8 Luglio 2022 -

LES IMAGES QUI VONT SUIVRE N’ONT JAMAIS EXISTÉ (2022)
di Noé Grenier

«La televisione crea l’oblio, il cinema ha sempre creato dei ricordi»
Jean-Luc Godard

La realtà e l’illusione, la percezione e l’immaginario, la memoria e la leggenda. La materia e l’astrazione, a inseguirsi e sovrapporsi rutilanti nell’occhio del ciclone. Ma soprattutto il rapporto fra vita e cinema nella proprietà transitiva delle immagini, viste e quindi intrinsecamente vissute dallo spettatore – «La fotografia è verità, e il cinema è verità ventiquattro volte al secondo», diceva Godard – anche quando spudoratamente finzionali, guardate su uno schermo e metabolizzate come esperienza personale, o magari addirittura solo immaginate. È per questo che importa solo relativamente se qualcuno sia ancora davvero convinto di essere testimone di un’allucinazione collettiva oppure se ci sia solo una goliardica e un po’ cinefila mitologia metropolitana, alla base dell’affascinante circostanza da cui prende le mosse Noé Grenier sin dai cartelli introduttivi del suo straordinario Les images qui vont suivre n’ont jamais existé. Quello che realmente conta per il regista e videoartista francese è volere e poter credere in un ricordo (che si sa benissimo essere) falso, in una memoria collettiva fallace o forse scientemente costruita, in una (non) “verità” che diventa in qualche modo vera e propria professione di Fede. Se non altro nel (dio) Cinema, in quello schermo gigante di fronte al quale farsi trovare indifesi e con l’incredulità sospesa, e sul quale trovare ora un linguaggio per riportare e rivedere, e quindi rivivere ancora una volta, l’allucinazione, l’impressione per sua natura astratta di un’immagine “mai esistita” eppure visibile, riproducibile, in qualche modo tattile nella sua grana e nell’usura della pellicola su cui è impressionata.
Era la sera del 22 maggio 1996 quando, nonostante la proiezione del blockbuster Twister annullata all’ultimo minuto a causa di un allarme tornado, tradizione vuole che buona parte degli spettatori accorsi per l’occasione al Can-View Drive-In di Fonthill, nel sud del Canada, si sarebbero convinti di aver visto lo stesso il film nel mezzo dello scatenarsi della tempesta. Un racconto metropolitano di per sé ammaliante, già (ri)portato al cinema nel 2016 da Jay Cheel con il cortometraggio documentario Twisted dando voce ai (non) testimoni pronti a ingigantire e tramandare quell’evento mai avvenuto, fino allo schermo strappato via nel vortice della tromba d’aria proprio come, in una delle sequenze più riuscite dell’apprezzabile catastrofico di Jan De Bont, il tornado arrivava a spazzare via Shining. In un certo senso, Les images qui vont suivre n’ont jamais existé si pone come un sostanziale controcampo d’avanguardia di Twisted, in cui a parlare per immagini non sono più le persone e la tradizione popolare, ma direttamente il ciclone a cui (non) hanno assistito. Un film in cui non è importante spiegare e narrare cosa (non) sia successo, ma poterlo finalmente esperire, dargli vita su una timeline di montaggio e renderlo finalmente davvero reale su quello stesso schermo già capace di far rutilare i piani di vissuto e finzione fino a convincere un’intera comunità di aver esperito in prima persona una scena (non) vista di un film non (o per lo meno non quella sera) proiettato.

