8 Settembre 2016 -

JACKIE (2016)
di Pablo Larraín

Each evening, from December to December,
Before you drift to sleep upon your cot,
Think back on all the tales that you remember
Of Camelot.
Ask ev’ry person if he’s heard the story,
And tell it strong and clear if he has not,
That once there was a fleeting wisp of glory
Called Camelot.
Camelot! Camelot!
Now say it out with pride and joy!
A. J. Lerner, F. Loewe, Camelot

 

Abbiamo già più volte tessuto le lodi di Pablo Larraín, regista cileno fra i più indispensabili della contemporaneità cinematografica, profondo conoscitore della complessità storica, politica e sociale, principale mettèur en scene in attività del potere nelle sue mille sfaccettature e di chi al potere gira intorno: chi lo esercita, chi lo vorrebbe, chi lo subisce, chi ci convive, chi lo perde, chi ne muore. Quello di Larraín è un cinema stratificato, spiazzante, oscuro, dichiaratamente antifascista da figlio ribelle di un fedelissimo di Pinochet, squisitamente coerente nelle tematiche e nel linguaggio poetico e al contempo sempre disposto a cambiare, anche radicalmente, il proprio stile da un film all’altro. È un cinema che alle risposte ha sempre preferito le domande, il dubbio, lo smascheramento delle ipocrisie, che fossero quelle del regime di Pinochet, che fossero quelle della chiesa, che fossero quelle della politica e della famiglia, nel solco di una costante dicotomia fra sfera pubblica e privata che, dopo quella di Neruda, continua adesso con Jackie, il suo settimo lungometraggio presentato in concorso a Venezia e ad oggi, in attesa quasi del solo Lav Diaz dopo le delusioni parziali o complete degli altri grandi nomi in concorso, unico serio pretendente al Leone d’Oro 2016. La prima incursione nel cinema a stelle e strisce del giovane (40 anni appena compiuti) e già sommo regista cileno, probabilmente il migliore della sua generazione tallonato solo dal decisamente meno prolifico figlio d’arte Alexei German jr, è un ingresso in fase già avanzata in un progetto portato inizialmente avanti da Darren Aronofsky, rimasto come produttore con la sua Protozoa, che Larraín ha saputo plasmare a propria immagine e somiglianza riuscendolo a rendere a tutti gli effetti un “suo” film. Confermandosi ancora una volta, pur partendo per la prima volta da una sceneggiatura a firma altrui (Noah Oppenheim, ma siamo piuttosto convinti che parte dei dialoghi e della messa in scena siano stati riscritti dal regista, troppo fedeli alla sua poetica perché non sia stato lui stesso ad adattarli), un Autore in costante crescita, lucido, acuto, politico, coraggioso e mai retorico, pronto a superare i confini del Cile al quale ha (ri)dato una storia attraverso la trilogia su Pinochet per trasporre i temi a lui più cari anche dall’altra parte d’America.

Jackie è il sottile crinale fra politica e spettacolo, è il rapporto fra potere e media, è la trasformazione di un presidente assassinato in un martire ancora oggi ricordato come grand’uomo ben al di là dei suoi reali valori politici e morali, è la creazione di una “verità” storica fatta di polvere sotto il tappeto e sostanziale recitazione davanti alle telecamere, è lo “spettacolo” del funerale di Kennedy, è l’ennesimo e fondamentale sguardo verso il potere lanciato da Larraín attraverso lo spiraglio di luce di una porta socchiusa, rimanendo su una First Lady raggiunta solo sporadicamente in scena dal marito, e mai il contrario. Ma Jackie, nel rutilare della sua struttura a flashback che sposta costantemente il proprio baricentro, è anche la dignità di una donna al contempo delicata e ipocrita, sospesa fra i riflettori ancora accesi per la sua ultima parte da protagonista e la voglia di sparire, la sua forza nell’esercitare brevemente quel potere con cui aveva convissuto per (far) scrivere le pagine corrispondenti sui libri di Storia contrapposta alla sua intima e umana fragilità. Perché Jackie è ancora una volta l’incarnazione del potere più viscido che Larraín ha sempre mirabilmente messo in scena, ma è anche la donna che deve dire ai figli Caroline e John John che il padre non tornerà più, è anche il suo lacrimato omaggio alla bara avvolta nella bandiera statunitense, è anche un figlio che cammina verso il feretro del padre durante le cerimonie di Stato, preso quasi al volo da zio Bob. Il risultato è un film che alla ben nota lucidità politica di Pablo Larraín nell’accusa al potere e alla sua passione per la complessità affianca un inedito respiro umano, dolce e straziante, in un caleidoscopio emozionale che regala a una sublime Natalie Portman, sui primi piani della quale si regge l’intero impianto del film, il ruolo forse più importante e luminoso dell’intera carriera. Jackie è un biopic, Jackie è un melò, Jackie è un thriller, Jackie è un omicidio, Jackie è un incubo, sottolineato da una colonna sonora elettronica straniante nel cambiare i pitch dell’accordo con l’effetto sinusoidale di un disco in vinile a cui viene cambiata la velocità. Ma, soprattutto, Jackie è un paradosso, umano, politico e sociale: è una vedova sinceramente affranta, è una fredda calcolatrice atta a plasmare la Storia.

