È ancora una volta il materializzarsi sullo schermo del fantasma di un’utopia, il cinema di Noé Grenier. Un cinema fatto di cinema con cui ragionare sul cinema, sulle sue (im)possibili fruizioni pubbliche e private, sui suoi formati, sulla sua magia, sulla caducità della sua materia e sulla vita eterna del suo immaginario. Sul suo perpetuo e infinito reiterarsi sugli schermi e nella memoria, e così ogni volta rinascere dalle sue ceneri per diventare altro, nuova forma, nuova impressione, nuova irresistibile fascinazione, nuova emotività da cui essere travolti, nuova allucinazione psicotropa da cui lasciarsi ipnotizzare, nuova deviazione semiotica e semantica in cui tutto si disgrega e tutto si ricompone mentre l’archetipo ritorna dal passato per porsi direttamente come futura avanguardia, e l’invisibile finalmente (ri)appare nella concretezza riproducibile di una (nuova) immagine perfettamente nota eppure al contempo mai vista. Un cinema che si (ri)costruisce, necessariamente, dalla manipolazione del cinema, frantumato e riordinato, decontestualizzato e ricontestualizzato, affiancato e sovrapposto, positivo e negativo. Riprodotto e rifilmato come un lampo di luce nel buio – della sala, dello schermo, dell’atelier in cui è stato realizzato – mentre si ricombina in un nuovo senso da riscrivere in un nuovo Spazio (geografico, e-ste-tico, politico, ma anche semplicemente di posizionamento sullo schermo) e in un nuovo Tempo (di rilettura, di realizzazione, di riproduzione, di fruizione, e più in generale all’interno della Storia con tutti i suoi possibili corsi e ricorsi, fatti a volte di tragedie marxianamente destinate a ripresentarsi come farsa o peggio ancora come nuova tragedia). Elementi di un percorso autoriale perfettamente coerente e via via sempre più stratificato, che nel suo sistematico scarnificare e ricombinare immagini sembra procedere sempre più a ritroso verso la purezza classica del cinema come se stesse scavando fra sue le icone alla ricerca della sua essenza più primigenia, del suo cuore pulsante, dei suoi segreti, dell’enigmatico mistero che si cela dietro al magnetismo di un frame o di uno stacco di montaggio, e ne diventa vera e propria professione di Fede. Prima la ripetizione affiancata e non sincronizzata che in James’s song faceva perdere ancora una volta Laura Palmer (e quindi la televisione, che ha avuto la lungimiranza di produrre e trasmettere Twin Peaks) nelle possibili sovrapposizioni di un cortocircuito spazio-temporale. Poi la fisicità (im)perfetta di una pellicola del 2005, Flightplan di Robert Schwentke, da rifilmare nel digitale di Flight memory. Poi il (trailer) 35mm della non-visione (ma allucinazione) collettiva del precedente e magnifico Les images qui vont suivre n’ont jamais existé, con cui raccontare la storia di una proiezione di Twister mai avvenuta dal punto di vista del tornado che, negli anni Novanta, l’aveva fatta annullare. Ora, i quattro ammalianti minuti di questo L’attaque de la diligence, con cui il discorso di Noé Grenier sembra volersi allargare alla visione privata, casalinga, rimpicciolita a 8mm ma non per questo meno incantata specialmente agli occhi di un bambino, e per farlo ritorna al cinema del 1939 e alla perfezione coreografica della sequenza dell’attacco alla diligenza in Ombre Rosse di John Ford. Un film-simbolo di un regista-simbolo, pietra miliare nella storia della settima arte, ma anche e forse soprattutto un ricordo personale e familiare, nella forma uno di quei rulli-giocattolo di pochi minuti contenenti una sola scena che andavano di moda negli anni Settanta e verosimilmente appartenuto a uno dei suoi genitori (Grenier è nato nel 1987, epoca già di VHS), che dai ricordi d’infanzia a casa dei nonni si è improvvisamente ripresentato agli occhi del regista sulla bancarella di un mercatino dell’usato, pronto per essere messo in macchina e proiettato.
