18 Settembre 2017 -

IL DUBBIO – UN CASO DI COSCIENZA (2017)
di Vahid Jalilvand

Nel traffico caotico della notte iraniana, un medico è alla guida della sua auto. Scartando per evitare l’incidente con una brusca motocicletta che lo sorpassa sulla sinistra, finisce per urtare, e far cadere, il motorino che procedeva sulla sua destra, sul quale viaggiava un’intera famiglia composta da padre, madre, figlioletto di otto anni e altro neonato in braccio. Uomo di forte responsabilità e di granitica etica, il dottore si ferma immediatamente a prestare i soccorsi, rendendosi conto che l’unico leggermente ferito – comunque senza nulla di apparentemente grave – è proprio il bambino primogenito. Offre al padre, che lo rifiuta, il denaro necessario per risarcire il danno allo scooter, e invita la famiglia a portare il figlio per un controllo presso un vicino centro medico, ottenendo in cambio solo il loro tirare diritto senza fermarsi. Pochi giorni dopo, nell’obitorio nel quale lavora, il dottore si trova di fronte proprio al corpo del bambino. Sarà sua moglie, anch’ella medico legale, a eseguire l’autopsia, rilevando come la causa della morte fosse da imputare a un caso di botulismo dovuto ad aver mangiato carne avariata. Ma i dubbi, atroci, rimangono.
Si dipana da qui il viaggio nella responsabilità e nei sensi di colpa di No date, no signature, rigoroso e potente esempio di Neorealismo iraniano premiato a Venezia come miglior regia di Orizzonti. Il film di Vahid Jalilvand, che uscirà in Italia come Il dubbio – un caso di coscienza, è una catena tragica irrefrenabile eppure lineare, mai “eccessiva” o retorica, che lavora sulle inquadrature fisse e sul fuori campo in una messa in scena asciutta come l’apparente ineluttabilità dei fatti e degli uomini che il film racconta. No date, no signature è un’onda che tutti travolge mietendo solo vittime, è un incrocio di destini intrecciati dal dolore, dalla perdita, dalla responsabilità. C’è un padre magari povero, magari troppo orgoglioso, magari ignorante, ma non certo “cattivo”, che perde un figlio per la sola “colpa” non potersi permettere altro che polli di qualità scadente e sarà ben presto destinato a perdere controllo, autostima, famiglia e libertà. C’è una madre disperata, che si ritrova a rinfacciare al marito di avergli ucciso il figlio finendo per stimolare la sua vergogna, e aprendo a scenari ancor più foschi di violenza e di (in)giustizia. C’è chi ha venduto sottobanco i polli destinati al macero o ai cani, che negherà l’evidenza facendo ribollire il sangue di un uomo distrutto, e poi morirà incidentalmente in una colluttazione con un padre che, al posto della giustizia, otterrà solo le manette, la sistematica messa in dubbio e l’ingigantimento della pretenzionalità del suo disperato e involontario omicidio. E poi, ovviamente, c’è il dottore, i cui dubbi avanzano, e con loro i drammi di coscienza di fronte all’avanzare della multiforme tragedia. E se la morte del bambino, nonostante il botulino presente nel corpo e la sua natura letale nel giro di pochi giorni, non fosse dovuta all’intossicazione ma all’incidente? Se fosse stata una microfrattura del collo ad aver provocato gli stessi letali sintomi? Se fosse quindi proprio lui, il medico (in)colpevole nell’incidente e inascoltato quando aveva proposto un controllo in ambulatorio con il quale probabilmente il bambino sarebbe ancora vivo, ad aver innescato la spirale che ha appena distrutto una famiglia, diverse vite e la coscienza/morale di un uomo?

