28 Giugno 2018 -

LA JETÉE (1962)
di Chris Marker

Mentre Godard, Truffaut, Chabrol e il resto del mondo dei ‘Cahiers du Cinéma’ fondava il movimento della Nouvelle Vague, si formava sulla “riva sinistra” una serie di registi tendenzialmente più anziani e più legati al mondo della letteratura ma altrettanto immersi nel modernismo degli anni ’60 francesi. La cosiddetta Left Bank ha un comportamento diverso rispetto alla “riva destra” di autori tendenzialmente più giovani e più cinefili, ed è composta da cineasti che spesso collaboravano tra di loro, tra i quali spiccano la Varda e Demy, Resnais e Marker. Se Resnais in quegli anni alternava le produzioni documentaristiche (tra le quali una sommamente interessante è Les Statues meurent aussi, firmata proprio insieme a Marker nel 1953 e anch’esso presente nell’edizione del 2018 del Cinema Ritrovato a Bologna) ai primi lungometraggi scritti da Marguerite Duras e da Alain Robbe-Grillet, Marker dall’altra parte cominciava una filmografia unica in quell’ambiente. Era un vero e proprio saggista del cinema, un autore perfettamente integrato nel XX secolo, con un passato misterioso, una famigerata elusività e una formazione divisa tra gli studi universitari di filosofia, una presenza nella Resistenza Francese durante la II Guerra Mondiale e una carriera da giornalista (e viaggiatore…) marxista insieme a Bazin, che l’ha portato a scoprire il mezzo del cinema. Mezzo che ha sempre deciso di utilizzare per sperimentare con la struttura stessa dell’oggetto-film, che nelle mani di Marker diventa un universo malleabile, complesso, dalle infinite potenzialità poetiche. Ricordiamo, come esempio tra tanti, l’illuminante prologo di Sans Soleil (1983), in cui si parte da una voce narrante che recita «La prima immagine di cui mi parlò è quella di tre bambini per strada in Islanda, nel 1965. [appare l’immagine, nda] Mi disse che per lui quella era l’immagine della felicità, e che aveva provato più volte a collegarla ad altre immagini, ma non ha mai funzionato. [appare un’inquadratura completamente sconnessa, sì con tre figure umane, ma sono uomini adulti che lavorano in un aeroporto militare, con quasi subito uno stacco su nero] Mi scrisse “Una volta dovrò metterla tutta sola all’inizio di un film, con un lungo pezzo di schermo nero. Se non vedono felicità in quell’immagine, almeno vedranno il nero”». Il regista si moltiplica, commenta l’immagine, chiede allo spettatore di vedere nelle proprie immagini le proprie emozioni. E in ciò, esplode l’emotività delle sue immagini e delle sue riflessioni.

Ma La Jetée è di più di 20 anni prima, e c’è di mezzo tutt’un altro modus operandi. Innanzitutto a modo suo è un film di finzione, per la precisione di tipo fantascientifico, anche se in questo stesso periodo Marker stava co-digirendo con Pierre Lohmme Le joli mai, documentario sulle sommosse parigine durante il conflitto tra Francia e Algeria. La Jetée, che suona simile a ‘là j’étais’ (più o meno ‘eccomi là’), che ispirò L’esercito delle dodici scimmie di Gilliam e l’intera carriera letteraria di William Gibson, è una storia di immagini mentali, amore, guerra e viaggio nel tempo, compressata nel tempo di meno di mezz’ora. Un uomo da piccolo, sul molo (‘jetée’) da cui osservava gli aerei, ha visto l’immagine, indelebile nella sua memoria, di un uomo che moriva, di fronte a una donna dal volto gentile. Un giorno dopo è cominciata la terza guerra mondiale, e Parigi è stata rasa al suolo al punto da rendere l’aria irrespirabile per l’alta radioattività. Gli uomini, costretti a vivere come ratti nei sottosuoli, cominciano a sperimentare col viaggio nel tempo, sperando di potersi creare delle finestre in altri momenti nella cronologia del mondo per potersi fornire di viveri per sopravvivere nel presente. Per i viaggi nel passato, si affidano a persone con forti immagini mentali, per poter avere un forte collegamento con momenti specifici e così rendere più facile e meno dolorosa l’operazione per le cavie. Il protagonista riesce ad andare nel passato, come in una specie di allucinazione indotta, dove incontra la donna del suo ricordo, e comincia con lei una specie di relazione. Visti i buoni risultati degli esperimenti, l’uomo viene spedito anche nel futuro, un futuro fatto di ingrandimenti di particelle e textures che si sovrappongono, dove, vedendo esseri umani vivi, capisce che la razza umana è destinata a sopravvivere. Gli uomini del futuro inizialmente lo rifiutano e poi gli danno la possibilità di tornare a vivere nel passato, con la donna che ama, nonostante ciò implichi un sacrificio (dover ri-vivere l’olocausto nucleare), ma lui lo accetta. Nell’incontrarla, alla vigilia del disastro, sul molo, correndo verso di lei realizza di essere egli stesso l’uomo che se stesso da bambino ha visto morire. È la manifestazione pura della tragedia dell’uomo moderno, e l’espediente fantascientifico serve principalmente per mettere in discussione il problema della memoria (e del modernismo tecnologico che si sovrappone alle statue antiche, continuando la riflessione di Les Statues meurent aussi): la guerra compare e scompare come un lampo che squarcia il tempo, ma come può essere percepito da una mente che vive a 360° il tempo? Il protagonista vede il passato, rivive il pre-guerra, in un’allegoria del ricordarsi un mondo diverso, la donna metonimia di un amore che nel presente sarebbe invivibile o addirittura impossibile. Realizzando, durante l’atto stesso della morte, di aver visto esternamente la propria morte crea uno scompenso logico nel fluire degli eventi, ma soprattutto evidenzia l’impossibilità di fuggire dal passato.

