29 Novembre 2020 -

MOVING ON (2019)
di Yoon Dan-bi

Dopo l’anteprima e le quattro premiazioni al Festival di Busan 2019, il passaggio all’ultimo Festival di Rotterdam e le tre nomination per Miglior Film, Sceneggiatura e Regia ai Blue Dragon Film Awards, premio cinematografico sudcoreano più in vista, Moving On approda virtualmente nel concorso principale della 38esima edizione del Torino Film Festival. Qui si aggiudica il premio collaterale FIPRESCI come Miglior Film «Per la sua visione sottile della famiglia, della crudeltà ma anche della tenerezza e dell’umanità che caratterizzano i rapporti familiari» e «per l’eleganza e la maturità del suo stile». È il primo lungometraggio della giovane Yoon Dan-Bi, che aveva già stuzzicato il pubblico con il corto Fireworks (2015) e che ora costruisce con la sua camera una storia che segna il successo del suo esordio e le attira i riflettori addosso. Una storia che sfugge alle definizioni, a metà tra un melodramma familiare corale alla Kore’eda, di cui ricorda Still Walking (2008) per il suo modo di raccontare le difficoltà di tre generazioni riunite sotto uno stesso tetto (oltre che per l’abbondanza di cibo!) e un coming-of-age, genere che dai tempi di Pauline à la plage (1983) si teme non possa innalzarsi di più, ma che invece paradossalmente non stanca mai. Quando riesce, infatti, intenerisce soprattutto chi la soglia difficile dell’adolescenza l’ha già superata, e può ora rivedersi in quelle insicurezze e quel senso di indefinizione sofferta.
Poco importa, tuttavia, l’etichetta di genere che si voglia dare a quest’opera prima perfettamente riuscita, ciò che conta è come Yoon Dan-Bi riesca ancora a stupire con la semplicità di una storia che non ha niente di spettacolare nel senso vero del termine. Lo fa con la gentilezza della sua regia pacata e ferma, che non invade ma lascia spazio, che non guida i personaggi né il pubblico ma rimane distante, paradossalmente avvicinando in questo modo lo spettatore ai protagonisti e creando un film naturale e autobiografico che lei stessa definisce «quasi un amico, non una storia lontana», in cui la camera è quasi sempre fissa e costruisce un quadro all’interno del quale i personaggi si “muovono”, in senso letterale e figurato. Tutt’al più si sposta con loro passivamente, lasciandosi trascinare su mezzi di trasporto o precedendoli, accompagnando neutrale quel “moving on”, un andare avanti che dà il titolo e, già dalle prime inquadrature, un senso profondo al film.

La teenager Okju, il personaggio più importante all’interno di una narrazione che pure non si schiera dalla parte di nessuno, è sola nell’ingresso di una casa ormai spogliata di tutto ciò che la rendeva casa perché bisogna andare via, andare avanti. Sale sul camioncino guidato dal padre, nel sedile posteriore sta il fratellino Dongju, sempre allegro, e alle loro spalle gli oggetti della loro infanzia, tagliati fuori dal campo visivo alla prima curva. È la «roba vecchia» che poco più avanti il padre afferma con indifferenza di aver buttato, sono oggetti appassiti, ricoperti di polvere e storie e abbandonati sul marciapiede perché qualcuno li porti via o li prenda con sé, offrendo loro quella seconda mano che è sempre meno preziosa della prima. La macchina da presa precede il camioncino con i tre e riprende frontalmente quanto questi si lasciano indietro: la mestizia di un quartiere modesto di provincia fatto delle proprie memorie e disfatto di cantieri, disordine e muri incrostati. La malinconia del disfacimento della vita nell’istante in cui passa da presente a passato, e diventa ricordo. Su questo la regista costruisce il primo dei tanti momenti empatici, da quando riscalda il tragitto con una canzone che fa da specchio all’animo di Okju ma che sente solo il pubblico: «bramo quel luogo lontano dove vivono i miei cari». La direzione è la casa di un nonno anziano, malato e da loro poco frequentato, e l’approdo è il punto interrogativo di una nuova vita da costruire dopo il fallimento economico del padre. Questo sarà il racconto del film: la calda estate coreana in cui tre generazioni di una stessa famiglia si riuniscono in una inconciliabilità figlia anche dei mutamenti sociali, attutita dall’amore che li unisce e costellata di piccoli dolori.
La storia si apre quindi sull’idea di “andare avanti” e sarà storia di cambiamenti che coinvolgeranno tutti, dal padre che deve reinventarsi e inizia a vendere imitazioni di scarpe di marca spacciandole per vere, al personaggio della zia che entra in scena quando un imminente divorzio la spinge a tornare nella casa d’infanzia, al piccolo Dongju che deve riadattare la sua fantasia al nuovo ambiente, fino al nonno che affronta la sua fase ultima e di declino. Ma soprattutto i cambiamenti coinvolgeranno Okju. Quello a cui si assiste è un assaggio del lento processo di “fermentazione” che gradualmente la avvicina all’età adulta. Un “andare avanti” che non è solo inteso nel fisico sbocciare dell’età che il suo corpo in fiore testimonia (da cui le tipiche insicurezze del non sentirsi mai a posto: pur bellissima, vorrebbe un intervento chirurgico per avere gli “occhi all’occidentale”), ma è l’affrontare il peso del dolore della vita non più attutito dalla beatitudine dell’inconsapevolezza che ancora grazia Dongju. Ora è abbastanza matura da prenderne atto, e la scritta sulla t-shirt che spesso indossa lo suggerisce costantemente: «Love is too short, forgetting is long». Tutti sanno che amare è anche soffrire, ma genera stupore vedere questa consapevolezza addosso a una tranquilla ragazzina, non solo come statement sulla maglietta ma anche nell’espressività del viso che rende il suo umore manifesto.

