4 Dicembre 2019 -

FRANKENSTEIN (1931)
di James Whale

Non si fanno più film come il primo, storico Frankenstein di James Whale. Bisogna sempre immaginare una ri-attualizzazione o una costruzione di senso separata nel momento in cui dobbiamo ridiscutere o perlomeno ritrattare un classico del passato, un qualcosa di iconico e leggendario che fa già parte dell’immaginario collettivo, naturalmente, a differenza di un film recente che va inserito nel contesto del presente. Frankenstein di certo appartiene a questa categoria: il volto tumefatto e truccato di Boris Karloff è uno dei simulacri più evidenti nel cinema dell’orrore, e anche solo per questo il film di Whale dovrebbe essere nei musei, esempio di una rappresentazione visiva definitiva e ineluttabile di uno dei personaggi letterari più celebri, e perciò più complessi da mettere in scena. Il testo di Mary Shelley è qui di rado realmente rispettato, in quanto il punto di riferimento dello script è prevalentemente integrato nella logica di altri adattamenti letterari e teatrali che ne sono stati tratti, ma non è importante. Quello che conta è che il Frankenstein di Whale esiste ed è divenuto un monumento ancora oggi rielaborato (si veda la sonorizzazione noise-rock portata in giro dagli OvO). Non è un Quarto Potere o un Freaks o un Ombre Rosse, non è strettamente riconoscibile e riconducibile a un motivo di storicizzazione, a una rottura tra un mondo e l’altro. Invero, Frankenstein è “solo” un altro esempio di un cinema espressionista, che alterna barocchismo e minimalismo, con un impianto ancora derivante dalle costruzioni scenografiche del muto. È debitore del cinema europeo, certamente perlopiù delle derive delle produzioni tedesche, dei set pittorici del Caligari di Wiene come dell’impatto lirico delle inquadrature sbilenche del Nosferatu di Murnau. Ed è un film figlio delle logiche produttive ‘a sbafo’ di quegli anni, in cui tutto veniva prodotto in massa e si formava sempre di più la base per un’industria d’intrattenimento generalizzata; nel genere dell’orrore stava nascendo il mito di Karloff, ma anche quello di Bela Lugosi, che rifiutò il ruolo in quanto preferiva reputarsi una stella che “uno spaventapasseri”. Non si immaginava che nella costruzione sullo schermo di un personaggio apparentemente lobotomizzato e cartonato come la Creatura, un gigante come Karloff avrebbe potuto creare una dimensione umana che è difficilmente restituibile dalla mera forma del testo scritto. Insomma, pur non attenendosi affatto alla complessità filosofica che l’autrice britannica ha conferito al dilemma morale alla base del personaggio di Frankenstein, il film, che banalizza brutalmente la questione esistenziale in scrittura (a causa del tipo di pubblico che le major cercavano in quel momento; dacché anche il cambiamento del nome del Dr. Frankenstein da Victor a Henry per “americanizzare” il progetto), riesce a fare qualcosa che sembrava impossibile, creare un’espansione empatica per il mostro, forzare, al di fuori di ciò che la storia rappresenta, una maschera riconoscibile e riconducibile a standard letterari ben distanti dal significante della storia.

