24 Novembre 2020 -

MY AMERICA (2020)
di Barbara Cupisti

Parrebbe affiorare un tocco di pretenziosità in un documentario che si intitola My America e che viene presentato dalla sua autrice – italianissima, solo da qualche anno emigrata negli States – come l’opera che vuole fotografare la “sua” America, oltre a quella dei protagonisti del documentario stesso, che ne avrebbero ben più diritto. Lei è Barbara Cupisti, viareggina emigrata in Virginia, Alexandria, a due passi da Washington D.C.. Attrice con ruoli più o meno importanti per Fulci (Lo squartatore di New York), Tinto Brass (La chiave), Dario Argento (Opera), Umberto Lenzi (Le porte dell’inferno), ma anche Carlo Verdone e Lamberto Bava, con l’apice della carriera da interprete raggiunta a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta, Barbara Cupisti è passata dietro la macchina da presa con gli anni Duemila, specializzandosi nell’ambito della non-fiction. Nel 2008 Madri le vale il David di Donatello come miglior documentario e nel 2009 si aggiudica il Premio Amnesty Italia – Cinema e diritti umani con Vietato sognare. Un’attenzione ai temi sociali che viene confermata, nel 2011, dal patrocinio di Amnesty International per il documentario Io sono – Storie di schiavitù, e, nel 2012, dalla vittoria del Premio Ilaria Alpi, categoria Miglior reportage lungo, per Fratelli e Sorelle – Storie di carcere. Seguono, dal 2014 al 2016, una trilogia dedicata agli esuli e, nel 2018, un documentario con cui si focalizza sull’universo femminile, Womanity.
Tutto ciò per rilevare l’esperienza non solo cinematografica, ma anche tout court sociale che Barbara Cupisti può vantare quando decide di puntare lo sguardo sulla “sua” America. E uno sguardo attento al sociale non può ovviamente che partire dalle contraddizioni di questo Paese e dai suoi tanti aspetti che non funzionano. Il film lo fa strutturando volutamente il discorso in quattro macro-episodi, tre dei quali confluiscono nel montaggio finale presentato fuori concorso al trentottesimo Torino Film Festival. Episodi che affrontano temi caldi degli Stati Uniti dell’era Trump, con il segmento dedicato agli oppioidi e al loro abuso che finisce sacrificato alle esigenze produttive (ma che verrà ragionevolmente ripescato – come sembra emergere dalle stesse dichiarazioni della regista – in un probabile e auspicato approdo televisivo, medium più consono ad una fruizione episodica, ricercata dalla stessa autrice, e in cui in generale un’opera di questo tipo sembra poter trovare la sua destinazione più congeniale, magari in forma di mini docu-serie). Eliminato quello relativo agli stupefacenti, restano gli argomenti del gun control, quello del divario di ricchezza (che costringe milioni di americani a vivere al di sotto della soglia di povertà e spesso senza una casa), nonché il tema dell’immigrazione, quello più inficiato dai misfatti dell’uscente – surreali battaglie legali permettendo – amministrazione Trump.

Tre temi che nel panorama cinematografico americano hanno trovato ampia rappresentazione, non solo nel mondo del documentario ma anche in quello della fiction. Quello del controllo delle armi, rispettivamente, in Bowling a Columbine e in Elephant, per citare i due esempi più significativi. Due opere esaustive, fondamentali, cui purtroppo si deve già accompagnare l’etichetta di classici del genere, visto che gli anni passano, ma i problemi che provavano a intavolare sono tutt’altro che risolti. E infatti il primo episodio di My America prende il via proprio dall’ennesimo massacro in un college, quello avvenuto alla Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland, Florida, il 14 febbraio 2018. Diciassette vittime, due in più di Columbine. E un Trump che reagisce parlando della necessità – a suo avviso sempre più impellente – di armare e addestrare i professori, affinché venga di fatto legalizzato il far west nelle scuole. Fortunatamente c’è chi quelle parole farneticanti le rispedisce al mittente, iniziando a manifestare e a organizzarsi per cercare di far cambiare le cose in tutt’altra maniera. Sono i ragazzi di March for Our Lives, che radunano mezzo milione di persone a Washington chiedendo una legge sul gun control. L’unica strada percorribile per far cessare quella barbarie passa inevitabilmente – sostengono infatti i giovani – per la riduzione delle armi in circolazione, non di certo per il loro aumento. E la questione del gun control non è soltanto collegata ai massacri nelle High School. Nei quartieri poveri e disagiati delle grandi città i ragazzi muoiono ogni giorno per le strade, vittima di colpi di arma da fuoco, accidentali o intenzionali. A Chicago è sorta un’altra associazione, la GoodKids MadCity, che combatte la sua guerra pacifica contro la violenza e lo sviluppo incontrollato delle armi, ma anche contro quel fenomeno di isolamento sociale che vede il ghetto costantemente relegato nella serie b della cittadinanza (un ragazzo colpito in una sparatoria si dissangua mediamente in circa sette minuti – spiega una giovane attivista -, ma un’ambulanza ce ne mette 25 o 30 per raggiungere i loro quartieri). Due mondi differenti, quello delle High School di bianchi e quello dei quartieri disagiati abitati principalmente dai neri (e, in generale, dalle minoranze). Con due modi di lottare differenti, figli di un divario sociale ancora troppo marcato: i figli delle élite combattono la loro battaglia contro le armi con appuntamenti al Campidoglio, in cui cercano di convincere i deputati inclini ad ascoltarli ad agire senza ulteriori ritardi; i ragazzi dei ghetti di Chicago, invece, si riuniscono nei palazzetti ricordando i caduti, fanno proselitismo nei quartieri e, soprattutto, tengono corsi in cui istruiscono i più giovani sulle pratiche elementari di primo soccorso. Due mondi lontanissimi, che combattono a modo loro e secondo le proprie possibilità, accomunati però dalla grande passione, quella che discende da una gioventù ancora intrisa di ideali e impegno.