Jackie, a pochissimi mesi da Neruda, declina con modalità quasi opposte quello che è in sostanza lo stesso lavoro: la destrutturazione del biopic verso un racconto “altro” che sappia creare la realtà anziché limitarsi a raccontarla, in una costante e lucidissima riflessione sulla verità e sulla rappresentazione, sulla sfera privata e sulla sfera pubblica, sul tattico silenzio e sulla dichiarazione che diventa Storia nella creazione di un mito, prima quello di Pablo Neruda in Cile e ora quello di John Fitzgerald Kennedy negli States. Così come nel precedente (capo)lavoro presentato alla Quinzaine cannense Larraín partiva dal periodo da ricercato politico di Pablo Neruda per prendere lo spettatore per mano e trascinarlo in un racconto costruito secondo l’immaginario del poeta, anche il nuovo (capo)lavoro presentato al Lido è tutto fuorché un biopic classico: Pablo Larraín non vuole raccontare la vita di Jacqueline Bouvier, futura signora Onassis, meglio nota come Jackie Kennedy, ma ne sfrutta piuttosto la figura storica per riflettere sulla costruzione della “verità”, mettendo in scena un’istantanea scattata con un’esposizione lunga quattro giorni – da poco prima dell’attentato a JFK all’intervista “ufficiale” rilasciata all’America.
È l’ultimo ruolo come Kennedy per “l’attrice” Jackie, forse quello più importante, quello che cambierà la percezione della Storia attraverso la spettacolarizzazione di una cerimonia funebre, 103 capi di stato presenti e milioni di persone a emozionarsi davanti alle TV. Jackie è stata la più giovane fra le First Lady, la più glamour, la più amata dal popolo per la sua classe ed eleganza, ma anche quella “sempre pronta a fare la valigia”, ripetutamente tradita da un marito che, biblicamente, “non era perfetto, andava a farsi tentare nel deserto, ma poi tornava sempre dalla sua amata famiglia”. La vediamo impegnata, nei giorni narrati da Larraín, nell’organizzazione del corteo funebre del marito secondo le modalità che già furono di quello di Abraham Lincoln, alla cui moglie si era già paragonata nelle spese pazze per arredare la Casa Bianca: un funerale-spettacolo, otto isolati in un fiume di persone in lacrime e di cineprese con cui raggiungere il mondo e la Storia, otto isolati ancora oggi tatuati a fuoco nelle menti dei cittadini americani, otto isolati di sostanziale menzogna, o quantomeno rappresentazione, che diventa la realtà. Quello voluto dalla fresca vedova era un corteo osteggiato da tutti per questioni di sicurezza, eppure necessario per nobilitare attraverso i paragoni illustri la figura del presidente martire, del presidente buono, del presidente “grande uomo”, del presidente che “non ha fatto in tempo a finire ciò che aveva iniziato”, in modo che tutti si dimenticassero dei suoi scheletri nell’armadio, in testa la crisi missilistica con Cuba, perché “Forse Jack (come JFK veniva chiamato in famiglia) non ha fatto in tempo a sconfiggere il Comunismo, ma…”.

Ritratto di donna combattuta fra la vanità e il dolore, fra l’insoddisfazione coniugale e la facciata di perfetta coppia presidenziale, fra l’arrivismo e la fragilità, Jackie fa avanti e indietro nel tempo e nei registri stilistici, costruendo una narrazione che va dalle prove per il discorso in spagnolo prima del celebre attentato di Dallas del 22 novembre 1963 alla presentazione televisiva della Casa Bianca – il rapporto con i media, i sorrisi forzati, la parte principale dell’attrice, ma anche il topos tipico di Larraín sul quale si fonda El Club della casa come prigione –, e contemporaneamente dall’intervista al giornalista che riuscirà progressivamente a penetrare la scorza più coriacea della First Lady facendo emergere le lacrime della donna, “Ma non pensi neanche per un momento che le permetterò di pubblicarlo, perché non l’ho mai detto, e soprattutto – aggiunge poco dopo spegnendo la sigaretta – io non fumo”, fino al doloroso dialogo con il prete: “Quale Dio strapperebbe un padre ai suoi due figli?”. Ed è solo con il sacerdote, quindi con la parte spirituale, che emerge per un breve tratto la sua reale sincerità, la sua reale confessione, il suo rendersi conto di come tutte le pretese per il funerale, più ancora che per la memoria del marito o per la ragione di Stato, fossero per se stessa. Ma non per la vanagloria che più volte Jack/John le aveva imputato, non per la sua vanità, non per la sua visibilità pubblica, ma per la sua volontà di morire ogni notte, sparire, non dovere più vivere questa dicotomia fra privacy e realtà. Jackie ha perso un neonato e un feto, ha perso il marito, ha perso il potere, ha perso i riflettori, ha perso la casa, ma mai ha perso la dignità, al punto da sperare di venire uccisa durante il corteo funebre di JFK perché “il suicidio è da vigliacchi”. Jackie Kennedy è stata un’arrivista, un’attrice, un manichino, ma in quei tailleur alla moda e nel mondo fatato che si è sempre costruita intorno, nella sua Camelot in cui il marito poteva anche avere altre donne ma alla fine tornava sempre da lei, ha finito per crederci per davvero, sinceramente, per poi ferirsi in prima persona quando questo mondo rosa è andato in frantumi, rivelandosi in primo luogo per lei stessa una mera facciata. Continuata poi, qualche anno più tardi, sposando Onassis, l’uomo più ricco del mondo, nuovo e fondamentale passo nelle continue contraddizioni di Jackie, nel suo essere logorata da potere ma non poterne fare a meno, passando dalla politica al denaro. Ma questo Pablo Larraín, intelligentemente, non lo dice, ma lo lascia solo intuire in una fugace chiusa davanti alle vetrine, davanti a quello stesso modello di tailleur con lo stesso identico cappellino: non è cambiato nulla, e forse mai cambierà.

