Ormai pupillo del Festival di Cannes, che ospita i suoi lavori puntualmente nel Concorso principale, Kirill Serebrennikov si ripresenta sulla Croisette nel 2024 con un film dalla travagliata storia produttiva, che coinvolge in primis il nostro Paese. L’italiana Wildside acquisì i diritti della biografia romanzata Limonov di Emmanuel Carrère, di grande successo in tutta Europa e non solo, per un progetto che doveva avere al timone inizialmente Saverio Costanzo, ritiratosi poi perché non riteneva il personaggio e la sua storia nelle sue corde. Stesso destino per Pawel Pawlikowski, che però aveva prodotto uno script, a quattro mani con il britannico Ben Hopkins, rimasto alla base del progetto che infine, dopo un ritardo causato dall’interruzione delle riprese (che si stavano svolgendo in uno studio di posa a Mosca) in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa, è finito tra le mani di Serebrennikov. Probabilmente la scelta finale è quella più giusta, anche se tracce di appropriazione culturale rimangono nella scelta della lingua inglese, sia per aiutare il protagonista assoluto Ben Wishaw a calarsi nella parte, sia, usando le parole del regista, «per creare la giusta distanza nella rappresentazione di un personaggio così complesso e controverso». E quindi Limonov – The Ballad, che batte produttivamente bandiera italo-franco-spagnola, è finalmente arrivato davanti ai nostri occhi, anche senza l’iniziale compartecipazione russa e con il set precipitosamente spostato da Mosca alla capitale lettone Riga, mossa che ha fatto lievitare il budget oltre gli inizialmente stanziati dieci milioni di euro. Nonostante le varie mani dalle quali è passato, il film è pienamente ascrivibile allo stile del suo autore, che già con il precedente Summer si era occupato di una biografia artistica, quella di Viktor Coj, innervata da bordate di rock e punk in colonna sonora. Dunque è riuscito ad afferrare l’essenza di un uomo così sfuggente e (all’apparenza) contraddittorio come Eduard Savenko in arte Limonov? Non completamente, e analizzeremo qui di seguito il perché.
L’opera è un lungo assolo dell’interprete britannico Wishaw, perennemente in scena e con la camera attaccata addosso, e ne conferma le doti non comuni, con il ricorso al trucco prostetico per fagli incarnare Limonov nelle varie fasi della sua esistenza. Si parte dalla conferenza del suo ritorno a Mosca nel 1989, da scrittore affermato, e poi si va indietro fino al 1961, con un segmento in bianco e nero che ci mostra il protagonista lavorare in una fabbrica di Kharkiv, pur coltivando ambizioni letterarie. Quando le sue prime poesie solleticano l’interesse del governo, che gli propone di diventare una spia, scappa a New York insieme alla compagna Elena, e qui si trova pienamente coinvolto nel reflusso post contestazione degli anni Settanta, quando il sogno hippie era definitivamente tramontato e Lou Reed era il cantore più esatto e spiritualmente in linea con i tempi. La musica dei Velvet Underground torna spesso in questa prima parte, anche eseguita da altre band sotto forma di cover, usata come rafforzativo ritmico del montaggio, soluzione indubbiamente facilona ma con un suo perché nello specifico. Limonov tocca il fondo, viene abbandonato dalla compagna lanciata in una carriera fotografica rigonfia di cinici sfruttamenti, per poi riemergere dall’altra parte del tunnel nel ruolo che meno gli si addice e gli si addirà in futuro, quello di cameriere di un ricco borghese ben introdotto nell’intellighenzia letteraria. La mossa “giusta” per la sua carriera sarà quella di trasferirsi a Parigi nel corso del 1982, e tre anni dopo il suo Il poeta russo preferisce i grandi negri arriva anche in Italia pubblicato dalla milanese Frassinelli. Tutto questo viene