L’ultimo lavoro di Koji Fukada, presentato a Cannes in Un Certain Regard, è un affresco contornato dal silenzio che porta in sé il senso continuo di peccato e punizione, espiazione e redenzione. Le cordinate apparentemente visibili sono legate indistricabilmente alla tematica più solida di un cinema nipponico di indagine, il dramma familiare. Come al solito tutto appare tranquillo, quando Toshio assume nella sua piccola azienda (fatta in/sotto casa) un vecchio amico dal passato turbolento e misterioso, il signor Yasaka. Quello che appare come un aiuto al reinserimento tra vecchi conoscenti, si sviluppa in maniera quasi perversa nella deviazione dell’ospite verso la famiglia in cui è entrato per magnanimità. Questo interesse lascia dapprima Toshio indifferente, fino a quando il cortocircuito si rivela, la giovane figlia della coppia apparentemente perfetta viene violentata, e il figlio del mostro si ripresenta a casa di Toshio, quasi incosapevolmente. Tutto è apparente, il genere sviluppato nel sottolineare lievemente le tensioni della vita genitoriale e coniugale esplode nel riflettere l’enigma dei rapporti umani e della follia, con un rigore umanissimo che solo nel finale drammatico e disarmante riesce a sciogliersi.
Pare guardare ai giganti in questo film Fukada (Oshima e Kyoshi Kurosawa su tutti), nel trattenersi continuamente, nel cercare in quelle piccolissime sfumature del comportamento la stessa chiave di lettura dell’azione. Mai diretto ed esplicito, sempre accennato, Harmonium è un film che colpisce e ritorna ossessivamente su più fronti, definendo le più controverse direzioni del destino, e la sua accettazione drammatica seppur necessaria. Nella figura del padre, sempre morigerato e continuamente sorpreso dalla scena/quinta della sua stessa vita, si ha l’impressione (sempre implicita) di essere davanti a colui che si lascia sfiorare dalle situazioni senza essere mai in grado di comprenderle. Sempre in ritardo, sempre nell’attimo sbagliato (come lo spettatore, d’altronde), quando l’azione è già conclusa e non si può far altro che raccogliere i cocci. Da contraltare il figlio dell’ospite, colui che torna sulla scena del delitto ignorando l’atto del padre; rassegnato, quasi desideroso poi di subire sul suo corpo (dopo averla subita nell’anima) la redenzione necessaria per andare avanti, per dare almeno un senso alla vita altrui, visto che la sua non sempra poter assumere nessun tipo di valore. Su di tutti poi regna Yasaka l’ospite/mostro, motore dell’azione soprattutto nella sua assenza, di cui non si conosce nessuna motivazione come se già fosse metafora delle condizioni inconoscibili della loro esistenza stessa. La moglie/madre di Toshio come la figlia (che rimarrà paralizzata) sono le vittime, continuamente presenti ma mai artefici, nemmeno per un attimo, della propria possibilità in essere.
Il quadro è intricato, continuamente dissolto tra un personaggio e l’altro, eternamente perduto nei continui punti di vista sbalza(n)ti in cui Fukada riesce a trovare uno splendido ordine ed un forte rigore. Ed è proprio nel finale, tra chi assente viene riconvocato e chi presente si getta verso l’oblio, che il dramma da camera assume un accezione diversa, totalmente esistenziale ed angosciante, come se ad un certo male non si possa trovare rimedio, perchè non più mutevole e movimentato ma silenzioso e strozzato dal vortice di una cascata. Ecco perché in fondo in Harmonium è quel dolore respinto e non governato che muove tutto, proprio perché più forte di tutte queste figure oramai senza futuro, un patimento mai troncato e rimpicciolito perché mai risolto. Fukada accetta il rischio di un film complesso e a tratti senza speranza, oltre che dirigerlo riesce anche ad amarlo, e quella freddezza che lo attraversava diventa un abbandono di anime, accompagnate verso l’oblio con un’immagine sempre più distante e il suono di un pianto disperato e inerme prima del silenzio, quello vero, l’ultimo.
Erik Negro