No date, no signature è un dramma intimo ed esistenziale, fatto di miseria e di grida straziate, fatto di lacrime e di rimorsi, fatto di conflitti interni e di reazioni a cuore aperto. Nessuno ha colpa, nessuno ha reale intenzione di fare del male, ma tutti – umanamente – sbagliano, tutti hanno una responsabilità, e non possono che sentirne il peso, esserne schiacciati, forse morirne soffocati. Muore un bambino, si sfalda la sua famiglia, il padre finisce in carcere per aver mandato una persona che voleva semplicemente arrangiarsi prima in coma e poi al cimitero, e un medico gentile e disponibile, coscienzioso e onesto, etico e umano, finisce per piombare nella stessa spirale, per sentirsi la causa di tutto, per lasciar correre i sensi di colpa ben al di là delle sue effettive colpe. Nell’Iran di oggi, una società trasandata, incerta e improvvisata, Vahid Jalilvand innesta un film di ossessioni e di amarezza, di dubbi atroci e di infiniti corridoi, di sguardi e di silenzi, di impossibile elaborazione di un lutto contro natura. Nessun genitore dovrebbe mai seppellire un figlio, e quando, in una narrazione paradigmatica che racchiude da una parte tutte le ipocrisie e l’amarezza di una società provvisoria e dall’altra tutta la fragilità e la fallibilità umana, questo accade, non si può che aprire a un intero spettro di responsabilità, fra chi se ne carica anche oltre modo e chi le rifugge, fra chi intimamente soffre e chi altrettanto intimamente reagisce. Se necessario sbagliando ancora, aggiungendo altre tragedie sulla tragedia, ma vivendo la propria emotività fino in fondo: siamo “solo” uomini, che amano, soffrono, (soprav)vivono. Hanno un cuore che pulsa.
Vahid Jalilvand scava nell’ambiguo, nella mancanza di certezze, costruendo una perfetta tragedia che lavora per sottrazione, in cui non è tanto la reale responsabilità sul fatto scatenante quello che conta, ma il lento macerare di chi se la sente cucita sulla pelle. Quando, su richiesta del dottore, il bambino sarà riesumato, nemmeno la seconda autopsia toglierà i dubbi sulle cause della morte. Il botulismo era effettivamente avanzato, così come effettivamente c’era una piccola incrinatura in una vertebra. Di fronte al tribunale, il dottore glisserà sulla fuga del padre di fronte al centro medico, non cercherà in alcun modo di scaricare il barile, si autoaccuserà di essere la reale causa della morte senza nemmeno esserne sicuro. Cercare un castigo senza nemmeno essere sicuri del delitto: ecco, forse, l’unico modo per sopravvivere al dubbio, ecco forse l’unico modo per (non) sentirsi responsabile di una catena di luttuosi eventi, ecco l’unico modo per sentirsi ancora umani in una società ipocrita, egoista e che troppo spesso fugge di fronte alle proprie colpe. Solo affrontando le proprie responsabilità di petto e cercando di aiutare un uomo travolto dal destino si può sopravvivere ai drammi di coscienza, ci si può ripulire dal fango che ci sta attorno, tentando disperatamente di costruire un futuro a tinte meno fosche. A questo, del resto, è sempre servito il Neorealismo accorato e potente che No date, no signature, nel sottobosco sociale e umano dell’Iran di oggi, ha saputo far rivivere.

Marco Romagna

“Bedon tarikh bedon emza” (2017)
Drama | N/A
Regista Vahid Jalilvand
Sceneggiatori Ali Zarnegar
Attori principali Navid Mohammadzadeh, Hediyeh Tehrani, Amir Aghaee, Alireza Ostadi
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

SAINT BATHANS REPETITIONS (2017), di Alexandre Larose di Erik Negro
HANNAH (2017), di Andrea Pallaoro di Marco Romagna
JUSQU'À LA GARDE – L'AFFIDO (2017), di Xavier Legrand di Marco Romagna
FIRST REFORMED (2017), di Paul Schrader di Nicola Settis
FOXTROT (2017), di Samuel Maoz di Tommaso Martelli
HANAGATAMI (2017), di Nobuhiko Ōbayashi di Marco Romagna