attraversato dall’istanza narrante con un volo a planare, concentrandosi su alcuni momenti ritenuti prototipici e sorvolandone altri. Tutti gli anni Ottanta, per fare un esempio, vengono riassunti attraverso due minuti di (finto) piano sequenza dove il Nostro attraversa stanze e ambienti e, di rimando, tutti i grandi eventi del decennio: la presidenza Reagan, gli attentati a quest’ultimo e al Papa, l’elezione a segretario del Pcus di Mikhail Gorbaciov, il pugno duro del tatcherismo britannico. Il posizionamento politico di Limonov (parola russa che si traduce, oltre al più scontato limone, anche con “bomba a mano”) è mutevole e controcorrente, e un po’ rimanda al personaggio letterario, più a che a quello cinematografico nella versione di Pietro Marcello, Martin Eden tratteggiato da Jack London. Socialista contro i lavoratori, nazionalista nel momento in cui lo Stato è in difficoltà e dissidente nel momento di maggiore fulgore, tra i fondatori alla fine degli anni Novanta del partito nazional bolscevico, tra i numi tutelari per ogni versione di rossobrunismo formatasi all’interno dell’UE. Quanto c’è di tutto questo nel film? Non poco e non molto, anche per l’inevitabile sgrossatura che una riduzione cinematografica deve forzatamente apportare per comprimere un’intera esistenza in poco più di due ore.
Chi scrive non ama particolarmente i biopic, ma non è certo per questo che Limonov convince solo in parte. Lo stile tonitruante di Serebrennikov risulta spesso sovrabbondante, un’aggressione sensoriale che può esaltare o lasciare attoniti e un po’ irritati. Tanto che le scene migliori, probabilmente, non sono quelle del segmento newyorkese ma quelle più intime del ritorno in patria, su tutte la cena con i genitori, con il padre comunista sovietico ortodosso che presagisce lo sfacelo e rimpiange i tempi in cui Stalin «avrebbe messo tutto a posto». Pochissimo trattata, non per caso, l’ultima parte della vita, quella dell’alleanza con Dugin in funzione antiputiniana (sembra strano a dirlo ora, vero?), della formazione di milizie spartachiste, del carcere come dissidente, su cui comunque il film si conclude. E si conclude con un ultimo memento, con la sottolineatura della differenza tra quinta e proscenio, dentro e fuori dalle scene: Wishaw/Limonov esce dal carcere, viene accolto da un’ovazione, i giornalisti presenti non sono contenti e gli fanno ripetere l’uscita, e nel voltarsi per adempiere all’invito CI guarda. Come a dire che abbiamo assistito ad una gigantesca messinscena, perché tutta la sua vita e la sua biografia lo è stata, tanto da diventare il personaggio di un libro che è autobiografico e romanzesco al contempo. Emmanuel Carrère compare nel film, e fa un po’ da nume tutelare a tutta l’operazione. Del resto come si fa a credere appieno a un intellettuale che annovera nel suo pantheon, e tutti insieme, Jim Morrison, Andreas Baader, Yukio Mishima e Lenin? Non può che risultare sfuggente e non facilmente incasellabile, o magari solo sterilmente provocatorio. Serebrennikov, naturalmente, lo sente affine anche per la condivisione di inviso al governo russo e segnatamente a Vladimir Putin, e specie nei segmenti giovanili lo ammanta di un fascino e un carisma di segno diverso da quelli, dottrinali e intellettuali, che effettivamente aveva. La divisione in capitoli inseriti nel fotogramma quasi come installazioni di street art rappresenta uno dei marchi di fabbrica del cineasta, che rende ancora una volta il tutto una sinfonia polifonica a tratti goffa ma indubbiamente viva e vitale. C’è chi apprezzerà molto e chi rifiuterà sdegnato, noi ci limitiamo a posizionarci nel mezzo. Uno schieramento che Limonov non avrebbe apprezzato, e questo ci ancora più propendere per il fatto che sia la scelta giusta.
Donato D’Elia