Nasce così da un breve rullo 8mm L’attaque de la diligence, con cui tre anni dopo la vittoria con il già citato Les images qui vont suivre n’ont jamais existé Noé Grenier torna ancora una volta a partecipare a un concorso principale della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Una breve bobina in passo ridotto con impressionata una scena-modello talmente archetipica, emblematica, paradigmatica, influente e fondante di un genere e di un tempo (in realtà anche successivo) del (dio) Cinema da funzionare perfettamente, con i suoi indigeni, con i suoi cavalli e con la sua diligenza che è a sua volta intrinsecamente simbolo di movimento (verso Ovest), anche da sola, senza bisogno di contesto o di cornice narrativa, senza bisogno del “resto del film”. Al punto da essere marchiata sulla sua copertina genericamente come «Western», senza indicazioni né del titolo né della regia di Ford, come a dire che quel momento di Ombre Rosse è IL western classico, la sua incarnazione, la rivoluzione da cui è partito tutto e a cui periodicamente tutto non può che ritornare, e a ben vedere pure la sua capacità (o meglio, in generale quella del cinema) di mentire sapendo di farlo, di creare mitologie e realtà alternative, di propagandare una versione addolcita e autoassolutoria del genocidio dei nativi americani come una sostanziale lotta dei buoni contro i cattivi. Ma è pure, e forse in questo caso soprattutto, una questione intima e personale, un ricordo ben preciso, l’inspiegabile intensità di un’emozione, come una sorta di pietra filosofale della cinefilia familiare di Noé Grenier. Che questa volta si inventa una tecnica con cui filmare in digitale le immagini in pellicola proiettandole più e più volte sul nero di uno schermo LCD smontato, puntando il fascio di luce (consapevolmente sorpassato, obsoleto, ormai generalmente inutilizzato) della lanterna magica sugli standard attuali e moderni (eppure non a caso resi inservibili) della fruizione casalinga, e registrando l’audio del suo lavoro nell’atelier fra passi, fischietti e ticchettii. Un po’ come se la materia stessa del cinema, impegnata a cercare una propria costante ricomposizione (estetica, narrativa, di senso) attraverso i suoi frammenti, non potesse prescindere da un sostanziale passaggio di consegne (sonoro, di montaggio) fra gli autori delle immagini originali e di quelle rielaborate, ma soprattutto fra il passato e il futuro dei supporti utilizzati e della loro possibile funzionalità. Fra il fuoco/fuorifuoco e la visione che diventa parziale attraverso mascherini di varie forme, fra quello che resta visibile sullo schermo e il subliminale che sparisce in un battito di ciglia ma rimane in qualche modo impresso sul fondo delle retine e nell’inconscio, fra l’affiancamento tripartito degli schermi sullo schermo (ancora una volta del Napoleon di Abel Gance) che diventa questa volta un vero e proprio mosaico di formati su più livelli, e l’ipercinetismo inesauribile e stroboscopico di una piccola torcia tascabile con cui “bucare” oppure rendere ancora più luminosa l’immagine. Un processo di appropriazione e di scientifica dissezione delle immagini fordiane che, da qualche parte fra l’assoluta razionalità e la purezza del sogno, Grenier ricombina liberamente come luci, forme, ombre e apparizioni di un moto (perpetuo?) che è costante e (ir)regolare proprio come quello della pellicola che scorre fra gli ingranaggi, trattenuta e rilasciata dalla croce di Malta. Un andamento epico e spettacolare come la potenza bigger-than-life del più grande cinema, e al contempo perfettamente teorico nello spingersi fino all’origine della (personale, condivisa, pubblica, privata) passione cinefila per ragionare sulla natura stessa del cinema, sulle sue tecnologie passate e presenti, sui suoi formati, sui suoi simboli, sulla sua potenza immaginifica, sulla sua ripetizione che poi a ben vedere nient’altro è che la ripetitività della Storia. Sulle sue possibilità (di ri-scrittura, di senso, di fisicità, di immaterialità digitale, ma anche più prosaicamente di attrazione) potenzialmente infinite, e proprio per questo sempre bellissime, utopiche, magiche. Come un’immagine che (ancora una volta) sembra non poter esistere né essere mai esistita, e che invece è forse sempre stata proprio lì, sullo schermo, fra l’immaginario e l’immaginazione, semplicemente in attesa di essere colpita dalla luce giusta.
Marco Romagna