Del resto l’immaginario cinematografico esiste proprio per diventare esperienza, e l’esperienza non può che diventare ricordo e tradizione, e quindi verità insindacabile, da venticinque anni parte integrante della cittadina dell’Ontario e del suo popolo, e adesso viaggio psicotropo nei frammenti in celluloide di un trailer 35mm d’epoca, tripartito su schermi affiancati come nel Napoleon di Abel Gance e contornato dal mascherino di un proiettore per diapositive con il quale destrutturarle, spezzarle, manipolarle, frammentarle, moltiplicarle, velocizzarle, bloccarle, desaturarle, capovolgerle, trascinarle fra perforazioni, fuori quadro, dissolvenze, doppie esposizioni, picchi della banda audio come nuove e aggiuntive saette e imperfezioni di una pellicola ormai usurata dai troppi passaggi in macchina. Immagini da distruggere e ricostruire per renderle indistinguibili, nuovamente allucinatorie, in qualche modo immateriali in tutta la loro fisicità. In un lavoro profondamente radicale, ipercinetico e subliminale nei suoi lampi e nella sua estrema rapidità, con cui Noé Grenier trova definitivamente una forma compiuta alle suggestioni a cui già in passato aveva dato corpo nel 2018 con Flight memory, che si basava sul reinquadrare in digitale la fisicità dei fotogrammi in pellicola, ma soprattutto con la simultaneità sfasata dei tre schermi di James’s song, che nel 2011 riportava brevemente in vita la Laura Palmer di Twin Peaks per farla perdere ancora una volta negli interstizi del tempo. Eppure qui il passo avanti concettuale e linguistico è evidente, non più solo temporale ma anche spaziale e sonoro, non più solo ‘tangibile’ ma anche ideale, sognante, profondamente teorico. A partire dalla scelta, non certo casuale, di realizzare il film in 16mm, con l’ideale ritorno alla stessa materia (anche se questa volta in passo ridotto) che è poi il senso più profondo di questo lavoro.
Non esiste nulla, del resto, che sia al contempo astratto eppure concreto come un’allucinazione collettiva, come un’epifania, come una memoria condivisa, come il cinema. Les images qui vont suivre n’ont jamais existé, trionfatore a Pesaro 2022 con i suoi meravigliosi 7 minuti, si immerge in quel punto oscuro in cui l’immaginario cinematografico e l’immaginazione popolare finiscono per coincidere, e riporta esattamente all’interno della stessa ipnosi di massa, nello stesso tornado di immagini e di lampi che squarciano il buio, nella stessa perdita dell’orientamento, del senso del tempo, del senso della realtà. Una razionalizzazione teorica che ritorna allo schermo e dallo schermo ritorna agli spettatori, questa volta realmente testimoni, con la potenza di una pura emozione, come una spirale circolare audiovisiva in cui farsi risucchiare e perdersi. Dal “film per tutti” a precedere la dissoluzione del logo Warner fino allo spegnimento dei proiettori, la materia del rullo di pellicola diventa pura idea, impressione, lampo di luce, frammento, ipnosi, mentre i volti di Helen Hunt, Bill Paxton e Philip Seymour Hoffman sembrano non esistere più in quanto tali, ma semplicemente come parte di un fotogramma da vedere volare via, come nuove Wendy di Shelley Duvall vero e proprio emblema di chi si ritrova impotente nel mezzo di una tempesta tanto nel meta-schermo di Twister quanto, ancor di più, in queste “immagini mai esistite” estrapolate dal suo trailer. Un’apocalisse di punti di vista, triacetato e movimenti, forte di un altrettanto straordinario sound design di tuoni roboanti, vento e scrosci di pioggia che poi a ben vedere nient’altro sono che il ticchettio di un proiettore, che si innesta come un trauma fra la realtà e l’immaginazione, fra un devastante evento meteorologico e il film catastrofico pioniere nel ricostruirlo con le prime CGI, fra la vita e il cinema uniti da un legame inscindibile, da un reciproco influenzarsi, e poi dalle immagini con cui si ripresenta un ricordo – vero, falso, in ogni caso inevitabilmente cinematografico. Perché a volte, fra il vero e il falso, vince la magia. Basta uno schermo su cui proiettarla, e forse anche in Piazza del Popolo, chiudendo per un attimo gli occhi, qualcuno potrà iniziare a sognare l’arrivo della tempesta dal retro del Teatro Sperimentale.

Marco Romagna

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