Tutte queste riflessioni sulla filosofia del film, che si potrebbe discutere molto a lungo e possibilmente in uno spazio più grosso di quello che possiamo usare in questa sede, però perdono significato di fronte a quello che La Jetée è da un punto di vista strettamente formale: non un film, teoricamente, ma un foto-romanzo. C’è scritto nei titoli di testa, ed effettivamente è così; non c’è movimento, sono fotografie, che susseguendosi creano l’illusione del movimento, come nella tradizione dell’origine del cinema e di Muybridge, a volte ricollegandosi inconsciamente con la logica dello stacco di montaggio netto, e a volte con quella della dissolvenza. Ci sono vari momenti sublimi in cui le inquadrature cominciano a durare sempre meno, così creando addirittura una sorta di montaggio serrato e di tensione mediante un’impostazione assurdamente immobilista. Nella staticità si crea la forma narrativa, e attraverso il montaggio la narrazione svela la propria poeticità: le immagini si richiamano tra loro, si specchiano in riferimenti cinematografici (l’albero di Vertigo, che torna in Sans Soleil), creano movimento. La donna, stesa a letto, viene catturata dall’occhio della macchina fotografica in varie posizioni ravvicinate, e nel momento forse più alto dell’opera le dissolvenze tra queste fotografie mostra un movimento che non c’è, una tenerezza e un amore talmente grandi e incomprensibili da bucare la percezione e da far permeare le immagini in un mistero inafferrabile, lo stesso che poi negli anni ’90 avrebbe trovato grande fortuna creativa nell’uso dello ‘step printing’ adoperato da Wong Kar-wai. Poi però, per pochi secondi, il movimento c’è davvero, e il foto-romanzo diventa film, catturando un risveglio seguito da un sorriso. Il tempo si sospende, il cadavere del tempo catturato in istanti resuscita da uno stadio di stasi fisica per portare nella stasi emotiva lo spettatore: è un momento di effettiva sorpresa, un colpo di scena che però non si ripercuote sulla storia bensì sulla forma, sullo scheletro tecnico-creativo generale. È un film/foto-romanzo davvero necessario e importante, anche perché più di molti altri cristallizza in uno stile definito e unico la ‘grandeur’ nel contempo sentimentale e sperimentale della Nouvelle Vague, al punto che ne risulta davvero difficile l’approfondimento senza dover scendere troppo nei particolari analitici dei singoli momenti. La capacità di Marker di essere nel contempo lirico e sociale nei contenuti e asciutto e antidogmatico nella forma dà al suo cinema una libertà inedita, dal forte valore politico sinistrorso, prepotentemente innescabile come forma base per un cinema del futuro nel substrato estetico dei mezzi che il digitale ci può fornire. Serve un La Jetée dei giorni nostri, una ribellione nella configurazione autoriale dell’ossatura cinematografica. Marker sussurra con le immagini ma la sua voce interiore urla, ha un impatto. E, nonostante quella che segue sia una frase che cerchiamo il più spesso di non dire perché sembra un cliché (ma per una volta ci crediamo davvero), tanto basta per definire La Jetée uno dei grandi capolavori di un cinema che purtroppo pare non esistere più.

Nicola Settis

“La Jetée” (1962)
28 min | Short, Drama, Romance | France
Regista Chris Marker
Sceneggiatori N/A
Attori principali Jean Négroni, Hélène Chatelain, Davos Hanich, Jacques Ledoux
IMDb Rating 8.3

Articoli correlati

THE SUBSTANCE (2024), di Coralie Fargeat di Donato D'Elia
CE N’EST QU’UN AU REVOIR (2024), di Guillaume Brac di Marco Romagna
SLOCUM ET MOI (2024), di Jean-François Laguionie di Marco Romagna
SPECTATEURS! (2024), di Arnaud Desplechin di Marco Romagna
WHY WAR (2024), di Amos Gitai di Marco Romagna
CHE FINE HA FATTO BABY JANE? (1962), di Robert Aldrich di Marco Romagna