21 Maggio 2019 -

ON VA TOUT PÉTER (2019)
di Lech Kowalski

Il cinema di Lech Kowalski è un atto di militanza continuo ed estremo. Tanto che potrebbe apparire, in qualche sua riflessione, talmente interno alla lotta da non percepire fino in fondo le sue dinamiche e da non avere forse la lucidità d’analisi necessaria, ma proprio in questo forse risiede il suo fascino. La complessità della questione del lavoro, così come quella della protesta, viene ridotta e astratta apparentemente nell’ennesimo campo di battaglia dal ragazzo la cui camera, come nella rigorosa tradizione punk rappresentata ancora oggi da quel “chiodo” con cui è salito sul palco della Quinzaine des Réalisateurs di Cannes 2019 abbracciando i “suoi” protagonisti, è la pistola. Ed è proprio in questo momento che risiede la consapevolezza dialettica del film, quella di chi guarda il ri-costruirsi della Storia attraverso la stessa struttura dominante, dove oggi sta l’urgenza. Nessuno spazio alla mera celebrazione dell’operaio nella sua continua lotta (anche se l’occhio e la camera di Kowalski sanno sempre da che lato della trincea porsi, difendendo quella posizione e mostrando un affetto totalizzante verso gli eroi di quella battaglia) ma un respiro più ampio, che si interroga nei confronti delle dinamiche di questa lotta ridotta (o ampliata) all’oggi. Una sintassi che pare porre le sue basi, poetiche ancor più che teoriche, nell’impossibilità della rivoluzione permanente, nell’utopia sempre più distante di un ribaltamento dei rapporti di predicazione interni alla società tutta. Ecco, il problema è sempre l’individuare un nemico che fosse il più vicino possibile alla fonte del dramma, e ancora una volta appare logico che esso possa coincidere solo con le forme più contemporanee e radicali del Capitalismo. Quelle che, anche di fronte a milioni e milioni di euro di introiti, ritengono di non guadagnare a sufficienza, e preferiscono tagliare le spese licenziando gli operai e delocalizzando il loro lavoro in zone in cui sia più semplice sfruttarli e ancor più arricchirsi sul loro lavoro e sul loro sudore.
Siamo in un fabbrica francese di medie dimensioni, la GM&S legata all’indotto di Renault e Gruppo Peugeot, una come tante altre. Quando il rischio di chiusura appare sempre più concreto iniziano le proteste con gli obiettivi minimi di ridurre al massimo i licenziamenti e negoziare una buonuscita congrua a chi sarà lasciato a casa, mentre pian piano arrivano, come necessario contro-campo, asettico e neutro fino al governativo, della camera di Kowalski, i media. Sono i giorni delle unità di crisi (quantomeno fittizie di Macron), dei primi appuntamenti dei Gilets Jaune, di una Francia sull’orlo di un altro baratro sociale. Mentre Yann, Jean-Marc, Vincent, René e molti altri, con una volontà e una dignità disarmanti, continuano la loro lotta su più piani. Da una parte aprendo un tavolo di negoziazione con i gruppi che avrebbero dovuto alimentare gli ordini della fabbrica, soluzione che appare sempre più apparente, e dall’altra con la militanza e la sensibilizzazione sempre non violenta. Blocchi degli ingressi, sit-in, barbecue, viaggi in autobus; esempi di un’apparente collettività che sfida la voragine che il regime del mercato vuole imporre ai suoi popoli. Kowalski accarezza tutto questo, pone la sua camera nell’epicentro dell’azione aspettando che la Gendarmerie attacchi il cordone umano operaio, sfondi le barricate e cerchi un inevitabile punto di s-contro; guarda corpi che lottano e si aggrappa a essi, con la sua stessa fisicità che regge una camera strattonata, fatta cadere, magari spenta a forza e trascinata fuori a forza dalla polizia insieme agli operai in protesta, ma mai trasformata in martire, perché le vittime sono solo loro, gli uomini, gli operai che, insieme al pubblico e allo stesso Kowalski, si illudono di poter fare la Rivoluzione.

Alla fine la GM&S cambierà proprietà, qualcuno salverà il suo posto di lavoro e altri lo perderanno, in una lotta alla sopravvivenza che non può protrarsi se non nell’unione di tutte quelle anime sull’orlo della disperazione. Si torna in fabbrica e continuamente, sempre più frustrati, si discute di un futuro aperto ma più che mai tempestoso. Sono tanti gli interrogativi che Kowalski pone con questo On va tout péter, alcuno anche senza risposta. A partire dal ruolo essenziale della lotta, e alla sua sempre più attuale derealizzazione dimensionale (ancora di stampo francofortista) per cui chi fa parte del Capitale – e lo consuma quanto lo produce – non si rende dialetticamente conto di quanto sia proprio il sistema capitalistico l’unico reale mostro della società. Si lotta per mantenere un posto di lavoro, ovvero un ruolo nella società fatta di ruoli apparentemente incapsulati; e nessuno di loro forse si pone il problema di come sia proprio il ruolo ossimorico che un’anima/merce lavoro può abitare allo stesso modo nella lotta come nella società. Ed ecco che torna lo spettro, o forse il fantasma, della “lotta tra poveri”, dell’accontentarsi di smezzare il pane con il vicino di casa invece di andare a bussare alla porta del padrone per richiederlo, che parte dalla Francia e diventa universale nelle parole, non certo a caso in inglese, dello stesso regista.
Ma in tutto questo Kowalski non è mai giudicante, giustamente non lo potrebbe mai essere, indica solo le coordinate dell’impossibilità attuale – e, con tutta probabilità, futura – di ogni forma rivoluzionaria sistematica e deflagrante che porti le masse alla pulsione del sovvertire questo apparente ordine costituito. Anche su questo piano, sulla forma della protesta magmatica (e spesso informe) dei Gilets Jaune – di cui questi operai potrebbero apparire quasi come incubatrice e/o propaggine – dovremmo tornare alle riflessioni di Toni Negri (per chi scrive sicuramente le più lucide del/sul fenomeno). Già a fine dello scorso anno parlava dell’assurdità di ridurre questo fenomeno a schema di parte (buoni e/o cattivi), a etichette (fascisti e antisemiti alcuni, gentili e dialoganti altri), a struttura congiunturale e impazzita senza considerare il rifiuto che molti di loro hanno nei confronti del neo-liberismo. Ribadiva che, pur con tutti i limiti e le indecenze che aveva in seno, il movimento mostrava una via di contropotere che sperimentasse prospettive in una rete più diffusa di sommosse recenti (Occupy, 15M, e i movimenti subito repressi nel Nord-Africa e nel Medioriente). «Un altro potere nasce solo quando il suo esercizio sia recuperato dalle singolarità, e realizzato in forme istituzionali non-sovrane, aperte invece alle oscillazioni come all’intelligenza dell’insieme delle singolarità costituenti la moltitudine», scriveva. E se non c’è una verità nemmeno per Negri, figuriamoci per Kowalski e tutti i suoi operai. Resta dunque l’atto etico, ideologico e politico della lotta, la sua provvisorietà pulsante e romantica senza direzione. Forse non è questo di cui abbiamo bisogno, ma è comunque quel poco che ci è rimasto da difendere, da vedere e far conoscere.

Erik Negro

“Blow It to Bits” (2019)
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Regista Lech Kowalski
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