30 Marzo 2016 -

FAUST (1926)
di Friedrich Wilhelm Murnau

È stato emotivamente intensissimo rivedere Faust di Friedrich Wilhelm Murnau al Cinema Arsenale di Pisa con l’accompagnamento musicale di Mauro Orselli alle percussioni e Giovanni Macciocu al violoncello, anche grazie ai nevrotismi prepotenti del primo e all’armonica inquietudine penetrante del teso stile del secondo. E ci è sembrato giusto recuperare uno (tra i tanti) capolavori di Murnau qui su CineLapsus. Ma è sempre difficile confrontarsi con questi colossi della Storia del Cinema (c’avevamo già provato con Possession, La donna che visse due volte, Satantango…), perché ci si ritroverebbe a discutere dei punti fermi, dei monumenti, ed è difficile dedicarsi ad analisi stilistiche su film che sono stati rivoluzionari e importanti per introdurre innovazioni tecniche necessarie per tutto il cinema successivo, e quindi sarebbe stolto e ambizioso dilungarsi troppo sugli intellettualismi del caso credendo di poter dire davvero qualcosa di nuovo sull’Espressionismo Tedesco o sull’uso allora inedito di dissolvenze e sovraimpressioni nel montaggio del cinema muto. Forse è meglio invece interrogarsi su come, oggi, nel 2016, possa essere ancora utile a livello culturale un recupero di questi film che non sono mai abbastanza indimenticati.

Innanzitutto viene automatico un paragone col recente capolavoro di Aleksandr Sokurov, vincitore del Leone d’Oro a Venezia nel 2011, anch’esso intitolato Faust e tratto liberamente dalla leggenda resa celebre prima da Christopher Marlowe e poi soprattutto da Goethe. Si può dire che la differenza sostanziale tra i due film, a parte l’approccio stilistico che è naturalmente legato alla differenza d’epoca, sta nel fatto che in Murnau è ancora insita la necessità primordiale del Cinema, quello che ha reso celebri per esempio i primi capolavori Disney, ovvero il bisogno di restituire al mito (o al folklore o alla favola: il titolo originale del film del resto è Faust: Eine deutsche Volkssage, ovvero “Faust: una leggenda popolare tedesca”) le immagini che ancora non aveva. Sokurov invece è già in un’ottica diversa, quella della rilettura, della trasformazione della storia (e della Storia) in un discorso più o meno moderno. Il film di Murnau è un monolito, quello di Sokurov un quadro a olio; oppure il film di Murnau è una replica della stele di Rosetta e quello di Sokurov una sua traduzione libera. Ma hanno anche una cosa in comune molto potente e interessante: entrambi i film concentrano buona parte della loro attenzione sull’affettività, una parte importante nella storia originale, ma che va in secondo piano rispetto al conflitto tra Bene e Male o rispetto alla riflessione sull’anima umana. La differenza del contesto però può essere legata al cambio d’epoca (e quindi al cambio d’etica e non solo al cambio stilistico in questo caso), in quanto il film di Murnau mostra l’amore (anzi: la parola “amore” – cioè “LIEBE” – in sovrimpressione su pellicola mandata dall’arcangelo a Mephisto) come forza schiacciante che elimina il Male, mentre il film di Sokurov è concentrato sulla sessualità, sulla repulsione, sul desiderio come forza motrice del Male interiore dell’uomo, sul conflitto tra spirituale e concreto ovvero tra divino e carnale. Ma il film di Sokurov, del resto, per quanto sia un’ipercinetica galleria di scene che si discostano molto dalla sequenza degli eventi originale, è un film rilassato, diretto ma sottocutaneo, che l’impatto emotivo lo trova grazie alle immagini e ai dialoghi e non ai personaggi e ai loro drammi: lo sbilanciamento emozionale è uno sbilanciamento comunque legato ad una riflessione intellettuale e non ad un bisogno viscerale o ad una vera esplosione dei sensi. Il film di Murnau, invece, è un vero e proprio melodramma, d’impatto emotivo completo in maniera tragica e dogmatica, perché è una storia d’amore tradizionale, anche se infiocchettata dal cupo, dal gotico, dall’angosciante, dal religioso. Così detto sembra quasi che sia un difetto del film di Sokurov, come se al giorno d’oggi avessimo bisogno del “Cinema complicato” perché ci siamo rotti le scatole della semplicità e della semplice potenza visiva ed emotiva che il Cinema riesce a darci da sempre, ma in realtà è solo un valore aggiunto del film di Murnau, che riesce a ricordarci quel tipo di grandezza che a volte, probabilmente, ci manca – e anche lì sta la grandezza dell’Espressionismo, tedesco e non, e del cinema muto tutto.