Lo stupore svanisce solo quando, non troppo presto, si scopre che i due fratelli sono stati abbandonati dalla madre di recente. È questa la prima tonalità di dolore di cui il film si colora, ed è il tono pastello di un dolore sordo e lasciato in secondo piano per quanto in realtà preponderante, che sembra attutito dalla presenza della zia, la allegra e disperata Mijung, presto “sostituta” della figura materna con un ruolo che in qualche modo ne rimarca l’assenza. Nella prima parte il film, quasi tutto ambientato in una deliziosa casetta in legno su due piani tipicamente coreana, si concentra con nonchalance sulle quotidiane dinamiche familiari, in un periodo che è quello delle vacanze estive e che coinciderà con l’intera durata dell’opera. Le prime cene sono accompagnate solo dal rumore dello schiocco dei noodles: la ragazzina è timida, il bambino annoiato, il padre indaffarato tra il lavoro, l’occuparsi del genitore malato e lo studio per passare un esame di cui il pubblico non sa nulla – di nuovo sintomo di una regia non invadente, alla giusta distanza, e proprio per questo così apprezzabile. Attraversando momenti sempre più intimi e sciolti, in cui è dato assistere alle gioie e agli strafalcioni dello stare insieme, un compleanno con troppe candeline e qualche sorpresa, i balli scatenati del bambino, le piccole liti tra fratelli, le prime crisi amorose giovanili e quelle più grosse degli adulti, il film vira verso un già visto che il pubblico accetta volentieri perché ben calibrato, se pure a tratti appaia prevedibile. Il nonno sta per morire, si discute sull’ipotesi di una nursery home e di vendere la casa, si discute di soldi, ennesima pennellata di dolore nel quadro pasticciato della vita di Okju, che con il suo sguardo giovane che non accetta le ingiustizie assiste al volgere al termine dei giorni dell’anziano e alla mediocrità di una generazione come quella di mezzo, disillusa e concreta nella gestione dell’eredità anzitempo. Forse per quell’unione con l’anziano nata lentamente e suggellata nel momento più alto di tutto il film, quando nascosta sulle scale origlia la canzone malinconica che il nonno sta ascoltando in solitudine, sperso nei ricordi di un passato di giovinezza che è il presente di lei e che li mette immediatamente sullo stesso piano.
Il film si conclude in maniera aperta. Il nonno è morto e il lutto è per tutti duro da sopportare, anche per chi sembrava più cinico; questa è l’unica certezza. La casa forse sarà venduta, non è dato saperlo. A concludere la pellicola solo i singhiozzi di Okju: un pianto di liberazione, di rabbia, di crescita e di consapevolezza. Un pianto che parte dalla tavola del salotto, percorre le scale e fluisce non più trattenuto in quella stanza un tempo così contesa tra fratelli, teatro di cattiverie, tenerezze, sonno e chiacchiere. Un pianto che riecheggia in quella casa che si trae vita dall’afflato vitale di tutti i personaggi che la abitano, fino a trovarne uno anch’essa e diventare vera protagonista, come nelle ultime inquadrature con le scale, il salotto, il terrazzo, il giardino, e quella foto di un matrimonio antico che ha dato origine a tutto e che proprio in quel luogo si è consumato fino a spegnersi. Tutti dormono tranquilli ora, e lei, la casa, nel sole silenzioso del primo mattino, viene avvolta da una nuova luce che getta speranza sul domani incerto.

