15 Febbraio 2022 -

HAPPER’S COMET (2022)
di Tyler Taormina

Un assaggio lacerato e sognante delle suburbs newyorchesi in cui è nato e cresciuto. Questo è per il giovane Tyler Taormina il senso più intimo del suo Happer’s Comet, esperimento del tutto personale che nasce documentaristico ma che ben presto scivola nella pura finzione, e che in sessanta minuti senza dialoghi gli vale un posto nella sezione Forum della Berlinale numero 72. È lo stesso regista, assente come tanti suoi colleghi d’oltreoceano a causa delle contingenze pandemiche, a spiegare in un videomessaggio introduttivo la genesi della sua opera, ispirata dalla personalità di questi quartieri che quasi hanno occhi perché quando la notte ti capita di attraversarli a piedi te li senti addosso. La loro immobilità intrinseca che l’isolamento da Coronavirus ha reso ancora più lampante viene ora presa di petto dall’artista, che li attraversa e li squarcia con uno sguardo schizofrenico e onnicomprensivo capace di creare un movimento che diventa “trasgressione culturale”. Girato in periodo Covid con una crew di due sole persone e per lo più con familiari e abitanti del suo quartiere natale di Long Island, il film è infatti l’orchestrazione della loro veglia controcorrente da quando l’iPhone registra le 3,55 fino all’alba, con una struttura circolare. Si apre e si chiude con il grano: una pannocchia su cui scivola un verme e infine un campo in cui ci si ritrova a fare l’amore, a spiarsi o a guardare il cielo dopo l’unione liberatoria, ritualistica e letteralmente naturale del finale. Nel mezzo sta la sinfonia musicale che Taormina costruisce con un lavoro interessante sull’immagine e sul montaggio del suono. Happer’s Comet è il giustapporsi di quadretti perfettamente organizzati da una camera per lo più fissa e con uno sguardo profondamente teatrale, attento alla costruzione dello spazio e in grado di creare visioni bellissime di intimità e di noia: addormentarsi sul divano, fumare una sigaretta, guardare la televisione, alzarsi stanchi dalla poltrona con i muscoli intorpiditi, truccarsi le sopracciglia, osservarsi allo specchio a volte fieri. È così che Taormina regala al pubblico quella soddisfazione così leggera e così umana che tutti hanno quando riescono a scrutare di notte dentro una finestra illuminata (anche di una macchina, che poi è la nuova casa) e a vedere le vite degli altri, nei loro gesti quotidiani sempre così dannatamente simili ai propri. Ma a questo viene aggiunto un tocco di stravaganza, che è l’aspetto più interessante del film e ne veicola forse il senso ultimo: un poliziotto che fa push-up, un cameriere che pulisce il locale al ritmo di Dave Porter di fronte all’unico cliente rimasto che conta un mazzetto di dollari, un uomo che teatralmente si sta per addormentare al volante, una donna che ha nel letto un uomo fatto di stracci con una parrucca e qualcuno che esce di casa nel pieno della notte in pattini a rotelle. Situazioni paradossali, forse. Perché? Ma la domanda non è perché, è “perché no?”. Si può dire che venga in qualche modo ribaltata l’ossessione di svolgere azioni per un fine durante le ore vigili, l’idea di serietà, di scopo anche durante l’ozio e il divertimento, perché la vigilanza in fondo può essere lo stesso non-senso e non-scopo dei sogni. E in fondo cosa distingue la sensatezza nell’accezione socialmente accettata del termine dall’insensatezza? Dunque sì, ben venga pattinare per un quartiere deserto nel pieno della notte. Per il semplice fatto che è possibile farlo, così come sarebbe stato possibile ragionevolmente camminare.

Il montaggio anima insieme in una bizzarra armonia audiovisiva i diversi protagonisti di questa notte americana, come se condividessero la loro veglia che è un sogno strano, in qualche maniera minaccioso ma in realtà profondamente rilassante e comunitario: non ci sono star, nessuno svetta ma ognuno è parimenti protagonista. Anche gli animali, come quel cane che guarda la televisione in salotto, ma soprattutto l’ambiente che è qui quasi animato. I muri, i pavimenti, le luci delle macchine che passano e giocano con il soffitto, i suoni e i rumori della strada che entrano dentro casa ma anche fuori i lampioni, le foglie autunnali, i marciapiedi, gli alberi e le insegne. Da semplice “decor” o meglio “set” – non solo del film ma della nostra vita – sono davvero i manufatti nella loro essenza a ricevere la dignità di personaggi, come se venissero mostrati nudi e vivi e li vedessimo per la prima volta. Il risultato è un film amalgamato dai suoni della tecnologia che rimbalzano tra di loro e si richiamano, e si rievocano, e si fondono, fino a diventare parte della natura e della naturalità: la televisione, le ambulanze, un allarme del telefono, le macchine che sgommano, il fischio del treno e il gorgoglio del filtro della piscina non sono in fondo poi diverse dal rumore delle foglie che mosse dal vento grattano il pavimento, o dal canticchiare del grilli che sentiamo per buona parte del film, o ancora dagli schiocchi di saliva dei baci e del sesso del finale. I rumori più che le azioni sono dunque in qualche modo l’unico solido filone del racconto, all’interno di in un’opera che per il resto scioglie i nodi narrativi per quanto si concluda con un ritorno alla suggestione iniziale.
La chiusura è infatti un ritrovo paradossale di alcuni membri di questo microcosmo a se stante attratti come falene verso quel campo di grano, civette in una veglia lunatica che durerà ancora poco: chi si unisce nel sesso, chi spia, chi semplicemente passa, chi esiste e basta – forse a voler raccontare di un’unione agognata, un po’ pazza e necessaria dopo l’isolamento pandemico, o forse semplicemente a voler raccontare un’unione agognata, un po’ pazza e necessaria perché è giusto che sia esattamente così, folle, libera, indipendente, a suo modo giocosa, come un’intrinseca parte dell’umanità che tenta finalmente di riemergere. Vediamo il volto in primo piano di un ragazzo che guarda il cielo, sorride e ha un cappuccio verde acceso: perché? Beh, perché sì. E infine quel traghetto che taglia l’oscurità mentre procede dando le spalle alla camera, tra il rumore dei grilli ancora non stanchi e i primi bagliori di un sole ancora insonnolito che sorge. Ed ecco che volge al termine un viaggio ipnotico e sensoriale che dopo i titoli di testa – in cui mai si sono visti tanti cognomi uguali – si conclude con l’immagine di una cometa nel blu. Un film che è un canto notturno, che è meditativo nel senso fisico del termine poiché è quasi un ASMR dell’audiovisivo – che va esperito con i cinque sensi a palla e la logica dimenticata perché tanto ce la siamo inventata noi. Un film che lascia il pubblico vagamente stordito, un po’ incredulo e meravigliosamente rilassato quando esce dalla sala, accolto dalle tenebre rassicuranti di una serata berlinese. Presto sarà giorno, qualcuno si vestirà di tutto punto per andare a lavoro, qualcuno rimarrà a casa, ma per tutti sarà il tempo dello “stare svegli” ufficiale, il tempo della razionalità, del comportarsi in società, il tempo dell’appropriato e del sensato. Ma per un po’ ci si può ancora trovare tra le pannocchie, in pattini a rotelle.

Bianca Montanaro

“Happer's Comet” (2022)
62 min | N/A | United States
Regista Tyler Taormina
Sceneggiatori Tyler Taormina
Attori principali Grace Berlino, Dan Carolan, Brandon Cassanova
IMDb Rating N/A

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