermiera Ratched per quanto sano verrà trattenuto ben al di là delle sue colpe e stranezze «per essere aiutato» fino al dramma finale, anche Big Chief finirà per svelare il suo inganno e deciderà di dare confidenza a quell’unica persona che mai aveva visto come un problema la sua (simulata) disabilità. Insieme finiranno per diventare sinceri amici, per sognare la fuga, per pianificarla nel dettaglio e per vederla fallire per ubriachezza. Per emozionarsi e sentirsi normali dove le emozioni e la normalità non sono concesse. Tanto che dopo ci sarà spazio solo per la tragedia, per l’aggressione, per la punizione definitiva. E quando lo Stato, per «aiutare» una persona ormai ritenuta «pericolosa», praticherà la lobotomia per annientare definitivamente un uomo sano e colpito da ripetuti abusi di potere nonostante avesse già saldato i suoi debiti con la giustizia, al Grande Capo Big Chief, montagna umana stretta nella propria pelle rossa, rimarranno solo le lacrime e il più estremo atto di pietà verso un amico sincero. L’unico capace di infondergli la speranza di una fuga in Canada, di una vita normale, di un’umanità, di un sogno. Magari proprio il sogno di sradicare quello stesso lavandino che McMurphy non era riuscito a smuovere di un millimetro per scagliarlo contro la finestra, e rendere realtà anche il sogno di romperla, di uscire, di partire verso la libertà. O per lo meno verso una liberazione, per quanto possa essere dolorosa. Verso la catarsi di un capolavoro conclamato e straordinario, che nel 1975 arrivava come un’onda destinata a travolgere le coscienze popolari aprendo gli occhi su una tragedia sociale – rimanendo all’Italia, la Riforma Basaglia arriverà solo tre anni dopo, nel ’78 – e influenzando tanto cinema futuro. Arrivava come un film di denuncia sulle condizioni disumane in manicomio, arrivava come una chiarissima metafora sociopolitica di ogni potere soffocante e rigido, arrivava come un’intima riflessione sul senso della vita: la profonda umanità e la dignità del “mostro” contrapposte alla pericolosa mostruosità di chi da questo innocuo “mostro” dovrebbe essere preposto a difenderci. Un poema cinematografico leggendario che, nel suo ribaltare a chiasmo i ruoli sociali e il punto di vista, riassume in un certo senso tutta la filmografia passata e futura di Miloš Forman, lasciando emergere la sua visione anticonformista e profondamente etica nel remare insieme agli emarginati e a chi subisce le ingiustizie. Mentre, da grande cinema, intrattiene, culla, innervosisce, commuove. Deflagra ogni volta, da mezzo secolo sullo schermo e nel cuore. Per sempre vitale e straziante, doloroso e sublime, come un grido infinito di libertà, di uguaglianza, di umanità. Di Resistenza.
Marco Romagna