Che arrivi in Occidente un film coreano deludente è molto difficile, in questi ultimi anni di esplosione della cultura coreana in tutto il mondo, “nuova ondata” che prende il nome di “hallyu” e che ha donato a una penisola dalla superficie di un terzo del suolo italiano una visibilità impensabile. Un fenomeno di cui il cinema è una parte importante, tanto che porta in poco tempo a parlare di “Hallyuwood” e di una nuova autorialità fatta di successi plateali, straordinari e ovvi (esemplare il caso Parasite) e di film più dimessi, meno “pop” nel senso più etimologico del termine, come Moving On. Un’opera così silenziosa e personale da passare quasi inosservata tra tutte le altre, ultima e timida arrivata che non smania per farsi notare e proprio per questo balza all’occhio. È delicata, sottile, intima, più vicina forse a quella nuova ondata francese di un tempo che si ricorda come Nouvelle Vague e a quella fetta di cinema asiatico di ambientazione casalinga. Si ritrova il già citato giapponese Hirokazu Kore’eda, richiamato nell’impostazione registica come nel ritratto stesso delle crisi generazionali familiari, contemporanee ma che coinvolgono ogni cultura da sempre e per sempre, o Korei Igarashi nelle sue collaborazioni con il non a caso francese Damien Manivel in quel suo sapersi mettere da parte e lasciare accadere la semplicità di un nulla che sfocia in poesia, e che così aveva colpito il pubblico di Takara – La notte che ho nuotato (2017). Guardando più indietro nel tempo ritroviamo gli umori della quotidianità sincera del coreano Hong Sang-soo (non a caso erede di Rohmer) e del capostipite della nuova onda taiwanese Hou Hsiao-Hsien (di cui ricorda indubbiamente Un’estate dal nonno, del 1984), tra gli altri. Ma è soprattutto dal terreno dell’autorialità giapponese di Ozu che il film trae la sua linfa, con uno sguardo a Viaggio a Tokyo, i cui contenuti sono riadattati in maniera moderna e più edulcorata, e con uno sguardo meno palese ad altri capolavori del regista come Tarda Primavera, nel suo raccontare lo scorrere della vita e dei ruoli che cambiano.
Un film pieno di predecessori e ancora puramente originale, che nel suo essere etereo e nella lentezza dei suoi ritmi e di quel lasciare avvenire le piccole cose di tutti i giorni, come affettare peperoncini, fare i compiti o battibeccare anche sul nulla, ha molto di più da dire sulla vita rispetto a tante trame intricate. Con la sua poetica del quotidiano Yoon Dan-bi veicola qualcosa di più grande, aprendo, o meglio socchiudendo la porta su una normalità in cui è difficile non identificarsi. Perché se anche è vero l’assunto più famoso della storia della letteratura secondo cui a fronte di tutte quelle famiglie che sono felici allo stesso modo «ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», è anche vero che le vicende di ognuno sono più simili di quanto non si pensi. Per questo non c’è differenza linguistica, culturale o sociale che tenga, di fronte alla verità più autentica del vivere familiare. E soprattutto di fronte a cosa significhi crescere. Nella vita, come nel percorso cinematografico di un’autrice che sta definitivamente sbocciando, sempre più protesa verso il sole di un futuro radioso.

Bianca Montanaro

“Moving On” (2019)
105 min | Drama | South Korea
Regista Dan-bi Yoon
Sceneggiatori Dan-bi Yoon
Attori principali Heung-ju Yang
IMDb Rating N/A

Articoli correlati

BALLOON (2019), di Pema Tseden di Erik Negro
NO.7 CHERRY LANE (2019), di Yonfan di Marco Romagna
NAFI'S FATHER (2019), di Mamadou Dia di Nicola Settis
YOU WILL DIE AT TWENTY (2019), di Amjad Abu Alala di Marco Romagna
PARASITE (2019), di Bong Joon-ho di Erik Negro
AGGREGATE STATES OF MATTERS (2019), di Rosa Barba di Marco Romagna