5 Settembre 2023 -

LA BÊTE (2023)
di Bertrand Bonello

La presenza nel Concorso principale di un grande festival di un cineasta come Bertrand Bonello è sempre un’ottima notizia, in questi tempi di produzioni banalmente commerciali elevate a un proscenio che non meriterebbero e che non gli serve nemmeno molto. L’innegabile ventata di aria fresca dell’apertura ai generi nel giro di qualche anno si è trasformata in una cannibalizzazione quasi completa, con pochissimi spazi rimasti per il cinema cosiddetto “arthouse” o, appunto, “da festival” e per le sperimentazioni visive, ormai malvolute dal pubblico generalista e da una certa parte della stampa di settore. Il regista francese invece, in tutta la sua carriera, ha sempre tenuto i piedi ben saldi nella contemporaneità, mutando e adattando il suo linguaggio alle istanze emergenti, sia sul piano contenutistico che stilistico (in questo aiutato, per sua stessa ammissione, dalla figlia poco più che diciottenne). Il suo nuovo film, La bête, (molto) liberamente tratto dalla novella La bestia nella giungla di Henry James, è uno di quei mind movie che dividono molto nettamente, con dialoghi e mediazioni molto complicate tra approvatori e detrattori: l’intera redazione di CineLapsus, compreso chi scrive, si posiziona compattamente dalla parte dei primi. Contraddicendo leggermente quanto affermato in precedenza, anche qui si può posizionare agevolmente l’opera nel calderone della fantascienza, ma con uno sviluppo originale e complesso al contempo, debitore dei grandi autori novecenteschi del genere, Philip K. Dick su tutti. Una sorta di aggiornamento, ed ecco il primo dei tanti “tradimenti” a James, delle tematiche contenute nel celebre racconto Ricordiamo per voi, contenuto nella raccolta Rapporto di minoranza e altri racconti, che ha già avuto due trasposizioni cinematografiche, la più celebre delle quali diretta da Paul Verhoeven nel 1990 (in italiano, per ingannare il pubblico e far pensare ad un semplice Schwarzenegger movie, criminosamente intitolato Atto di forza in luogo dell’originale e infinitamente più calzante Total Recall). La novità preponderante rispetto all’epoca di Dick e Verhoeven è quella dell’arrivo, anche nel presente e anche nel “reale”, delle intelligenze artificiali, di semplice utilizzo e alla portata di tutti, che richiede un aggiornamento anche per le opere imperniate sul concetto di utopia/distopia. Ora è (più) facile immaginare i confini e le dinamiche di un mondo completamente governato dalle macchine, non più intese solo come meccanizzazione del lavoro manuale ma anche come repliche iperconsapevoli del cervello umano, capaci di essere tutto, insegnanti e amici. Nel 2044 del film la Terra appare scarsamente popolata, e non è ben chiaro se le persone siano chiuse in casa o morte in chissà quale catastrofe, con un’ambiguità straniante che contribuisce a conferire atmosfera a paesaggi urbani che appaiono sia familiari che alieni.

