5 Gennaio 2023 -

LA MEMORIA DEL MONDO (2022)
di Mirko Locatelli

Sono personaggi «malati di nostalgia», quelli che vagano fra le nebbie in cui cercare La memoria del mondo. Viandanti sul confine – «wanderer randerung», sottolineerà più volte la voce dentro e fuori dal campo del romanziere protagonista, intento a dettare al proprio registratore vocale appunti o interi capitoli della biografia di quell’artista che sta progressivamente imparando a conoscere nel lungo tempo passato insieme –, che in qualche modo imparentati coi fantasmi in carne e ossa del cinema di Albert Serra procedono in un giro che, se non è proprio a vuoto come il Magimel/De Roller del recentissimo Pacifiction, è per lo meno in tondo intorno a un vuoto, come una spirale concentrica nei meandri di una Grado non-luogo sospeso fra il passato e il presente, mentre la ricerca di una persona scomparsa diventa inevitabilmente una ricerca di se stessi, del proprio passato e della propria identità. È un gioco di specchi e di trasparenze, il nuovo e sorprendente film di Mirko Locatelli presentato fra i Nuovimondi del 40mo Torino Film Festival. Un noir lacustre e rarefatto, raffinatissimo e volutamente anticlimatico, fatto di finestre da incorniciare e di superfici increspate dalle eliche, di case ormai sommerse e di vecchie Polaroid, di campi lunghi nella notte e di rapide soggettive affidate al super8 diegetico dei protagonisti, evidente passo avanti di un autore che, coadiuvato come di consueto dalla co-sceneggiatrice e moglie Giuditta Tarantelli, ma anche dalla strabiliante fotografia di Paolo Rapalino e dall’ottimo equilibrio del montaggio di Fabio Bobbio, sembra finalmente essere giunto alla piena e definitiva maturazione. Con un lavoro perfettamente coerente eppure totalmente diverso da quelli passati, maggiormente ambizioso, spiazzante, radicale, filosofico, coraggioso. Un film, come sempre di corpi, intimamente antonioniano nelle sue dilatazioni sui tempi morti dell’alienazione, straordinariamente elegante nella messinscena minimale dei suoi insistiti pianisequenza, consapevolmente seducente nei suoi fuochi abbacinanti che fendono il buio della notte, e al contempo profondamente teorico nel suo continuo e ondivago esplorare le possibilità espressive di un mezzo e di una personale lingua filmica che sembrano non avere quasi più bisogno di una trama per farsi narrazione, ma solo di tracce, di pretesti appena abbozzati, di puri MacGuffin attraverso le cui maglie lasciare dolcemente traspirare lo straniamento, il timore e l’emozione dell’uomo, e poi il magnetismo delle immagini, la potenza lirica dei tagli di luce caravaggeschi, l’ipnosi collettiva intrinseca di un lento movimento di macchina. La (vera) memoria del mondo, forse. Quella di un cinema, dalla polvere della materia alla pulizia numerica del digitale, che si svela in quanto tale senza nemmeno bisogno di mostrare il dispositivo, ma semplicemente esplorandone le forme e le strutture alla ricerca un proprio personale Romanticismo da qualche parte fra quello pittorico (evidente l’occhio delle inquadrature al Viandante sul mare di nebbia e alL’Abbazia nel querceto di Friedrich, ma anche sulLa zattera della medusa di Géricault e forse pure sulLa barca di Dante di Delacroix) e quello letterario (in testa la voce off che a più riprese costruisce una narrazione infiocchettando il nulla, ma a tratti, nella continua ricerca fisica e metafisica dell’Assoluto/moglie/luogo, sembra quasi riecheggiare pure il Discorso sulle scienze e le arti di Rousseau), con cui intessere nella struttura circolare e nelle figure nel paesaggio, sperdute e indifese di fronte alla Natura proprio come di fronte al passare del tempo, una stratificata riflessione sull’identità, sui ricordi, sui rapporti umani, sulle mancanze, sulla tradizione, sull’amicizia, sulla preoccupazione, sull’amore, sulla necessità di esprimersi. Sull’atto stesso di raccontare (per parole, per immagini, per arti figurative, ma anche per corpi, per musiche, per viaggi, per sepolcri) come unica possibile arma contro l’oblio.