Dunque, Boris Karloff è diventato Frankenstein, neanche più la sua Creatura, ma proprio Frankenstein – altrimenti, il titolo del sequel La moglie di Frankenstein non avrebbe avuto senso. Le logiche commerciali hanno inglobato una costruzione hollywoodiana totalmente astratta rispetto alla materia cartacea. In questo senso, anche, l’icona del film di James Whale è difficile da descrivere… sono proprio logiche produttive distanti da quelle degli adattamenti moderni, ci si confronta col testo in modi sempre diversi, e il rapporto col pubblico è ormai maturato fino a una degenerazione d’intenti in cui, oramai, si capisce poco o niente. Ma film così non si fanno più anche perché, dietro tutta questa destrutturazione del testo che poi diventa per forza di cose, tramite il passaggio del tempo, un continuo simbolico dell’immaginario, si cela in realtà il seme genuino per una modalità cinematografica che col tempo ha sempre più alimentato l’eventuale affermazione del grande cinema di genere. Perfettamente sospeso nel tempo tra Mabuse e la trilogia dell’orrore di Tourneur e Val Lewton, Frankenstein restituisce allo spettatore moderno sì un’umanizzazione visiva, sì un’esperienza d’intrattenimento funzionale secondo logiche commerciali desuete, ma soprattutto un grande esempio di inserzioni stilistiche (perlopiù espressioniste o gotiche) la cui iconografia è una sberla alle convenzioni – la regia e la scenografia tagliano lo spazio in forme geometriche, seguendo la logica narrativa spesso con stacchi illogici (persino un involontario jumpcut, trent’anni prima di Godard!) e perlopiù immaginando una geografia fiabesca, analoga ai disegni a carboncino di un libretto illustrato. L’ombra devasta la luce e le forme hanno più espressività delle espressioni. Certo, son tutte caratteristiche che probabilmente derivano dal movimento espressionista, ma da qui ad accusare di manierismo il cinema di Whale ce ne vuole; la verità è che, per quanto si stessero formando appunto delle logiche commerciali nella distribuzione cinematografica e non si utilizzasse ancora il termine ‘autore’ per delineare determinate figure, Frankenstein appare come un lavoro che sfrutta la sperimentazione per applicarla a qualcosa di pre-esistente. Non è solo forma, e non è solo un tributo o una ideale rappresentazione fedele di qualcosa di ormai totalmente integrato nell’immaginario, è intrattenimento, sì, ma in cui la costruzione è più curata del punto d’arrivo, in cui il puro spettacolo conta meno dell’evocazione di uno spazio o di un mondo in cui poter far rivivere, con simboli nuovi e semplificati, altri simboli letterari (che rischiano di sfociare in pura astrazione verbale, nel caso del capolavoro di Mary Shelley). Si potrebbe dire che l’operazione parte da presupposti volgari e ingenui ma ci parrebbe insincero verso, appunto, un modo di esistere del cinema che ora avrebbe veramente poco senso cercare di attaccare; alla fine non sono solo le immagini di Whale e l’ipnotico volto di Karloff a restituire un’esperienza entusiasmante, Frankenstein è davvero un grande film, una visione entusiasmante senza fronzoli.

Basterebbe il senso di epica riscontrabile nel prologo e nell’epilogo, in cui ogni gesto è seguito con dinamicità e una grande precisione matematica. Le inquadrature, perlopiù fisse, sono piccoli quadri in cui è valorizzato il chiaroscuro, e sono tra i più clamorosi esempi delle potenzialità di grandeur date dai fondali della Hollywood della Golden Age, in particolare poiché non descrivono spazi ad ampio respiro come i grandi blockbuster in costume o come i più sgargianti musical bensì, appunto, piccole vignette gotiche, in cui il respiro e la plausibilità sono date unicamente dall’impostazione dell’inquadratura in base alla profondità di campo e alla posizione della cinepresa, poiché c’è davvero… poco altro. È tutto costruito da poco, ed evocato con poco – diventa un gioco con la credibilità della storia da parte dello spettatore, in maniera semplice e ancora efficacissima, anche perché lo choc è incredibilmente diverso da come solitamente è trattato nell’ideale horror statunitense: non era canonizzato, qua si risente l’inizio di un’influenza umana e registica più che narrativa. In questo periodo tra Browning e Whale e altri, l’horror ha avuto grandi apici, e molti di questi sono nella retrospettiva (che in realtà è poco più che una rassegna di capolavori perfettamente noti a qualsiasi studente di cinema, senza reale ricerca) del TFF di quest’anno, linguisticamente problematica a causa dell’organizzazione poco focalizzata dei contenuti e della carenza di vere e proprie proiezioni in pellicola salvo rari casi. Deo gratias che riusciamo ancora a godere di certi capolavori, nonostante altri siano troppo dimenticati, in nuove forme e grazie ai restauri, ma è difficile vedere (e in realtà anche ricordare o immaginare…) Frankenstein con la grana digitale moderna che abbiamo visto al Reposi. Ma poco importa, quando la Storia dell’immagine è talmente imponente da creare eventualmente una coincidenza totale con l’immaterialità dell’emozione e delle possibilità dell’intrattenimento, al punto da sfondare le barriere dell’obsolescenza, e restituire la grandezza.

Nicola Settis

“Frankenstein” (1931)
70 min | Drama, Horror, Sci-Fi | USA
Regista James Whale
Sceneggiatori John L. Balderston (based upon the composition by), Mary Shelley (from the novel by), Peggy Webling (adapted from the play by), Garrett Fort (screen play), Francis Edward Faragoh (screen play), Richard Schayer (scenario editor)
Attori principali Colin Clive, Mae Clarke, John Boles, Boris Karloff
IMDb Rating 7.9

Articoli correlati

KNIVES OUT (2019), di Rian Johnson di Nicola Settis
GUNS AKIMBO (2019), di Jason Lei Howden di Nicola Settis
FRANKENSTEIN: it's a live! – Gli OvO sonorizzano FRANKENSTEIN (1931), di James Whale di Marco Romagna
RESURREZIONE (2019), di Tonino De Bernardi di Erik Negro
THE DARK AND THE WICKED (2020), di Bryan Bertino di Marco Romagna
PADRONE DOVE SEI (2019), di Carlo Michele Schirinzi di Marco Romagna