I volti di Murnau sono mostri che trascendono la materia dell’inquadratura, che sorpassano lo spazio, maschere tragiche (non dissimili dalle maschere del teatro greco o del teatro kabuki) che esistono quasi come se fossero, o coincidessero con, strati di spazio nell’aere. Una sequenza che alcuni tendono a dimenticare, prediligendo naturalmente i celebri prologo ed epilogo, è quando Gretchen (o Margherita) viene scovata in mezzo alla bufera con il figlio congelato tra le braccia, morto assiderato e seppellito dalla neve, e dopo essere stata accusata di infanticidio il suo viso urlante va in sovrimpressione su tutta l’inquadratura mentre una carrellata all’indietro ci trasporta dove sono Faust e Mephisto, che l’hanno ascoltata e agiscono di conseguenza. È appunto l’emotività che trascende tutto e supera tutto, anche la narrazione, anche lo spazio e il tempo, anche l’unità narrativa, quindi – e questa è, di per sé, la grandezza potenziale di qualsiasi mezzo narrativo, il riuscire ad essere meraviglia anche a prescindere dal narrativo. Sokurov permea i propri volti di luce, trasforma le espressioni facciali e le loro illuminazioni e distorsioni nell’unica vera comunicazione: ma nel Faust di Murnau è tutto costruito, è tutto mito, è tutto già esso stesso luce, la luce che nasce nel momento teorico della rappresentazione cinematografica del Faust. È vero che l’autore tedesco fa penetrare il proprio film in un buio senza via di fuga, che seppellisce i personaggi sotto strati e strati di spaventosa oscurità, ma è un buio imponente e maestoso, un buio quasi paradossale, sconfitto dal fuoco del finale o dalla luce dell’arcangelo.

La moralità intrinseca di questo cupo e necessario immaginario leggendario fatto di prospettive falsate, modellini, costumi e trucchi, ed effetti speciali “primitivi” serve dunque a costituire quello che potrebbe essere, se non il film più bello di Murnau (ce ne sono di rivali…), perlomeno quello più maestoso, quello che la Storia ricorda e ricorderà come il fantasy cupo per eccellenza, simulacro di meraviglia e inquietudine, movimentata e fumosa tragedia sulla corruzione dell’animo umano ma anche sull’influenza dell’amore su di esso. E l’animo umano di cui mette in scena le trasformazioni, le guerre, i conflitti, è lo stesso animo umano che i film li crea, li plasma, e che i film li guarda, li recupera, li comprende e li accetta, lo stesso animo che di fronte alla marmorea fermezza del Faust di Murnau risponde con l’inchino con un movimento automatico.

Nicola Settis

“Faust” (1926)
85 min | Drama, Fantasy, Horror | Germany
Regista F.W. Murnau
Sceneggiatori Gerhart Hauptmann (titles), Hans Kyser (titles), Johann Wolfgang von Goethe (play)
Attori principali Gösta Ekman, Emil Jannings, Camilla Horn, Frida Richard
IMDb Rating 8.1

Articoli correlati

ALGOL. TRAGÖDIE DER MACHT (1920), di Hans Werckmeister di Marco Romagna
BROKEN RAGE (2024), di Takeshi Kitano di Donato D'Elia
LA ZARINA (1924), di Ernst Lubitsch di Marco Romagna
SATANTANGO (1994), di Béla Tarr di Nicola Settis
L'ORTO AMERICANO (2024), di Pupi Avati di Marco Romagna
JOUER AVEC LE FEU (2024), di Delphine e Muriel Coulin di Donato D'Elia