Léa Seydoux, protagonista assoluta e di straordinaria efficacia, è Gabrielle, personaggio ambiguo che è anche, forse soprattutto, un modo per declinare metacinematograficamente il ruolo dell’attrice e la sua evoluzione/involuzione. Gabrielle abita/interpreta se stessa nel corso di varie epoche, indotte al suo cervello tramite un ago infilato all’interno dell’orecchio in una vasca di deprivazione sensoriale governata da un IA. L’obiettivo, richiamando un po’ il Gondry di Eternal Sunshine… più ancora che l’evidente riferimento al Cronenberg del secondo Crimes of the Future, è quello di purificare se stessi dalla corruzione delle emozioni, l’ultima barriera che divide ancora nettamente (?) chi le prova da chi le simula soltanto. Nel futuro prossimo del film i secoli passati sono un calderone dal quale pescare a piene mani, un’ambientazione, un set cinematografico dove gli astanti vestono i costumi e assumono i comportamenti richiesti, in tema d’interazione sociale e, soprattutto, di approccio all’altro sesso. Perché l’elemento maschile dell’equazione (interpretato da George MacKay, in sostituzione del prematuramente scomparso Gaspard Ulliel inizialmente designato per il ruolo e dedicatario del film) è sempre presente, ed è anche, in un’intuizione indubbiamente brillante di Bonello, quello che muta di più i suoi comportamenti lungo i secoli, passando dalla galanteria signorile del 1910 all’incel sciroccato del (nostro) presente. In quello che è anche un grande film romantico nell’accezione e nella declinazione più moderna possibile, e cioè concettualizzando e verbalizzando tutto, l’attrazione tra due persone (un po’ sul modello Neo-Trinity di Matrix Resurrections) è una costante che resiste indefessa al cambiamento dei fattori. Persino quando l’oggetto del desiderio è diventato la bestia, la pulsione di morte, il pericolo: riproponendo caratteristiche e modalità del cosiddetto “massacro di Isla Vista”, 7 morti compreso l’attentatore e 14 feriti, nel 2014 l’amato Louis, sulle orme dell’Elliott Rodger reale, consegna al web la sua frustrata ultima dichiarazione e va spedito verso la strage. Nel film, l’episodio è la stura per un meccanismo di tensione e home invasion sapientemente gestito, l’innesco del segmento thriller del catalogo, forse il più riuscito. Riportiamo integralmente un brano della dichiarazione programmatica reale di Elliott aka Louis, consegnata a YouTube: «Domani è il giorno del castigo, il giorno in cui avrò la mia vendetta contro l’umanità, contro tutti voi. Negli ultimi otto anni della mia vita, da quando ho raggiunto la pubertà, sono stato costretto a sopportare un’esistenza di solitudine, rifiuti e desideri insoddisfatti, tutto perché le ragazze non sono mai state attratte da me. Le ragazze hanno sempre dato il loro affetto, sesso e amore ad altri uomini, ma mai a me. Ho 22 anni e sono ancora vergine. Non ho mai nemmeno baciato una ragazza. Ho frequentato il college per due anni e mezzo, anche di più in realtà, e sono ancora vergine. È stato molto straziante. Il college è il momento in cui tutti sperimentano cose come il sesso, il divertimento e il piacere. In quegli anni, ho dovuto marcire nella solitudine. Non è giusto. Voi ragazze non siete mai state attratte da me. Non so perché voi ragazze non siate attratte da me, ma vi punirò tutte per questo». La STESSA persona, al cambiare dell’epoca, da sofisticato gentiluomo appassionato di opera può diventare l’esatto opposto; quando il costrutto sociale non accompagna con canoni stabiliti l’interazione tra sessi, l’uomo debole lasciato a se stesso può implodere. Ancora meglio, può trovare identità nello sradicamento, arrivando a rifiutare l’altro sesso per rimanere se stesso. Solo una della tante tracce che si possono seguire per dare una o più interpretazioni a un film che si pone come testo aperto, e che lascia ampio spazio al lavorìo intellettuale del fruitore che può riempire gli spazi vuoti (quasi) a suo piacimento, decidendo di concentrarsi su un aspetto piuttosto che su un altro.

Bonello, dopo il precedente Coma che trattava l’epoca del lockdown con occhi feriti da adolescente, continua ad analizzare il presente attraverso i suoi strumenti, che si tratti di un influencer su un social, del green screen davanti al quale si muovono spaesati attori chiamati a reagire e non più ad interagire, dei pop-up che appaiono su schermo da non cliccare se non ci si vuole imbattere in inquietanti veggenti che predicono il futuro, o del QR code da inquadrare con lo smartphone a cui sono demandati i titoli di coda e persino una scena aggiuntiva mid-credits. Avete capito bene: quando lo vedrete al cinema, distribuito dalla sempre lungimirante IWonder, inquadrate il QR code alla fine, tornate a casa e … il resto lo scoprirete da soli. Il cineasta francese condivide questa presa sul contemporaneo con pochi sodali: uno di questi è il conterraneo Leos Carax (e La bête a ben vedere altro non è che remake/aggiornamento spurio del suo Holy Motors, uno dei dieci film più importanti del XXI secolo), un altro è sicuramente Harmony Korine (vediamo due sequenze del suo estremo, provocatorio, disturbante Trash Humpers che fuoriescono da schermi all’interno dell’inquadratura, in mise en abyme) e, last but not least, David Lynch. Perché Gabrielle è una Betty Elms/Diane Selwyn di un Mulholland Drive 4.0 apparentabile al Sognatore, che sogna e poi vive all’interno del sogno, e prorompe nel segmento finale in un urlo agghiacciante a favore di camera che non può che ricordare quello di Laura Palmer in un tempo che non è più tempo nelle ultime sequenze di Twin Peaks – Il ritorno.
Abbiamo detto tanto e insieme nulla, ma è la natura del lungometraggio stesso che prevede un approccio di questo genere. Al suo interno si trovano tragici annegamenti, una discoteca che replica ogni volta che ci si ritorna la musica di un anno specifico del Novecento, bambole infuocate e bambole senzienti, un intero campionario di bizzarrie, tocchi e rimandi, espressione della sfrenata fantasia del regista e dei cosceneggiatori Guillaume Bréaud e Benjamin Charbit. Uno sguardo al futuro, nel cinema e DEL cinema, che come tutti i lanci in avanti può andare incontro ad un doppio destino: o cult imperituro, o scomparsa nell’oblio. La partecipazione alla Mostra di Venezia numero 80, chiudendo con un “bravo” a Barbera e soci pur rampognati a inizio pezzo, non può che contribuire a indirizzarne la ricezione verso la prima opzione.

Donato D’Elia

“The Beast” (2023)
145 min | Drama, Romance, Sci-Fi | France / Canada
Regista Bertrand Bonello
Sceneggiatori Bertrand Bonello, Guillaume Bréaud, Benjamin Charbit
Attori principali Léa Seydoux, George MacKay, Dasha Nekrasova
IMDb Rating N/A

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