È il segmento più interessante del documentario, quello iniziale, ma è anche quello apparentemente più scollegato dal resto del film che, con gli altri due episodi, vira nettamente verso tematiche più strettamente sociali, legate in primo luogo alla povertà. La povertà degli americani costretti a vivere per strada, gli homeless che affollano le metropoli e che in certi casi hanno creato delle vere e proprie città nella città, come la Skid Row di Los Angeles, con le sue migliaia di senzatetto a pochi passi da Downtown e dal Financial District. E la povertà di coloro che in America sognano di arrivare attraversando il deserto messicano, talvolta perdendo la vita. L’episodio centrale, dedicato agli homeless, è forse quello meno riuscito dei tre, sebbene resti a suo modo ben focalizzato sui propri obiettivi. Quando sentiamo dire a uno degli organizzatori dei volontari che aiutano i senzatetto che «Le persone non dovrebbero vivere per strada nella nazione più ricca del mondo» ci sembra di ascoltare una frase profondamente sbagliata, che ancora una volta pone i problemi americani in una scala di valori che pare trascurare il fatto che fuori da quel Paese le situazioni critiche sono ben altre e ben più gravi. E invece, a ben vedere, è proprio quella frase a lasciar intravedere uno dei grandi problemi dell’America di oggi e del mondo occidentale in generale. Perché se non si riesce a garantire un meccanismo di solidarietà e umanità all’interno dei propri confini (dal cittadino ricco al cittadino povero, mediante un progetto assistenziale e di redistribuzione della ricchezza da sempre osteggiato da larga parte della classe agiata americana, da Trump e in generale dai repubblicani), come si può pensare di diffondere tale mentalità in maniera universale, garantendole un approccio globale, da Stato ricco a Stato povero? E così, ancora una volta, tocca all’associazionismo privato farsi carico del mestiere della solidarietà, in questo caso grazie a Share a Meal, l’organizzazione che distribuisce cibo e beni di prima necessità agli homeless di Los Angeles. Allo stesso modo, sono dei volontari quelli che provano a lottare contro gli effetti deleteri delle migrazioni disorganizzate, che ogni anno causano un numero imprecisato di morti tra coloro che si avventurano nel deserto messicano per tentare di superare il confine, per cercare un lavoro, per sfuggire al ricatto della criminalità o per ricongiungersi con la propria famiglia. I Samaritani di Tucson, Arizona, altra onlus che si muove in direzione ostinatamente contraria a quella intrapresa dal proprio governo, si occupano di accoglienza – per coloro che ce la fanno – e di recuperare e identificare le salme di chi invece non ce la fa, di chi muore tentando di raggiungere gli Stati Uniti. Ma cercano anche di mettere in atto un’azione preventiva, andando a lasciare taniche di acqua nel deserto di Sonora, per tentare di salvare le vite di coloro che, nella maggior parte dei casi, sono destinati a morire di stenti, di sete o a causa del caldo torrido.
Insomma, se i temi, come detto, non sono sicuramente nuovi al dibattito, anche cinematografico, relativo alle problematiche del Paese che vorrebbe essere la guida del mondo libero, spesso rivelandosi invece una miniera di contraddizioni e questioni irrisolte e apparentemente irrisolvibili. E se è vero che My America si macchia di una serie di colpe, tra cui, principalmente, quello di incappare in alcuni passaggi retorici un po’ fuori luogo, come l’incipit che cita il prologo della costituzione americana, o come la colonna sonora vagamente surreale, corpo estraneo di innegabile bellezza ma che spesso stona col contesto (e che in alcuni casi evidenzia anche qualche problema di sound mixing). E se – ancora – è vero che la struttura a episodi, pur voluta, priva l’opera di un disegno unitario che poteva essere ricercato senza troppe difficoltà, visti i vari collegamenti tra i temi trattati. Se è vero tutto ciò, è vero anche che l’opera di Barbara Cupisti ha dalla sua un grosso pregio che sembra poter riscattare ampiamente queste mancanze: quello di trattare tematiche così importanti in maniera tutt’altro che superficiale e, soprattutto, di approcciarle da un punto di vista non semplicemente (e facilmente) critico e accusatorio, bensì da quello costruttivo e positivo dell’attivismo disinteressato e dell’impegno civile. Quello che non giudica, ma si rimbocca le maniche. Giorno dopo giorno.

Vincenzo Chieppa

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