Basta immaginare una donna che non si trova e della quale non si saprà mai la ragione della sparizione, ma che sin dalla primissima inquadratura si sa perfettamente che prima o poi, durante o dopo il flashback, tornerà a fianco del marito. Basta immaginare un artista di cui dover scrivere la biografia, dalle prime osservazioni generiche sulle sue opere all’intimità dell’uomo che emerge sempre più fragile e indifeso fino a una quasi simbiosi fra il soggetto e il romanziere, fino a un rapporto di piena fiducia che diventa reale amicizia, affetto, interdipendenza: non più una realtà di superficie da romanzare attraverso una bella scrittura, ma il romanzo intrinseco nelle profondità del reale da lasciare libero di scriversi da solo in ogni insicurezza umana, in ogni sguardo d’intesa, in ogni pensiero da scacciare, in ogni sincera emozione. Basta un luogo tarkovskiano, affacciato sulla laguna e raggiungibile solo via mare grazie al solerte barcaiolo o attraverso le insidie del bosco e di qualche ponte pericolante, anticamera di un altro luogo che forse ormai esiste solo nei ricordi da bambino, ormai sul fondo di un lago artificiale ma forse per qualche ora destinato a riemergere e a svelare ancora una volta quella vecchia casa mai davvero abbandonata, di fronte a cui finalmente riempire il vuoto di una vita e ritrovarsi come marito, come uomo, come amico, come artista. Basta una vecchia tradizione sospesa fra sacro e profano con cui svelare il proprio intimo e saldare ulteriormente i legami, in una sorta di cimitero galleggiante in cui commemorare le vittime della laguna e del mare, ormai protettori delle nuove generazioni di marinai. Basta lo strazio di uno stimato Maestro che apre per la prima volta uno squarcio sulla semplicità dell’uomo, che senza la moglie non sa nemmeno quali medicine prendere la mattina e la sera, e che senza il consiglio del giovane biografo probabilmente non avrebbe nemmeno pensato a chiamare il medico per chiedere lumi e si sarebbe lasciato andare. Il resto è un fuoco nella notte, un motore in panne in mezzo alla laguna, il ritrovamento di un corpo che non c’entra nulla e di un foulard che invece sembra proprio quello di Helena. È una caduta in una grotta con cui riecheggiare Enea che porta Anchise in spalla, è il fedele seguirsi nell’ignoto di un viaggio lungo come la vita, è una processione di figure senza volto che nient’altro sono che tutti noi, un’umanità in cerca di riparo, di un posto dove stare. È la ricerca di una moglie, è la ricerca di una casa, è la ricerca di un’ispirazione, o forse sono solo i pretesti drammaturgici con cui cercare un nuovo sguardo per (ri)trovare se stessi e allontanare l’oblio, fra la piscina riscaldata dell’albergo di lusso e le nebbie della doccia calda, fra un libro da (imparare progressivamente a) scrivere e un legame che cresce e si ramifica sui moli e sulla superficie dell’acqua. Quello che realmente conta è l’attesa, è la sospensione, è il lento e doloroso disvelarsi dell’inconscio fra il conosciuto e lo sconosciuto, fra il cambiamento costante dei luoghi, dei tempi e delle persone e la mancanza che più attanaglia, fra la paura di sparire e il passaggio generazionale dal Maestro agli allievi. Tre uomini che vegliano l’uno sull’altro, fra una donna scomparsa, un posto ormai sommerso e un (doppio) vuoto da riempire come un blocco da superare, fino a quando i simboli torneranno di carne e di terra, e due ombre finalmente si abbracceranno di nuovo in silhouette dietro a una tenda: è il ritirarsi delle acque, è il ritorno del sogno (im)possibile, è il rimettersi immediatamente in viaggio, di nuovo insieme fianco a fianco. Un po’ come se con il ritorno della moglie e del villaggio fosse riemersa la storia personale dell’artista, la sua identità, la sua anima, il suo talento, il suo zoom che cambia la visuale del Super8 su un saluto dalle alture, in attesa della mostra di cui finalmente potrà completare l’installazione. Perché è l’arte, La memoria del mondo. Quella di Ernst Bollinger, il Maestro, quella di Adrien che nello scriverne la vita finirà per immedesimarsi in ogni suo turbamento, e quella di Giulio che trova sempre il modo per condurre la piccola barca (e chi ne ha bisogno) fino al molo e anche più in là. Ma soprattutto è quella del (grande) cinema che, con poco o nulla, li inventa, li racconta e li fa vivere nelle immagini, nelle non-situazioni, nei giri concentrici intorno alla stessa laguna in cui scoprirsi ogni volta un po’ diversi, forse un po’ migliori, di sicuro ancora vivi, consapevoli, ispirati. Capaci di coalizzarsi, di aiutarsi a vicenda, di capirsi, di affezionarsi, di apprezzarsi, di studiarsi, di imparare costantemente l’uno dall’altro. Di lasciare insieme un segno del loro passaggio, una nuova memoria per il futuro, la propria personale tessera nel mosaico dell’eterno.

Marco Romagna

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