Dopo il digitale in bassa definizione di No! e quello spiazzante e sovraesposto di El Club e Neruda, con Jackie Pablo Larraín torna alla fisicità granulosa della pellicola 35mm, incorniciando la parte dell’intervista in algide inquadrature frontali che tanto ricordano il “processo in famiglia” di El Club e tenendo invece la macchina da presa in costante movimento – che sia a spalla, a mano o in steadycam – nelle parti di flashback. Fino alla ricostruzione del momento dell’attentato, i sensi di colpa di Jackie per non aver capito, per non aver saputo fermare la pallottola, per non aver saputo fermare l’emorragia. Sempre in bilico sul crinale fra il forte personaggio pubblico e la fragilità di una vedova sotto la doccia per lavare via il sangue del marito, Jackie è scossa, indecisa, pronta a cambiare idea, sull’orlo del crollo nervoso: profondamente umana nella sua straordinarietà e nelle sue contraddizioni, perché “a grandi uomini si affiancano sempre grandi donne”. In Post Mortem, dopo l’omicidio avvenuto fuori campo, era l’autopsia di Allende al centro della scena, il suo cuore pulsante, mentre ora, al contrario, è proprio la morte di Kennedy ad apparire sullo schermo mentre l’esame autoptico rimane pudicamente dietro a una porta socchiusa, come un fantasma, come un frammento, come un’idea, come un trauma forse insuperabile. Larraín mostra l’attentato al Presidente con un’inquadratura che è un volo planare sull’auto, sugli schizzi di sangue, sulle parti di cranio staccate che vanno a sporcare l’elegante tailleur rosa della moglie. “Ci sono due tipi di donne, quelle che cercano potere nel mondo e quelle che cercano potere a letto. A me cosa rimane?”, sospira Jackie, mentre i piani narrativi iniziano a incastrarsi sempre più, e dal loro roteare Pablo Larraín tira fuori la lirica più pura, una poetica sublime e devastante pronta a esplodere negli ultimi venti minuti strazianti e ancestrali: una poetica che fa altro racconto dal racconto, complessità dalla complessità, ardore dall’ardore. Jackie è dignità quasi regale, è la maestà di una donna che ha creato il suo Camelot, il regno di re Artù e la canzone tratta dal musical di Broadway a firma di Alan Jay Lerner e Frederick Loewe: “Che nessuno dimentichi che a un certo punto c’è stato un fugace istante di gloria chiamato Camelot”. Perché “Jack sapeva citare a memoria i classici greci, ma la sera, prima di andare a dormire, metteva sempre questo disco”, fatto di uomini semplici che si battono per un mondo migliore. Un’illusione da consegnare alla Storia,ciò  che ha creato Jackie, ciò che ha creato Pablo Larraín, nell’ennesimo capolavoro assoluto dell’abbacinante filmografia di un autore fondamentale. Jackie è un film pienamente hollywoodiano, costruito sulla spettacolarizzazione visiva e sulle star (ovviamente la Portman, ma anche Peter Sarsgaard nel ruolo di Bob Kennedy e un’irriconoscibile Greta Gerwig segretaria personale – «I’m not the First Lady anymore, you can call me Jackie»), e al contempo antihollywoodiano, fatto di piccole alzate di sopracciglio e di linguaggi che si accavallano, giocano con il tempo, instillano dubbi ed emozioni. Perché “alla gente piacciono le favole, ma non ci sarà mai più nessuna Camelot”.

Marco Romagna

edit: Vincitore del Premio Osella per la miglior sceneggiatura a Venezia 73

“Jackie” (2017)
Biography, Drama | USA / Chile
Regista Pablo Larraín
Sceneggiatori Noah Oppenheim (screenplay)
Attori principali Natalie Portman, Peter Sarsgaard, Greta Gerwig, Max Casella
IMDb Rating N/A

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